Rifugio tenente Fabbro-rifugio Giaf
Passo della Mauria
19 luglio
Diario di viaggio
Questa è probabilmente la tappa migliore dell'Alta Via, insieme a quella della Val Montanaia. Certamente meno fotogenica, ma entusiasmante grazie al lungo tratto su una cresta boscosa.
Dal valico imbocchiamo il sentiero che scende nella Val di Roda, recentemente segnalato. Il gestore, poi, ha tagliato l'erba apposta per noi. Rispetto al percorso ufficiale, sostituisce un tratto di asfalto con una pecceta. Il sentiero scende per prati grondanti rugiada, dopo la pioggia di ieri sera. Sono appena le 7, ma la temperatura non consiglia certo un pile. Entriamo quindi nel bosco ombroso. Secondo me, prima che arrivi il sole, quando il cielo è chiaro e il bosco in ombra, è il momento migliore per attraversare questi ambienti: le minuscole gocce di rugiada penzolano da tutti gli aghi. Soprattutto nelle mattine fredde si percepisce, prima sulla pelle e poi fin dentro le ossa, l'umidità che impregna l'aria; passando la mano sull'erba, si ha la percezione tattile dell'acqua che nutre gli alberi. Già dopo pochi passi gli scarponi sono fradici e solo il Gore-Tex salva i piedi. Il sentiero scende a costeggiare il torrente. Oggi vi scorre a malapena un filo d'acqua, ma le sue piene hanno rovinato la traccia; tuttavia le segnalazioni ci sono sufficienti a non perdere il percorso giusto. La luce radente comincia poi a penetrare sui dossi e nelle radure più aperte, mentre il bosco profondo resta in ombra ancora un po'.
Il sentiero va a morire sulla strada diretta a Casera Doana. La imbocchiamo in salita e subito dai nostri pori sgorga caldo e copioso il sudore per il caldo e soprattutto l'afa. Poco prima della casera la sterrata spiana; la quota guadagnata offre incantevoli viste sulle torreggianti cime lontane. C'è chi identifica le Tre Cime di Lavaredo. Alla casera uno steccato fa da confine tra il prato e la valle del Piave, oltre cui svettano il Civetta, il Cadregon e l'Antelao. Che invidia per questi ragazzi (avranno tra i venti e i trent'anni) che, anche grazie ai fondi dell'Unione Europea per tenere falciati i prati, trascorrono qui l'estate a pascolare le vacche. Restiamo un po' a chiacchierare del loro lavoro, a pacioccare il loro lupo cecoslovacco e a gironzolare per i dintorni.
Risaliamo brevemente i prati, al cui culmine parte una pista erbosa in quota con il fondo pieno di peste di zoccoli. Aggira un dosso boscoso e termina ai margini di un prato. Un paletto con segnavia biancorosso al suo centro indica la direzione da seguire, ma per qualche ragione inesplicabile il gruppo si ferma per un lungo conciliabolo attorno alla carta. Al termine del prato il sentiero diventa ben tracciato e lo sarà fino a Pian di Stabie. Il tratto fin lì è uno dei migliori del viaggio; senz'altro il migliore tratto boschivo. Da principio camminiamo su una cresta boscosa, con elevata biodiversità arborea (abeti rossi e bianchi, faggi, aceri e altro). Al passo del Landro, tralasciamo la traccia non segnalata che scende dritto per dritto.
Il gruppo di testa procede a passo arrembante. Persino la coda contemplativa parla fitto fitto e ammira il tratto come di striscio. Finalmente il gruppo si ferma dieci minuti in una radura con un panorama così grandioso sulla catena dolomitica di fronte a noi, che proprio non è possibile ignorarlo. In ossequio alla filosofia della maggioranza silenziosa CAI, prima non c'era nulla da vedere, perché c'era il bosco, ma almeno qui una pausa la fanno. Qualcuno ne approfitta per chiamare casa, perché per tutto ieri i cellulari non avevano campo. Prendiamo poi a rotolare verso il basso per la via diretta, ma comunque sul bel sentiero. Ad un bivio andiamo a destra, in traverso per un bosco ripido di abeti rossi e faggi ricoperti di licheni. Purtroppo di questo fantastico tragitto non ho foto da proporre, perché questo genere di ambienti è ostile al mio occhio fotografico. O forse in generale alla fotografia tout-court, perché belle foto di posti simili non ricordo di averne mai viste. Dopo anni di tentativi quasi infruttuosi ho deciso di lasciar quasi perdere e ora me li godo con la fotocamera nel fodero. Dico quasi perché un successo lo ricordo, ma c'era la nebbia e quindi era troppo facile.
A Pian di Stabie il sentiero confluisce su una stradina, che raggiunge molti chalet per le vacanze, alcuni abbandonati, altri ancora in costruzione. Il signore che possiede il più curato di tutti ci informa che il ristorante del passo della Mauria, segnalato sulla guida, ha chiuso un paio di anni or sono. Tra la disperazione di chi non ha preso panini, ci invita a casa sua, ma siamo in troppi per accettare. Fossi stato con gli amici, avrei colto l'occasione. Ci sarebbe stato solo il problema di non far ubriacare il solito noto e di farlo smettere le tirate prima delle 16, in modo da arrivare al rifugio ad un'ora decente. Purtroppo il capogita non ha i riflessi abbastanza pronti per decidere di fermarsi su uno dei prati delle case disabitate, puntando invece senza indugio al passo, da cui arrivano le sgasate delle moto nelle curve. Qui il gruppo si ferma nel punto migliore per ammirarne il passaggio. Un gruppo di ribelli si rifiuta e decide di cercarsi un posto più ameno, ma l'attimo è ormai fuggito, per cui troveranno solo un posto più scomodo, dopo un orrido colatoio.
Non devono attenere una vita prima che il gruppo li raggiunga; insieme procedono verso il rifugio. Il sentiero taglia un ripido pendio boscato. Un breve tratto sta franando e ci tocca procedere su una sottile cengia terrosa, strisciando contro un tronco che sporge. Scendiamo poi a stretti tornanti verso un impluvio di detriti. Questo è di gran lunga più orrido del precedente. Ogni giorno la gara per il più impressionante si fa più serrata e ancora non siamo stati in val Montanaia. Una ripida salita in un'atmosfera soffocante ci fa attraversare un bosco di abeti e faggi alti e sottili. Sbucati in ambiente più aperto, tra i mughi, procediamo in quota, anche con un traverso su un ripido ghiaione. Sulla carta questo tratto è puntinato, ma grazie al cielo è stato sistemato e non presenta passaggi rognosi. Siamo in vista delle belle Cime di Urtisel, ai cui piedi sorge il rifugio. Mi ribello al ritmo incalzante e mi fermo a bere. Un profumo di legna bruciata annuncia il Giaf.
Facciamo subito conoscenza con la timida femmina di pastore svizzero, che accetterà di giocare, ma non si farà mai toccare. Il rifugio è gestito con molta cura; a parte il cuoco, solo da donne e la cosa si nota nei dettagli e nelle rifiniture. L'unica pecca è che c'è una sola doccia, per cui ci tocca aspettare che quattro tamarri tedeschi finiscano di giocarci dentro. Gli orari di cena e colazione sono da pensionati inflessibili, ma in compenso per cena ci portano una terrina di verdura cruda a testa. Con gran dispiacere dei gestori, vi arriva una strada, formalmente chiusa al traffico; tuttavia le autorità locali sono tutt'altro che ligie nel far rispettare il divieto e talvolta il cattivo esempio viene dall'alto. I gestori aspettano i pigroni imbracciando un metaforico fucile.
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Sergio Chiappino
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