Palanfrè-Trinità
Passo della Garbella
18 settembre
Diario di viaggio
Tappa di notevole interesse naturalistico, per l'attraversamento del bosco di faggi secolari a monte di Palanfrè e il passaggio dalle montagne calcaree al massiccio cristallino dell'Argentera, con un repentino cambiamento dell'aspetto dei monti.
Quando sporgo il naso fuori dalla porta, intorno alle 7, fa freddissimo e l'aurora è ingrigita da spesse velature. Per stasera è prevista neve fino alle medie quote. Per fortuna alle 9.30, quando partiamo, la temperatura è più sopportabile, anche se comunque oggi staremo tutto il giorno coperti, pure in salita. Nel primo tratto seguiamo una strada, asfaltata fino a una piccola azienda casearia, poi sterrata. Ad un bivio imbocchiamo la pista di destra e poi il sentiero che ne taglia un tornante e attraversa il secolare Bosco del Bandito. Il nome deriva da un divieto di taglio dei faggi, documentato dal XVIII secolo ma probabilmente preesistente, in quanto Vernante era abitata già in epoca pre-romana e la colonizzazione stabile dell'alta montagna data al più tardi all'Optimum Climatico bassomedievale. Erano protetti perché riparavano Palanfrè dalle slavine che si staccano da un canalone a monte dell'abitato. Alcuni faggi sono davvero imponenti; sono ricoperti di muschio, per via di un clima più piovoso di quello del resto delle Alpi Occidentali, dove in genere la loro corteccia è spoglia. La piovosità sembra compatibile con la presenza di abeti bianchi, che però non in questo bosco ci sono, pur se tuttavia la zona sopra tetti Bertaina si chiama Costa Sapè, da sap, il loro nome patois; è quindi possibile che fossero diffusi in passato, quando il clima era più rigido. Sempre grazie all'elevata piovosità, intorno al bosco proliferano gli ontani. Diversi tronchi sono incurvati alla base, per effetto del peso della neve, che almeno una volta era assai abbondante (in quota le precipitazioni invernali erano di 300 mm, nel periodo 1921-1950). La neve copiosa ha anche reso molte chiome irregolari. Nella zona che attraversiamo noi, gli alberi non sono eccessivamente fitti, ma in compenso imponenti. Non ci sono molti rami o altri residui vegetali accumulati sul terreno, nonostante il divieto di raccolta, perché la velocità di decomposizione della lettiera è sufficiente. Nella zona bassa, il sottobosco è poco sviluppato, per via dell'ombreggiatura, anche dovuta all'esposizione a nord, mentre in alto, dove gli alberi sono più piccoli e lasciano filtrare più luce, è costituito da mirtillo e erbe, senza cespugli né felci. Il sottobosco rado è molto amato dagli uccelli, che hanno maggiori possibilità di muoversi, per cui questo bosco ne ha un'elevata biodiversità, nonostante la limitata estensione.
Di nuovo sulla strada, la seguiamo per un altro tratto. Incontriamo un pastore che sta riavvolgendo il filo che delimita l'area di pascolo delle vacche. Ci dice che quest'anno c'è pochissima erba e pochissima acqua, tanto che è costretto a scendere ogni sera verso valle per farle bere. Spera nelle quattro gocce previste per stasera per poter tirare ancora un po' in lungo la stagione; è da un bel po' che va avanti così, giorno per giorno. Poco più avanti il sentiero si stacca dalla strada e sale verso il colle della Garbella con un ampio giro. Per questo i soliti vettaroli, qui diretti al Bussaia, consigliano di trascurarlo e proseguire diritti verso un evidente canalone di frana e salirlo per la diretta, per arrivare prima.
All'imbocco un cartello segnala che sono in corso dei lavori di sistemazione del sentiero finanziati dalla regione. Il tracciato bordeggia un alpeggio e poi punta verso la base del Monte Garbella, per un largo canale colonizzato da cespugli. Qui la vegetazione ha già assunto i colori autunnali e il mio obiettivo si lascia attrarre in particolare dagli epilobi d'argento. Peccato solo che il sole sia velato, perché altrimenti anche i faggi contro il cielo azzurro sarebbero un soggetto molto fotogenico, per non parlare di aceri e frassini solitari. Arrivati quasi ai piedi di una parete calcarea, sulle cui cenge crescono un acero e dei cespugli di mugo, ci copriamo con il guscio, per ha preso a soffiare un vento freddo e teso. Questa zona sembra essere un circo glaciale pleistocenico, ma non ne sono sicuro del tutto, perché la roccia calcarea tende e perdere facilmente le forme glaciali, per via dell'erosione dovuta all'acqua. Sui tornanti che ci portano alla dorsale troviamo gli operai forestali, intenti ad allargare con un ruspino la traccia del sentiero; altri poi provvederanno a rinfrescare le segnalazioni di vernice ormai sbiadite. Ci spiegano che la regione ha finanziato dei lavori di ripristino della GTA, perché è un'attrattiva turistica per gli stranieri. Il caposquadra non si capacita che degli italiani come noi la stiano percorrendo e ci interroga incredulo.
Ancora pochi passi e siamo sulla dorsale. Il cielo resta grigio, con il sole coperto da velature, ma i colori sono lo stesso attraenti: il calcare bianco, i mirtilli rossi, l'erba dorata, i mughi verdi. Tra l'altro credo che questi mughi siano al limite del loro areale: sono infatti presenti sulle Alpi Liguri, per poi scomparire dal resto delle Alpi Occidentali, dove la loro nicchia ecologica è occupata dai cembri e dagli uncinati. Riappaiono infine nelle Alpi Orientali, dove colonizzano diffusamente i ghiaioni ai piedi delle guglie dolomitiche. Questa vicarianza geografica tra i due estremi delle Alpi è molto comune e vale per un sacco di ambienti e specie. Restiamo sulla dorsale e puntiamo verso la piramide della Rocca d'Orel, osservando delle nuvole risalire dalla pianura verso le valli. Dalla dorsale si riconosce chiaramente la forma morenica del dosso su cui sorge Palanfrè e si notano le estese tracce di bestiame intorno al dimenticato gias Pianard, quasi un'installazione di land art bestiale. Il termine occitano gias designa il letto di paglia su cui stanno gli animali in stalla e, per sineddoche, tutto il ricovero del pascolo estivo. Proseguiamo oltre il colle per cercarci un luogo riparato dove pranzare. Lo troviamo su una spalla, lungo il traverso verso il Caire di Porcera.
Da questa posizione apprezziamo molto bene la diversa morfologia dei due versanti del vallone del Sabbione. Il nostro è quasi interamente erboso, mentre l'altro è assai dirupato e quasi privo di fazzoletti verdi. La roccia sotto i nostri piedi sta infatti completamente cambiando natura. Di qua è calcare, proveniente da sedimenti della placca oceanica, molto erodibile, che produce vaste estensioni di terra, anche parecchio fertile. Di là ci sono invece i graniti e gli gneiss della placca africana, molto coriacei, che non si sfaldano. La valle Gesso è quasi interamente costituita da questi ultimi, per cui, come ben sa chi l'ha girata, presenta pochissime zone erbose adatte al pascolo, essenzialmente sui vecchi bacini lacustri di origine glaciale colmati dai detriti. Osservando il versante opposto, notiamo inoltre dei sistemi di cenge e ci chiediamo se vi corressero dei sentieri di cui si è persa la memoria. Difficile dire se ci fossero degli alpeggi su quel versante così impervio, ma camosci e cacciatori ci saranno sicuramente andati. Quando ero ragazzo, un vecchio genovese, che veniva in vacanza a Entracque fin dal dopoguerra, mi raccontò di una traccia di selvatici, che dal passo Carbonè proseguiva lungo la cresta, fino a non ricordo più bene dove.
Il sole ci regala del tepore passeggero filtrando a tratti tra le nubi. Il sentiero prosegue poi perdendo gradualmente quota fino al Caire di Porcera. Penso che la prima parte di questo toponimo indichi un luogo che precipita quasi verticale su un versante, perché lo ritroveremo anche domani in una cima dalla forma simile. Quanto ai maiali, una volta si usava allevarli insieme agli animali da latte, nutrendoli con il siero che altrimenti sarebbe stato sprecato, ma da secoli ormai questa tradizione è andata esaurendosi. Ci affacciamo sul precipizio, che fa girare la testa.
Il sentiero scende poi a stretti tornanti verso una zona molto infossata. In alto attraversa prati, ma poi compare la vegetazione legnosa, a maggioranza di ontani, la vegetazione tipica dei canaloni di slavina. Due del gruppo in avanscoperta affermano di vedere uno stambecco, che si dilegua tra i dirupi. Su una spalla, mi sembra di riconoscere un vecchio tracciato, ora sommerso dagli ontani. Questi cespugli sono molto efficaci nel far sparire i sentieri, perché i loro rami lo invadono, piegandosi sotto il peso della neve e formando un groviglio insuperabile. Il nuovo sentiero punta a una zona più riparata e meno invasa dalla vegetazione, andando ad affrontare un paio di salti di roccia, non esposti, ma che se bagnati richiedono cautela. Lungo il sentiero notiamo delle bacche di sorbo dell'uccellatore private della polpa e sputate, non so se da uccelli o da qualche piccolo mammifero in grado di arrampicarsi sui suoi rami. Dopo una serie di tornanti in faggeta, il tracciato scende poi nella fossa attraversando una zona rocciosa, dove sono state sistemate delle corde fisse. La gestrice di Trinità ci dirà che degli inglesi diretti a sud, poco avvezzi alla montagna, ritornarono immediatamente indietro una volta trovatisi al cospetto di questi passaggi. Al fondo del canalone, il torrente è ingombro di tronchi e rami trascinati a valle dalle valanghe e decorticati dal flusso dell'acqua.
Facciamo ancora una breve pausa, in un prato raggiunto da una sterrata. La temperatura è calata sensibilmente, nonostante la quota a cui ci troviamo ora sia più bassa. Proseguiamo per detta sterrata, che più a valle diventa asfaltata. Un vecchio sta osservando delle vacche e dei vitelli fermi in un prato. È il suocero del loro pastore. Ci dice che una vacca sta per partorire e sta cercando di isolarsi dalle altre. È ormai ora di portarle in pianura, perché in alto non c'è più erba, a causa della siccità. Sverneranno a Scarnafigi, nella bassa tra Saluzzo e Savigliano. Prima di arrivare al posto tappa, faccio ancora in tempo a notare un'enorme morena laterale, che riconoscerò nelle foto scattate dal Caire di Porcera. Domami dovremo risalirla. Al posto tappa incontriamo una coppia formata da uno scozzese e un'olandese, entrambi sulla sessantina. Lei ha percorso la GTA parecchi anni or sono; ora sono qui stanziali e stanno facendo delle gite in giornata. A lui mi dimentico di raccontare di Gurro, il paese della val Cannobina (lago Maggiore) in cui sostengono di discendere da una legione di mercenari scozzesi, arenatasi lì nel Medioevo non ricordo più bene perché. Per cena ci aspetta un cinghiale criminale giustiziato dai guardaparco, con la grave imputazione di essersi avvicinato alle case. Chiacchieriamo con il figlio dei proprietari, che è un buon camminatore.
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Sergio Chiappino
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