Frassino-Becetto
Meira Paula
17 giugno
Diario di viaggio
Tappa decisamente più gradevole della precedente, formata da due traversi ondulati separati da una salita abbastanza secca, in cui si supera la maggior parte del dislivello di giornata. L'architettura delle meire, oggi circondate dal bosco formatosi dopo la fine dell'era agricola, resta il principale centro d'interesse del percorso, ma al salire della quota comincia a esserci spazio per gli alpeggi e le fioriture, che caratterizzeranno la tappa di domani.
Il percorso segue dapprima la strada che corre parallela alla provinciale, restando un poco a monte, e attraversa le moderne casette residenziali o di villeggiatura. La parte più emotiva del gruppo, che nutre scarsa fiducia sul buon segno di chi traccia i sentieri, entra subito in fibrillazione, figurandosi che resti così per un bel tratto, e comincia allora a elaborare ardite vie di fuga. Per fortuna, giunti a borgata Peyrassa, troviamo edifici tradizionali e la vecchia mulattiera, qui preservata. Proseguiamo così nel bosco su un tracciato dal fondo erboso, delimitato a monte da un muro di contenimento in pietre a secco.
Ci ricongiungiamo alla strada a Torre, dove la cappella dedicata a san Sebastiano offre riparo al viandante col suo portico. Sul muro laterale è affissa una targa lapidea a ricordo di una terribile valanga, staccatasi dal soprastante monte Ricordone, che colpì Meira Fasi e Meira Martin e altre borgate in misura minore il 19 gennaio 1885, al culmine di un'intensa ondata di nevicate, causando 70 vittime umane, oltre a decimare gran parte del bestiame custodito nelle stalle. Il monte è ben riconoscibile dal qui per la croce bianca eretta in occasione del centenario della tragedia. Oggi il versante è boscoso, ma allora doveva presentarsi spoglio perché adibito a pascolo e coltivazioni. Così descrive la valanga la Sentienlla delle Alpi, giornale di Cuneo, che nei giorni successivi mandò un inviato sul posto: «La valanga precipitò dalle creste del Ricordone domenica a mezzogiorno in punto. Si estendeva per parecchi chilometri con circa 30 metri d’altezza e 50 di larghezza. Si divise in cinque parti, ognuna delle quali rovinò sopra una borgata.» A causa della fitta nevicata, il rumore della valanga non fu udito a Frassino e la notizia si diffuse solo molte ore dopo, quando sei giovani, che erano scesi al capoluogo, al ritorno furono presi di striscio dalla valanga, riuscirono a liberarsi dalla neve e tornarono al capoluogo per dare la notizia. I soccorsi si attivarono subito e i volontari si trovarono di fronte scene drammatiche: «La neve era alta due metri, molle per la pioggia che veniva giù commista alla neve[…] Si posero tosto al lavoro pel salvataggio; da ogni parte udivasi grida e lamenti, ma, la neve avendo tutto ricoperto, non potevasi bene discernere donde venivano le voci. […] Il primo ad essere estratto fuori dalle macerie fu il Conciliatore con i suoi quattro figli; poscia una famiglia di sette, tutti vivi; quindi un'altra di 9 parimenti illesi. Ma dopo si cominciò ad estrarre i cadaveri che venivano trasportati nella vicina cappella di S. Sebastiano a Torre.» «Ho visto i cadaveri: sono tutti informi, coperti di terra, in stato da far orrore.», testimonia l'inviato. La situazione peggiore era a Meire Martin: «Grida disperate partivano da quella parte ma nulla si poteva scorgere […] la traversata era fatalmente impossibile. I pochi scampati a Meire Martin devono la vita al coraggio di quattro nerboruti giovani: Garneri Matteo di Domenico, Garneri Pietro, Garneri Matteo del fu Chiaffredo, Garneri Battista, i cui nomi qui riporto a pubblica testimonianza dell'abnegazione e del valore spiegato.» Essi si trovavano in un luogo parzialmente risparmiato e riuscirono a salvarsi. «[Garneri Pietro] [a]ccorse, e dopo ore di fatiche poteva togliere dalla rovinata stalla prima la madre morta, poscia la moglie che s'era fratturato il femore della gamba destra. Intanto il figlio con alte grida chimavalo, e il padre, senza ferri, delle mani solo servendosi, andava scavando cercandolo, ma quando dopo due ore di simile disperato lavoro lo rinvenne, l'abbracciò morto. […] Garneri Chiaffredo stette ben 28 ore chiuso nella stalla; i figli, affinché non soffrissero per l'acqua che cadeva, li nascose sotta le mucche del cui latte tutti si sostentarono. […] Un ragazzo di 17 anni restò 24 ore capofitto, quando fu liberato chiese da mangiare; gli diedero del pane, ma appena assaggiatolo lo rigettò. Aveva tutte e due le gambe fratturate in modo orribile e fu portato su una slitta presso il tabaccaio, suo parente, più morto che vivo. L‘ho visto ieri col medico ma c’è ben poca speranza che guarisca.» Nei giorni successivi altre forze si unirono ai soccorsi. Mi colpisce il fatto che gli Alpini arrivarono in ritardo, perché dovettero essere avvisati con un telegramma portato a mano fino a Piasco, che impiegò un giorno intero ad arrivare. Quanto era diversa la percezione dello spazio allora! Una volta in un mercato di Torino vidi dei prodotti «a km 0» della val Varaita: evidentemente quel venditore non era venuto a piedi, altrimenti li avrebbe decantati come di una regione remota e inaccessibile. La valanga arrivò fino alla carrozzabile, che ostruì con un muro di neve alto 30 metri e largo 100. Una donna, che perse il marito e i figli, tra le rovine della casa trovò un tesoretto in napoleoni d'oro e scudi d'argento nascosto nel muro, di un paio di ordini di grandezza superiore agli interi stanziamenti governativi per i superstiti. Del destino della signora si perdono le tracce sulla stampa locale, ma una guida della valle afferma che si comprò una cascina in pianura e una casa in paese, dove morì ultranovantenne. Scorrendo i nomi e le età delle vittime, balza subito all'occhio di quanto pochi siano gli uomini adulti in rapporto alle altre categorie: i contadini erano soliti migrare stagionalmente in Francia, durante la stagione del riposo invernale, perché i magri proventi dell'agricoltura estiva erano insufficienti a mantenere le numerose famiglie. L'evento scosse l'opinione pubblica al punto che furono aperte sottoscrizioni per aiutare i superstiti, non solo nella valle, ma anche a Torino.
Proseguiamo lungo la stretta strada fino a borgata Bruna, dove riprendiamo la mulattiera, salutati da una vecchia con due cani. Attraversiamo un prato dove sorgono dei castagni secolari e, sempre in piano, arriviamo al santuario della Madonna degli Angeli, molto curato, così chiamato perché sul timpano è raffigurata la scena dell'Assunzione, con la Madonna issata in cielo da alcuni angioletti. Beviamo abbondantemente alla fontana. Una lapide sul bordo dello spiazzo erboso attorno all'edificio ricorda i morti di un bombardamento aereo tedesco, che erano sfollati da Venasca, in cerca di un luogo più sicuro.
Tra l'edificio e la fontana si diparte un sentiero erboso, che salirà ripido e senza pietà fino al Culet, consentendoci di superare in un sol boccone quasi tutto il dislivello di giornata. Saliamo per molto bosco e piccoli prati, dove pascolano due vitelli. Scende un pastore alto e magro, timido e taciturno, che ha ristrutturato e dotato di corrente elettrica un edificio della soprastante borgata di Borgione, altrimenti in rovina e invasa dalla vegetazione arborea. Una casa sembra essere stata usata fno a tempi più recenti, per via di una trave in acciaio del tetto (in procinto di crollare) e di alcune decorazioni blu. La salita procede sempre ripida in quello che mi sembra essere stato un pascolo arborato di castagni, o forse una coltura mista con i cereali, come mostra la distanza tra gli alberi e la presenza di mucchi di spietramento. Arriviamo alla strada asfaltata e la attraversiamo, per poi ritrovarla poco sopra, dove transita sotto il portico di una chiesa. All'esterno erano affrescati dei dipinti indecifrabili, perché troppo consunti, e inciso un bassorilievo dall'aspetto di un crocifisso. L'orologio del campanile è fermo.
Entriamo nella borgata Chiaronto, che presenta delle belle case con ballatoi, la maggior parte abbandonate. Vista la posizione più solatia rispetto alle borgate di fondovalle viste finora, doveva avere un certo benessere, ma la lontananza dalle vie di comunicazione motorizzata l'ha consegnata all'oblio nella nuova era. Ad ogni modo, anche qui come altrove, per integrare i redditi i paesani dovettero inventarsi un mestiere girovago, in questo caso quello di muratore. Era una strategia assai comune nella Alpi e in alcuni casi ha lasciato un ricordo fino ad oggi, come nel caso dei celebri caviè di Elva della valle accanto, ma gli esempi sono innumerevoli. Beviamo abbondantemente alla fontana alla base di una casa ancora tenuta, presso cui ci sono un pilone votivo e un roseto fiorito. A monte della case, lasciamo sulla destra il sentiero diretto al percorso avventura e proseguiamo nella nostra salita senza tregua, nella prima parte tra muri a secco, più in alto su una traccia che non sembra ripercorrere alcun sentiero storico. Giunti su una dorsale, finiamo su una traccia ben marcata finalmente più pianeggiante; ci conduce in graduale salita a un pilone votivo ai margini dei prati di Culet, un insediamento pastorale, costruito in una conca della dorsale diretta al monte Ricordone, come suggerisce il nome. Un gran bel posto. La salita continua è finalmente terminata e di qui a Becetto saranno saliscendi.
Con una giravolta a U, imbocchiamo un sentiero in lieve discesa, che, con qualche tratto fangoso, ci conduce agli edifici di Meira Paola, dove sorge l'omonimo rifugio. Con tempismo perfetto, ci arriviamo esattamente all'ora a cui abbiamo prenotato il pranzo. Il rifugio è molto curato, con il prato rasato e molte aiuole, e così i dintorni. Vi pascolano dei cavalli neri di razza Merens, appartenenti al proprietario dell'edificio e dei terreni, che li alleva per farne commercio. Più avanti nella stagione saliranno ai pascoli superiori. Oltre a noi, l'unica altra cliente è una signora che ha pernottato qui e si prende un tavolo al sole, mentre noi optiamo per l'ombra. Più tardi arriva un ciclista che ordina un misero panino, perdendosi le prelibatezze della cucina (io resto soddisfatto dal tagliere vegetariano).
Proseguiamo lungo la pista forestale nel bosco misto di betulle e faggi, presumo uno stato di transizione dopo l'abbandono di pratiche forestali o di pascolo, in quanto le due specie prediligono in genere habitat diversi. Dato che la pista è gradevole, continuiamo a seguirla, anziché imboccare il sentiero nel bosco e descriviamo pertanto un ampio semicerchio tra i boschi e qualche piccolo appezzamento prativo, dove pascola qualche vacca bianca. Arriviamo alla sbarra, dove la pista si innesta sulla viabilità pubblica, in concomitanza con la Panda di due pastori, cosicché vediamo dove nascondono la chiave del lucchetto. La strada asfaltata scende con dei tornanti, dove incontriamo una coppia di corpulenti francesi, intenti a passeggiare insieme al loro cane. Questi, stanco, si fa prendere in braccio dal papà. Ritroviamo lo sbocco del sentiero evitato e proseguiamo lungo la strada, lungo cui sono segnalati come parcheggio del Meira Paula tutti gli spiazzi a bordo strada. Anche questo tratto di viaggio non deve essere percorso di domenica, come la strada di Madonna della Betulla. Per prati e boschi, sempre su asfalto, giungiamo a Ricchiardi, nei cui prati stanno pascolando delle pecore tosate.
Beviamo alla fontana e attraversiamo il borgo di pietra, che nel lunedì di giugno è deserto, ma sembra vissuto e animato, per la presenza di una rustica osteria e di un piccolo palchetto per il liscio. Il nostro passaggio disturba vari gatti bianchi pezzati di nero e arancio e attiva un cane legato. Risaliti alla strada che aggira le case, proseguiamo transitando accanto alla povera chiesa di Santo Stefano, un po' in disarmo nonostante l'orologio funzionante, pur con generoso margine di errore, e arriviamo al fondo della strada. Qui sorge, o sarebbe meglio dire giace, la spettrale frazione di Rostagno: all'ingresso c'è un pilone dai dipinti così consunti da essere ombre più angoscianti dell'Urlo di Munch, quindi tra gli edifici solo una casetta è ristrutturata e porta una data di trent'anni fa, mentre le altre, che pure presentano architetture pregevoli, sono in rovina. Su una di esse è anche dipinta una crocifissione.
A proposito di quest'ultima, come del resto di tutti i piloni votivi visti, mi colpisce il fatto che i suoi abitanti, nella loro povertà avessero voluto lasciare dal basso un segno permanente della loro cultura, a beneficio delle generazioni future. Oggi invece sulle nostre case non si dipinge nulla: i residenti non hanno nulla da dire al mondo. I graffiti dipinti da estranei sono subito cancellati dai proprietari dei muri e peraltro sono quasi sempre solo firme, come il cane che piscia per lasciare il suo odore, mentre i dipinti con messaggi culturali o sociali sono rari. Gli unici messaggi pervasisi sono i cartelloni pubblicitari del consumismo a bordo strada, che ha sostituto le credenze metafisiche come ideologia condivisa della società. Tuttavia essi sono transeunti come le merci, che devono essere allocate per poi sparire quanto prima dallo spazio-tempo e dalla memoria, per lasciare posto alla mirabolante generazione successiva di prodotti. Mentre i codici contenuti in questi dipinti ci sono ancora comprensibili, anche se i bisogni che li ispiravano non sono più attuali, i prodotti promossi nelle vecchie pubblicità e i messaggi in esse contenuti si sono volatilizzati nell'aria.
Usciti dalla borgata, attraversiamo un prato falciato, dove ci sono delle arnie. Entriamo quindi in una zona di erba alta, dove il sentiero è ben evidente, perché ieri è stato calpestato da un serpentone di cinquanta escursionisti, saliti da Rore a Becetto. Eravamo leggermente in ansia per questo tratto, perché la nostra cartina lo riportava tratteggiato, ma dalla sua redazione sono stati fatti lavori di miglioramento. Entrati nel bosco, scendiamo all'impluvio, dove il torrente scorre su un piano di pietrisco fermato da una brglia. Lo superiamo su una passerella di tre tronchi, subito a valle di una piccola cascata. Riprendiamo a salire, su un breve e ripido sentiero, che si arrampica a una pista erbosa falciata da poco: non si sente più il caratteristico odore dell'erba tagliata, ma la ricrescita non è ancora cominciata. Arriviamo al pilone della Gradetta, un nome che di solito indica un luogo panoramico, ma in questo caso deve essere un ricordo di quando non c'era il bosco. Accanto al pilone, oltre un filo, stanno pascolando delle vacche e un toro; l'erba della pista è stata falciata per permettere a loro di andare a bere al torrente.
Per prati in via di rimboschimento spontaneo arriviamo a Dragoniere, una frazione formata da case in buono stato, anche di costruzione novecentesca, e dove c'è un circolo ARCI ora chiuso. Sotto un porticato una grande stele commemora i caduti in guerra, i sacerdoti che vi hanno servito, le tappe della costruzione della chiesa e l'irresistibile avanzata del progresso. Proseguiamo in piano sulla strada, tra le case che si diradano e vari piloni, con il campanile di Becetto in vista. Il primo tratto di mulattiera è evitato dai segnavia, e la imbocchiamo invece al cimitero. Qui nessuno ha tagliato l'erba, che occupa folta il fondo, tranne in una zona in cui i cinghiali ci hanno fatto il favore di sterminarla arando il terreno. Superiamo un torrente su una passerella e poi incrociamo una donna in MTB, che sta penando non poco per l'erba alta, anche per via dei pantaloni corti. Superiamo un recinto con un aveliniese e un asino, che si lanciano prontamente verso di noi, speranzosi di un boccone che prontamente ricevono, per poi arrivare in breve a Becetto. Il primo impatto è con un edificio comunitario in costruzione, che ci mostra il suo lato poco etnico di mattoni rossi, in attesa di essere rivestito di pietra come già lo è la facciata.
Per prima cosa andiamo verso la chiesa, che nel medioevo, prima che le apparizioni di Valmala la facessero passare in secondo piano, era un importante centro di pellegrinaggio mariano. Davanti c'è un porticato dentro cui è affissa una stele analoga a quella di Dragoniere. Per il resto la borgata ha un aspetto un po' sciatto anche se senza segni non di abbandono. All'albergo cogliamo di sorpresa il personale, perché la titolare è devuta scendere in pianura per un'emergenza da pronto soccorso e non ha lasciato disposizioni. Ci tocca perciò attendere che preparino la stanza e fare tutto di corsa prima di cena. Tra l'altro il bucato non asciugherà di certo, perché il cielo si è velato e l'atmosfera è parecchio umida.
Cena accanto a noi un signore francese con il vecchio padre corso, che fa mostra di parlare solo francese, nonostante di solito i corsi capiscano bene la nostra lingua, in quanto il loro dialetto è una variante del toscano. La madre, originaria di qui, è morta recentemente e sono a Becetto, dove hanno una casa, per sistemare le questioni burocratiche. Il signore, terminato il suo pasto, viene al nostro tavolo a spazzolare tutti i nostri avanzi del cinghiale.
Dopo cena un'anziana signora viene a tenere una dimostrazione di pentole miracolose con bluetooth a beneficio di alcune donne. La signora si muove con consumata esperienza da imbonitrice e adopera con disinvoltura le migliori tecniche dell'informazione distorta e sensazionalistica, per convincere le astanti a abbandonare i prodotti della concorrenza e passare ai suoi. Il mio spirito mefistofelico mi fa sognare ardentemente di essere un esperto informatico, per bucare il sistema di comunicazione di questi prodotti cosiddetti smart o dell'Internet delle cose, notoriamente pieni di falle o del tutto privi di protezioni contro le intrusioni, per far bruciare le pietanze in preparazione.
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Sergio Chiappino
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