San Giacomo-Lago del Chiotas
Colle di Fenestrelle
20 settembre
Diario di viaggio
Insieme alla successiva, la tappa più alpina per la doppia visuale su Argentera e Gelas. Probabilmente anche quella con i paesaggi più belli.
Prima di colazione scendono per la strada militare alcune vacche bianche. Pensiamo che sia l'avanguardia della demonticazione, invece il pastore le viene a riprendere: sono scese di propria iniziativa, forse esasperate dall'erba sempre più secca, che quest'anno hanno dovuto brucare. Molto prima che il sole si spinga fino a queste profondità, nel fresco dell'ombra, ci incamminiamo lungo la rotabile militare che risale il vallone del Gesso della Barra, diretta al Pian del Praiet. Il sole, per la verità, non è molto sopra di noi, sulle balze di erba e roccia alla nostra destra. Un fuoristrada dei pastori fa su e giù, poi ne scarica uno che va a radunare delle vacche, che stanno pascolando lungo il torrente, uno dei pochi posti dove è rimasta un po' d'erba verde. Ne superiamo un affluente secco, sulla cui riva un salice è divenuta una presenza incongrua. A una piazzola detta Piazzale dei Cannoni, perché nel 1940 era la sede di quattro mortai, un pannello ricorda i profughi ebrei, di cui c'è il memoriale nella stazione di Borgo San Dalmazzo, che dopo l'8 settembre percorsero questa strada, nella speranza di un illusorio rifugio in Italia. Nei pressi di un doppio tornante oltrepassiamo la linea d'ombra e ci fermiamo a toglierci gli strati termici. Un vecchio diretto al Soria-Ellena ci raggiunge e supera. Siamo ai piedi del Gelas, dove durante il Pleistocene scendeva la colata glaciale, come si nota dalla presenza di rocce montonate sul pendio a valle della cima. La vegetazione arborea è scomparsa da un po', suppongo per ragioni di sfruttamento pascolivo, e un sorbo montano ne è una delle ultime presenze solitarie. Più in alto ci sono solo dei pini cembri, che come al solito sono cresciuti in fessure, dove la nocciolaia nasconde e poi dimentica i semi delle sue pigne.
I fianchi del vallone sono molto rocciosi e ripidi. Per questa conformazione, la zona fu scelta come luogo più adatto al ripopolamento di stambecchi, negli Anni Venti. I primi tentativi furono infruttuosi, per i motivi più disparati, non ultimo le pallottole dei bracconieri, che trovarono facili prede in animali che non temono l'uomo. Si dovette pertanto cambiare strategia più e più volte, fino a quando la costanza fu premiata dal successo.
La strada continua a guadagnare quota, attraversando una zona di massi dove hanno la tana delle marmotte. Vediamo anche una vipera, che sguscia via da un tornante, e dei camosci sulle rocce a monte. Attraversiamo una zona di sorgenti, ormai in vista del Soria-Ellena, per poi raggiungere in breve il bivio. Qui vediamo un branco di giovani camosci, che al nostro arrivo si allontana, ma senza agitarsi, risalendo con calma un cono di deiezione sotto una parete rocciosa. Anzi, un adulto se ne resta tranquillo a brucare in riva al torrente e si fa pure fotografare. Alcuni codirossi ci svolazzano intorno. Sono tra i pochi passeriformi che riesco a riconoscere grazie al vistoso colore, e al fatto che li vedo anche in città, dove migrano durante la stagione fredda.
La strada principale prosegue in direzione del colle della Finestra, sullo spartiacque alpino, dove oggi corre il confine con la Francia. Fino al secondo conflitto mondiale, invece, anche una zona delle alte valli della Vèsubie e della Tinée era italiana. Questo perché, quando Vittorio Emanuele II cedette la contea di Nizza alla Francia, in cambio dell'aiuto concesso nella Seconda Guerra d'Indipendenza, la riserva reale di caccia rimase interamente sotto il controllo del neonato Regno d'Italia, insieme all'alta val Roya. Con il trattato di pace del 1947 passò alla Francia e, dopo una lunga gestazione, divenne il nucleo del parco del Mercantour. La comunicazione tra questa zona e il resto del paese era molto difficile, perché possibile solo su strade di alta montagna come questa e solo nella bella stagione. Scrive il Casalis: «Nel passaggio di quei due colli [del Sabbione e delle Finestre, n.d.r.] s'incontrano gravi rischi, massime nell'invernale stagione; che vi soffiano bene spesso terribili venti capaci di atterrare uomini e bestie: onde i passeggieri nel cattivo tempo si uniscono diversi insieme per prestarsi vicendevole soccorso, e a malgrado di siffatta precauzione, accade talvolta che vi rimangano vittime. Un altro pericolo si è quello delle valanghe della neve, che nei giorni umidi staccandosi dai superiori monti, rotola precipitosamente sino al basso in enormissima quantità riunita, e niuna forza si potrebbe opporre per allontanarne il pericolo, e gli infelici che passano in quell'istante vi restano sepolti sino alla primavera, al liquefarsi della neve ammassata.»
Proseguiamo ancora per pochi minuti e facciamo una pausa su un roccione piatto a valle del sentiero, in magnifica posizione panoramica sul vallone e sul Gelas. Da qui al colle il panorama non farà che ampliarsi. La salita prosegue a tornanti regolari. Ho l'impressione di essere su una morena vegetata, perché ci sono massi di tutte le dimensioni, mentre sui coni di deiezione che vedo sotto le pareti sono minuti e uniformi. Uno del gruppo che prima stentava a vedere i camosci vicini, riesce a individuare un minuscolo ricovero militare al colle di Finestra, pressoché invisibile nel buio dell'ombra. Acume selettivo. In senso opposto scendono due ragazzi tedeschi seguiti a ruota da due signore di mezza età. Arriviamo a un gias diruto, costruito al riparo di un dosso morenico. Ne è rimasto solo il perimetro di base, ma accanto si è conservata la vegetazione nitrofila, seccata dalla siccità. Qui pranziamo e ci stravacchiamo al tiepido sole.
La mulattiera continua a guadagnare quota con regolarità, arriva in vista di un cocuzzolo su cui pascolano dei camosci e rimonta l'ultimo dosso, dove ci sono i resti di un ricovero militare. Siamo ormai alla quota del colle, da cui ci separa un piccolo avvallamento. L'altro versante è molto pietroso; il pendio non scende subito, ma forma un pianoro roccioso ingentilito da un laghetto. Facciamo una breve pausa, prima che l'ombra della montagna ci raggiunga. Sulla riva del laghetto vediamo camminare quello che ci sembra un piccolo camoscio. Questo punta diretto verso di noi. Ne vediamo poi un altro che rimane sulle rocce più a monte. Quando si avvicina, ci accorgiamo che è una giovane femmina di stambecco. Ci viene a due passi a mendicare il nostro pane, manco fosse una capra domestica. L'altro la imita. Restano più discosti, abbarbicati su un roccione, dei cuccioli di quest'anno.
Intanto l'ombra ci ha raggiunto e decidiamo perciò di partire, prima di cominciare a sentire freddo. Percorriamo l'avvallamento e ci affacciamo su ciò che resta del bacino del Chiotas, prosciugato dalla siccità, e sulla mole dell'Argentera, che sta per finire in ombra. È anche ben visibile il canale che dovremo risalire domani verso il colle del Chiapous. Un paio di camosci stanno pascolando presso la mulattiera e si allontanano tra le pareti di roccia, al nostro arrivo. Tento di fotografarne uno contro l'Argentera, ma ne colgo solo il fondoschiena. Uno stambecco con due corna enormi, forse un vecchio rimasto isolato, invece ci ignora. La mulattiera traversa, allontanandosi dalla parete, e torna perciò al sole. Ne beneficiamo su un poggio, dove mangiamo la mela del cestino del picnic. Mentre il pendio di salita era erboso e morbido, questo versante è molto dirupato, per cui il tracciato deve seguire un percorso molto articolato per trovare una via percorribile, anche con qualche risalita. La discesa termina su un pianoro erboso costellato di grossi massi, dove alcune marmotte assistono indifferenti al nostro passaggio. Se ne stanno così ferme che alcune le vedrò solo ingrandendo le foto. Sbuchiamo sulla strada che costeggia l'invaso e la percorriamo in direzione del rifugio. Mi attardo lungamente per fotografare la bellissima luce di quest'ora tardo-pomeridiana. In un tratto c'è del ghiaccio. Anche il livello del lago Brocan è sottozero.
Abbiamo qualche timore sull'accoglienza, perché delle persone incontrate qualche giorno fa hanno avuto dei disguidi. Scopriamo però che il gestore è molto gentile e disponibile ad ascoltare le nostre esigenze; i problemi erano solo nati dalla sua idiosincrasia per l'internet. Il rifugio è moderno, perché fu costruito dopo che il precedente fu sommerso dall'invaso artificiale. Tuttavia è pur sempre stato costruito prima che gli escursionisti cominciassero a lavarsi e a respirare. La doccia, in particolare, è ampia, ma ha a disposizione una spazio minuscolo tra la porta e il box, dove poter sistemare l'abbigliamento e le ciabatte; bisogna pertanto elaborare un piano accurato per potersi lavare senza doverne uscire nudi. Comunque l'acqua è caldissima e non serve il gettone. La sera è più mite che nei giorni precedenti, nonostante siamo più in alto. Il faro del rifugio oscura la Via Lattea e non ho voglia di indossare gli scarponi per cercare un luogo buoi dove ammirarla.
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Sergio Chiappino
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