Becetto-Casteldelfino
Serre di Raie
18 giugno
Diario di viaggio
Probabilmente la tappa più bella del viaggio: il percorso si snoda come una lunga serie di saliscendi in una stretta fascia altitudinale, ampia circa 300 m, tra pascoli e insediamenti stagionali, che percorriamo nel pieno della fioritura, quando offre il meglio di sé. Purtroppo abbiamo abbiamo trovato una luce tutt'altro che ottimale: al mattino molta afa, quindi il cielo si è coperto e a metà pomeriggio si è scatenato un temporale. Ci siamo così inzuppati quanto basta, soprattutto i piedi per via dell'erba alta, rimasta fradicia anche dopo, oltre a essere privati del piacere di quasi un'ora di cammino.
Il tracciato previsto dagli ideatori del trek proponeva di puntare sul lago Bagnour con una tappa di otto ore, ma, visto il nostro piglio contemplativo, rischiava di trascinarsi troppo per le lunghe. Dalla cartina ho valutato, per fortuna correttamente, che il tragitto fino a Casteldelfino richiedesse circa un'ora in meno e così abbiamo puntato lì.
Partiamo con il bucato ancora umido appeso allo zaino. I segnavia ci condurrebbero a Civalleri, dove parte il sentiero, lungo la strada asfaltata che attraversa Becetto, ma la cartina segnala anche la presenza di un sentiero poco a valle delle case. Imbocchiamo perciò la pista sterrata che scende a Sampeyre e, dopo un tentativo a vuoto alle spalle di una catasta di rumenta edile, troviamo una traccia che resta in piano. È in realtà una traccia di bestiame, ma poco prima delle case ci imbattiamo in un pilone votivo, chiara prova che il sentiero passava efftettivamente di qui, anche se oggi è andato perduto. Passiamo accanto a una casa di emigrati o loro discendenti, che hanno una bella gattina, e poi ci inoltriamo in un bosco fresco e umido, lungo un sentiero bordato di frassini, ogni tanto invaso e impaludato dai vari rii che lo attraversano. Scendiamo verso l'impluvio e passiamo accanto a un vecchio mulino, detto dei Tumalin Pagò dal nome dei proprietari, dove sono ancora visibili le macine. In zona ce n'era una decina, ma furono quasi tutti distrutti da un'alluvione. Passiamo il ruscello a valle di una cascata contenuta in una fenditura della roccia, su un ponte in legno a schiena d'asino, presso cui una volpe ha lasciato una fatta. Poco più avanti vediamo delle aquilegie fiorite. Risaliamo sulla sponda opposta, dove la vegetazione cambia repentinamente e presenta essenze di ambienti più aridi, come i pini silvestri, e moltissimi fiori. Il sentiero prosegue a mo' di cengia aerea tagliando lo scosceso pendio e offrendo una vista su Becetto, purtroppo offuscata dal controluce, ma soprattutto dalla foschia untuosa. Una catena in un tratto esposto si rivela ridondante con l'asciutto, ma come scopriremo tra qualche giorno, è soprattutto con il fondo umido che si apprezzano questi ausili. Raggiunto il costone a confine della valletta, tocchiamo le abbandonate Meire Roina, così chiamate per la vicinanza con il dirupato impluvio, più apprezzato dagli escursionisti che dai pastori, visto che noi non dobbiamo andarci a recuperare le capre. Per loro fortuna oltre l'espluvio c'era un terreno decisamente più adatto al pascolo, dove erano stati ricavati dei prati e un pascolo arborato di larici.
Terminati i pascoli, incontriamo un terreno terrazzato dove grandi abeti rossi sono disposti in file ordinate: è il vivaio forestale del Preit, istituito ai primi del Novecento, periodo di grandi tentativi di rimboschimento, e abbandonato poco dopo l'ultima guerra. Come altre opere analoghe fu anche concepito come ammortizzatore sociale in periodi di grave crisi economica e di avvio della fase di spopolamento delle montagne. È ancora in buone condizioni, ma inaccessibile, la casa del custode. Guardando per terra si capisce perché gli alpigiani piantassero i larici nei pascoli e non gli abeti: gli aghi morti creano una coltre sul terreno che non lascia crescere nulla. Il sentiero guadagna successivamente quota nel bosco con dei tornanti e sbuca in un ambiente prativo, dove confluiamo su una pista erbosa. La seguiamo mentre guadagna quota con un paio di tornanti, fino a raggiungere le meire Bellocchio, grandi costruzioni ai margini del bosco, con una fonte da cui fuoriesce un rivolo d'acqua. Seguendo i segnavia, costeggiamo alcuni faggi imponenti e sbuchiamo nuovamente fra radure cespugliose fiorite, dove incontriamo altre baite, abbandonate anch'esse. Attraversiamo poi un bel pendio erboso con radi alberi delimitato da balze rocciose, molto panoramico. Vediamo due farfalle che si accoppiano. Il sentiero scende quindi su una pista sterrata, che seguiamo mantenendo la direzione di marcia, transitando tra balze rocciose e grandi faggi.
La pista termina a Serre di Raie, un consistente gruppo di meire poste su una dorsale, come suggerisce il nome. Probabilmente era la stazione intermedia dei pastori che d'estate salivano sugli estesi pascoli sovrastanti. In passato i prati nei dintorni erano falciati per produrre fieno. Gli edifici sembrano essere quasi tutti abbandonati, ma ancora in buono stato. La chiesetta è stata ristrutturata di recente. Su una casa è affrescato un dipinto che raffigura la Madonna con alcuni santi, firmato da Giuseppe Gautieri, pittore ottocentesco autore di numerosi piloni in questa e nella valli limitrofe, tra cui quello edificato a Valmala sul luogo dell'apparizione. Mangio metà dell'enorme panino che mi hanno dato all'albergo e rabbocco l'acqua alla fontana, oltre a cospargermi di crema solare.
La mulattiera erbosa prosegue restando ai margini della grande conca prativa a monte di Serre di Raie, nell'esplosione della fioritura. Raggiungiamo la gola del primo ramo del rio Milanesio, che la mia cartina chiama Cassart. Questa sponda erbosa scende dolcemente verso il rio, mentre sull'altro lato c'è un salto roccioso. Superiamo il corso d'acqua su ponticelli di pietra e ci arrampichiamo per un passaggio erboso sulla sponda opposta, sempre tra lussureggianti fioriture, con la Gentiana lutea a vincere la palma di fiore più appariscente, data la dimensione. Da qui fino a Colletto di Sopra la traccia si fa labile o del tutto assente, forse anche a causa dell'erba alta, per cui dobbiamo seguire con attenzione i segnavia, che con buona visibilità si riescono a seguire senza vagabondaggi. Superato un altro ruscello sempre su un ponte di pietra, procediamo con sei occhi a caccia di tacche e nei prati privi di traccia saliamo faticosamente a un gruppo di baite, le meire Seguret; la vista sul poggio di Serre di Raie e sui grandi pascoli soprastanti compensa ampiamente lo sforzo. Proseguiamo in piano tra molte tracce di bestie, che ci consentono di scegliere quella più adatta a non disturbare dei vitelli al pascolo. Arriviamo a una successione di passerelle di legno su vari torrenti, che ci conducono infine su un sentiero più evidente diretto a Colletto di Sopra. Saliamo tra le case, dove abitano poco socievoli maremmani, per cui ci dileguiamo e andiamo a fare una pausa a monte del paese alla Madonna delle Neve, semplice chiesa con qualche ex-voto all'interno.
Mangiato qualche prodotto energetico, scendiamo per prati alla strada, ancora accompagnati dai latrati dei maremmani, che ci hanno nuovamente individuato. Alcuni cartelli danno dei tempi da trail runner, sia per le mete da cui arriviamo, sia per quelle a cui siamo diretti. Nel frattempo il cielo si è coperto e, insieme all'afa, ciò crea una cappa opprimente, nonostante le nuvole siano alte. La strada perde quota e ci porta a un grande prato con vista su Serre di Raie, dove ci sono dei cartelli di avviso per i maremmani, rivolti a chi sale. Arriviamo quindi a Pui, dove due bambini stanno giocando e dei cani da pastore più amichevoli vengono a salutarci da una casa isolata. Cominciamo a sentire dei tuoni provenire dal colle di Sampeyre e ci auguriamo che restino lì. Sarà una speranza vana. Poco a monte di Ciampanesio imbocchiamo il sentiero diretto al bosco dell'Alevè, aggiriamo una coltura di erbe e riprendiamo a salire. Sempre accompagnati dai tuoni, passiamo accanto a una galleria di servizio a una cava di amianto, costruita per saggiare la bontà del minerale. La cava fu attiva fino agli Anni Sessanta del Novecento ed ebbe la stessa proprietà della famigerata amiantifera di Balangero. Il paese qui a valle a cui faceva riferimento si chiama ancora Confine, perché, fino all'inglobamento dell'alta valle nel Ducato di Savoia, era appunto il confine con il Delfinato. Risaliamo fino alla croce d'Alie, posta su un poggio panoramico. Avremmo voluto fare una pausa qui per finire il panino, ma proprio ora comincia a gocciolare e continua insistentemente a tuonare, anche se per fortuna non vediamo fulmini. Indossiamo giacca e coprizaino e proseguiamo verso un più sicuro bosco, mentre prende il via una pioggia moderata che durerà quasi un'ora.
Il tratto che segue lo passiamo un po' in carriera, preoccupati per la situazione e poco inclini alla contemplazione: ad un certo punto cade anche un fulmine a un chilometro circa da noi. È un vero peccato, perché il traverso in quest'alternanza di bosco e ripidi valloncelli scabri, delimitati da dorsali rocciose, non è per nulla sgradevole. Nei tratti più aperti sono poi fiorite le ginestre. C'è anche qualche bel tratto aereo, che con buona visibilità sarebbe panoramico; invece vediamo solo le spesse nuvole scaricare pioggia e li attraversiamo inquieti sotto la minaccia dei lampi. Passiamo alcuni gruppi di baite, dove non scorgiamo anfratti dove trovare riparo, perché è tutto in rovina e invaso dalla vegetazione, fino a quando la pioggia cessa in vista delle grange Auriol (da notare che, entrati in zona francofona, ora gli alpeggi si chiamano grange e non più meire). Per qualche minuto filtra anche una bella luce tra le nuvole, ma il cielo non si sgombra e poco dopo il sole scompare nuovamente e definitivamente.
Alle grange facciamo la pausa forzosamente rimandata in precedenza, con le coperture impermeabili stese nella vana speranza che asciughino. Nell'erba alta e zuppa che segue ci infradiciamo i calzoni e gli scarponi, al punto che l'acqua oltrepassa le loro protezioni e ci arriva ai piedi. Superiamo il bivio per il lago Bagnour, tralasciando il sentiero lì diretto, e rimaniamo invece sulla medesima mulattiera, diretta a Casteldelfino. Una di noi, vedendo i piedi ormai persi, indossa i sandali e mi offro di portarle il sacchetto degli scarponi appeso al mio zaino. Più avanti l'erba è stata rasata, per far salire delle vacche di cui vediamo le fatte; in compenso alcuni rii si sono ingrossati per la pioggia e hanno invaso la mulattiera con la loro acqua limacciosa. Sul fondo della mulattiera crescono un bel po' di orchidee rosa di più specie. Giunti a Serre, decidiamo di proseguire per la strada asfaltata, anziché di seguire la mulattiera più diretta che vi resta poco sotto. A Casteldelfino telefoniamo all'agriturismo per farci spiegare dove sono e li raggiungiamo senza prestare particolare attenzione al paese.
Per prima cosa ci facciamo dare della carta da giornale da appallottolare dentro gli scarponi, per farli asciugare quanto possibile. Che asciughi il bucato è invece del tutto fuori discussione, perché il clima resta umido (riprenderà pure a tuonare) e la struttura è costruita nei pressi di un mulino di un avo dell'attuale proprietario, quindi vicino al torrente. Ci preparano una cena molto raffinata. A pensione ci sono anche due cinesi che non parlano l'italiano e hanno difficoltà a intersecare il loro minimo inglese con quello altrettanto risicato degli albergatori. In cucina c'è molta allegria, perché le figlie adolescenti hanno terminato da poco il faticoso pendolarismo scolastico con Saluzzo, che le costringe a levate antelucane. D'altronde anche il proprietario che ci serve a tavola ha l'aria molto allegra e deve farne una filosofia di vita, tanto da aver dipinto su un muro una strofa della celebre Canzona di Bacco di Lorenzo il Magnifico, che invita i giovani alla letizia.
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Sergio Chiappino
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