Hochganghaus-Giggelberg
Val Venosta
14 luglio
Diario di viaggio
Dopo una notte di pioggia, al mattino compaiono le prime chiazze blu in cielo, che poco alla volta, tra mille incertezze e ripensamenti, si aprirà. Riprendiamo dalla foresta lasciata ieri pomeriggio. In certi tratti è così verde e rocciosa che sembra popolata dalle fate, nei tratti nebbiosi dalle streghe. Ci sono numerosi alberi caduti e diligentemente segati per liberare il sentiero. In questa zona poco accessibile sarebbe scomodo e antieconomico portarli a valle e così sono lasciati a decomporsi in loco, con grande gioia della formica rufa e di tutti gli altri esseri che si sostentano con il legno in decomposizione. Gli abeti rossi beneficiano del clima umido, ma hanno radici poco profonde, per cui sono in difficoltà quando cade molta neve. Nei lariceti il problema è invece molto meno sentito, perché hanno radici più profonde e d'inverno sono privi degli aghi, per cui sono meno caricati dalla neve e la reggono meglio. Attraversiamo una pietraia dove la mulattiera è mirabilmente lastricata. Lungo tutto il tragitto troveremo sentieri molto curati. Segue un alpeggio (Goidner Alm) dove troneggia una mucca bionda con grandi corna. Tutti gli alpeggi e i masi che attraverseremo sono accuratamente cintati, per evitare che il bestiame finisca tra i dirupi di queste montagne. In corrispondenza del sentiero viene costruito un cancello; a volte un cartello segnalata che è necessario richiuderlo, mentre in altri casi la chiusura è automatica, grazie a congegni a elastico o a gravità.
Giungiamo a un punto panoramico su una dorsale, chiamato Hohe Wiege. Lo condividiamo con una famiglia tedesca con due figli adolescenti, che incroceremo a più riprese nella prima parte del viaggio. Il padre zoppica un po', ma terrà duro. Con la mamma, che parla un po' di italiano ed è anche la più aperta del gruppo, ogni tanto scambiamo qualche parola. Il figlio sembra divertirsi, mentre la figlia più grande per tutto il trek avrà l'aria di chi preferirebbe stare altrove a ciondolare insieme agli amici. Ci fermiamo un po' quel tanto che basta alle nuvole di aprirsi per permetterci di godere del panorama sulla val Venosta e sulle montagne. Oltre che per il panorama, questa zona sotto il Cigot è interessante dal punto di vista geologico, perché si trova dello gneiss corrugato in forme curiose. Ad esempio su una roccia sotto i nostri piedi si vede un'inclusione, come una specie di serpente chiaro in mezzo al gneiss marrone.
Proseguiamo inoltrandoci nel vallone del torrente Ziel. Attraversiamo un canalone di slavina, che non sarà certo l'ultimo: lungo questi fianchi scoscesi sarà un susseguirsi incessante di valloni scavati da slavine e torrenti che trasportano a valle detriti. Giungiamo alla Tablander Alm, dove alcune capre se ne stanno sdraiate sulle panche come gatti. Oggi la tappa è breve; pertanto ce la prendiamo comoda fermandoci anche a prendere un caffè. Con indolenza riprendiamo nel bosco fino ad attraversare un impluvio pieno di detriti trascinati dal torrente.
Oltre un ponte su un torrente impetuoso c'è il rifugio Nasereit, che è in ristrutturazione ma ha la cucina funzionante. Ci fermiamo sotto i tendoni a pranzare, proprio mentre con provvidenziale tempismo inizia a piovere. Sono partito con l'idea di provare il Kaiserschamrren mit Preiselbeeren appena possibile e questa è l'occasione giusta. Tra l'invidia dei miei compagni mi faccio servire il gigantesco piatto e ne faccio assaggiare un po' anche a loro, che fanno tutti voto di provarlo al più presto.
Per smaltirlo faccio una puntata insieme agli altri alle cascate che si vedono poco a monte nel vallone. Sono davvero impetuose, perché l'abbondante neve caduta quest'inverno si sta ancora sciogliendo. Poi, mentre gli altri vanno a guardarsele dall'alto, scendo una zona zona di massi e trifoglio che in salita ho adocchiato come potenziale soggetto fotografico.
Tornati al rifugio riprendiamo gli zaini lasciati in custodia a chi voleva evitare supplementi e ci rimettiamo in marcia. Dopo il rifugio c'è un grande nevaio, dove alcuni operai stanno tracciando a picconate un sentiero nella neve. Che servizio! Segue dell'altra foresta tra sole e ombra (ma preferivo quella del mattino, con i roccioni e la nebbia), con qualche scorcio su Merano.
In breve siamo a Giggelberg, dove scopriamo che quasi nessuno parla italiano, perché hanno personale dell'Europa Orientale che parla solo tedesco. Comunque neanche qui rischiamo la morte per inedia. Intorno al rifugio gironzolano una cagnetta bianca di nome Shakira e due gattini fratelli, uno dei quali di notte si infilerà sotto le coperte di uno del gruppo, in cerca di tepore.
Durante la cerimonia delle docce e del bucato, si sviluppa un acquazzone nel vallone del rio Ziel, che non ci raggiunge e ci regala un durevole arcobaleno nella valle sotto di noi. Mentre ci stravacchiamo sul balcone in attesa della cena (che è poi alle 18.30, per cui non è che ci sia da soffrire a lungo), un daino col suo harem di due femmine viene a brucare sul prato ai margini del rifugio. Sono stati gli unici animali selvatici visti da vicino in tutto il viaggio, che da questa prospettiva ha offerto poco. In questa zona la caccia è consentita ai locali, nonostante si sia in un Parco. In assenza di predatori naturali, questa è stata la strategia adottata per impedire la crescita incontrollata di erbivori, con tutti relativi i problemi di sovrapascolamento ed epidemie degli ecosistemi senza predatori. Ma naturalmente ciò significa che i selvatici saranno molto più guardinghi nei confronti dell'uomo.
Questo è anche uno dei luoghi più panoramici in cui dormiremo; la sera salgo allora per il prato in speranzosa attesa di un bel tramonto, ma purtroppo le ultime nuvole lo oscureranno.
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Sergio Chiappino
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