Rifugio Padova-rifugio Pordenone
Val Montanaia
21 luglio
Diario di viaggio
Spigoli aerei come grattacieli, torri di un goticismo sconvolgente, pareti che strapiombano per cestaia di metri quasi fossero spartite da una scure gigante: le Dolomiti sono belle così, ammirate dal basso, quando formano lo sfondo di una vallata, la quinta di un maso o la scenografia di un passo alpino. Ma provate a scalare una guglia dolomitica e vi ritroverete in un ambiente desolato e crollante che neppure sospettavate.Franco Brevini, L’invenzione della natura selvaggia, Torino 2013
Tappa clou del trek, sia per l'impegno richiesto che per la vista a volo d'uccello sulla val Montanaia, indimenticabile anche con una luce pessima. I sentieri non sono sempre il massimo, ma comunque fattibili.
Con un po' di tira e molla, contrattiamo una colazione alle 6.45, per poter affrontare la maggior parte della salita in ombra. Il gestore ieri sera aveva clienti carrozzati fino a tardi e non era tanto ben disposto ad alzarsi presto. La tappa parte con un imprevisto: una del gruppo si accorge che la suola di uno scarpone si sta scollando. Rimediamo come possiamo, con scotch medico, anche perché al rifugio non sono molto collaborativi. Qualcuno è un po' insicuro delle proprie capacità e sembra intenzionato a tornare a valle; tuttavia, procedendo pian pianino riuscirà a portare a termine la tappa.
Nell'ombra del mattino, percorriamo a ritroso il sentiero di ieri. Dopo il bivio a cui lo lasciamo, la vegetazione si abbassa: agli alberi si sostituiscono i cespugli di mugo. Noi siamo in ombra, mentre sulle cime degli Spalti di Toro cade una bella luce radente. Ancora poca salita e siamo sul ghiaione, tra gli ultimi ciuffi d'erba. Nel primo tratto, fino alla strettoia, la traccia è molto ben marcata, ma già si derapa un po' all'indietro. Degli zig zag ci portano sul margine destro e poco più in alto la traccia scompare, mentre rimangono delle tacche di vernice recenti, che ci indicano di restare su questo lato del canalone e di sfruttare gli appigli della roccia più solida per salire. I più forti se vanno su per conto loro, lasciando i più incerti al loro destino. Qualcuno dal passo più insicuro scarica grosse pietre, che vedo schizzare poco sopra la mia testa. Pure io smuovo un grosso masso, che mi sembrava solido, ma rotola verso valle con tonfi sinistri. Un'escursionista va in panico su un traverso, in un tratto in cui abbiamo perso il residuo di traccia. Un santo le scava un passaggio con gli scarponi, che la rassicura quanto basta. I più insicuri sono preda all'ansia e procedono un po' a tentoni, anche rischiando di farsi male e di fare altrettanto a chi li segue. Certe volte mi viene da pensare che, in certi punti, sarebbe meglio arrampicarsi sulle rocce che restarne al margine, su terreno malsicuro; tuttavia resto in coda anche per rassicurare chi mi precede. I ghiaioni impegnativi come questo, secondo me, andrebbero affrontati da gruppetti piccoli e non da un grosso gruppo disomogeneo come siamo noi. Ogni tanto, sempre più di frequente a mano a mano che saliamo, consulto l'altimetro per capire quanto manca. Colo sudore da ogni poro, nonostante non ci sia il sole e non faccia caldo più di tanto. Finalmente vedo l'intaglio del colle e più sopra una traccia torna marcata. Tra gli ultimi anf anf siamo alla forcella. Non credo che amerò mai i ghiaioni dolomitici, anche se dopo ogni esperienza li affronto con più sicurezza. Meglio le pietraie di solido granito, potendo scegliere.
Era da un po' che non mi guardavo intorno e non scattavo foto, preoccupato com'ero. Ora però la conca con al centro il Campanile, che mi trovo all'improvviso davanti, mi fa assalire dall'ansia opposta, quella di lasciarmi sfuggire la luce migliore per riprenderla. O forse la meno peggiore, perché il cielo si è velato e il sole pallido a stento illumina le cime, che si perdono nella prospettiva aerea che le rende grigie. In certi momenti sale qualche nuvole a oscurarle del tutto. Di fronte a questa meraviglia, il gruppo non vede l'ora di ripartire, per togliersela, anche se si vede chiaramente che l'altro lato è molto meno rognoso, come ci conferma chi sale. Persino quelli che sono arrivati su allo stremo della tensione nervosa non aspettano altro che di scendere. Mi domando quanti si saranno fermati ad assaporare questo panorama, che forse non vedremo più dal vivo.
In cima incontriamo alcuni gruppetti di persone salite dalla val Montanaia. Quattro persone scendono verso il Padova, mentre la maggior parte ha fatto la gita in giornata dal Pordenone e rientra sul percorso d'andata. Quando il grosso del gruppo è quasi al bivacco Perugini, scendo con gli ultimi seguendo i segnavia biancorossi. Ci portano verso sinistra, in traverso, fino alla forcella Cimoliana, mentre il sentiero più diretto, molto marcato in basso, va giù dritto per il ghiaione. Alla forcella arrivava anche il sentiero Taiarol, oggi dismesso perché è franato un tratto attrezzato. Il canalone che affronta è angusto, ripido e impressionante, più del nostro. Dal colle seguiamo i segnavia che a zig-zag ci portano fino al prato, al cui margine si erge il Campanile (un campanile non può che ergersi). Il prato verde punteggiato delle ultime fioriture è come un giardino dai pomi d'oro, dopo tre ore di arida ghiaia. Oltre a noi, ora c'è solo un signore salito dal basso, che presto torna sui suoi passi.
Dopo una pausa non troppo lunga siamo nuovamente in moto. Il tratto che costeggia il Campanile è un bel sentiero nel prato, ma poco dopo la situazione cambia decisamente, perché entriamo in un immenso ghiaione di detriti grossolani, che cola giù fino al fondovalle. Il tragitto è ben segnalato, ben tracciato, non è difficoltoso, non è pericoloso, ma è una vera purga: il fondo sempre sconnesso costringe a camminare a occhi bassi e a pensare tre volte dove si poggia il piede. Migliora un po' giusto verso il basso, dopo che si arriva a lambire il torrente. Il sole va e viene e fa molto caldo. Oggi sono stato previdente e ho portato oltre due litri d'acqua, ma immagino la sofferenza di chi ama risparmiare peso. Qualcuno di questi si arrischia a prendere acqua dal torrente. Dal basso salgono due fidanzatini adolescenti: se arrivassero fino al Campanile, lei lo amerebbe per sempre o lo odierebbe per sempre; però rinunceranno presto, perché li vedremo al rifugio poco dopo il nostro arrivo. Di fronte, sull'altro versante della valle, c'è un altro grande colatoio, che scende senza interruzioni da una forcella al fondovalle; al rifugio ci diranno un bel sentiero lo risale fino alla cima. Quando arriviamo al bosco è una vera liberazione, non solo per il terreno solido e regolare, ma anche per la frescura: al calare della quota la temperatura era salita sempre più. Peccato che il tratto ombreggiato sia così breve e siamo subito al rifugio (ce ne sarebbe voluto almeno mezz'ora). Mezzo litro di birra locale a stomaco vuoto è un vero toccasana. La doccia a gettone ha un serbatoio da 10 litri di acqua calda. Sembra pochissimo, perché in media una doccia consuma 50-60 litri, ma la vita da rifugio insegna a essere molto parchi, al punto che riusciamo a farla in tre con due gettoni.
Verso ora di cena, fulmini illuminano il cielo crepuscolare e anticipano un breve temporale con grandine. Il tempo sta cambiando e la finestra che ci ha garantito un trek sotto il sole sta finendo. Anche per domani sono previsti temporali pomeridiani e serali, ma per fortuna la tappa sarà breve. Durante gli acquazzoni, qui i torrenti si gonfiano all'inverosimile, perché c'è pochissima terra in grado di assorbire le precipitazioni. Sul sito del rifugio, c'è scritto che in un guado lungo la strada di accesso c'è il rischio di restare dentro con l'auto, in questi frangenti. Per cena, al binomio goulasch-frico che ci perseguita dalla partenza, si aggiunge l'alternativa del pastin, carne macinata di vacca e maiale: sarà l'opzione scelta da quasi tutti.
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Sergio Chiappino
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