Torriglia-Calcinara
Montagna di Fascia
8 giugno
Diario di viaggio
La tappa più lunga (non che le prime due siano tanto più brevi), ma probabilmente anche la più stimolante, per l'enorme varietà di ambienti attraversati e spunti incontrati. Dopo una risalita nel bosco, passando per una cappella e belle casette, c'è un tratto molto panoramico lungo l'Alta Via dei Monti Liguri, seguito da un immenso castagneto e una zona dall'aspetto quasi alpino, di notevole interesse storico. La tappa termina con un traverso vista mare su una strada a scarso traffico.
Per pranzo, anziché i soliti panini, decidiamo di comprare della torta salata al supermercato. Si rivelerà salata in più di un senso (ci costerà più del pranzo di ieri), ma buona. Dobbiamo andare a intercettare il sentiero lasciato ieri, che da Donnetta rimane in quota, senza scendere in paese. Il proprietario del centro equestre si era offerto di accompagnarci in auto, ma con i nostri tempi dilatati gli avremmo causato non poco incomodo, per cui decliniamo e andiamo a piedi. Con le istruzioni di Pollicino della nostra guida, ci incuneiamo tra i vicoli, passiamo sotto un arco, ammiriamo Torriglia dall'alto e per una ripida mulattiera raggiungiamo senza difficoltà la cappella della Costa, dove ci ricongiungiamo alla Via del Mare. Da un certo punto in poi ci sono persino delle indicazioni del Parco. Di fronte alla chiesa c'è un estraniante chalet in legno, in stile norvegese, mentre sul retro una panchina è stata posta in un punto panoramico sulle fasce, che durante l'epoca agricola nutrivano il paese. Imbocchiamo una pista sterrata in un ombroso bosco di vegetazione collinare. Sbuchiamo su una strada asfaltata poco a valle della frazione di Buffalora, che presenta alcune case ben tenute, tra cui una che sembra essere stata abbandonata non appena terminati i lavori di ristrutturazione. Passa intanto Timothy su un pickup carico di tronchi e ci saluta. Terminata la strada, imbocchiamo un sentiero che guadagna quota, mentre la vegetazione arborea diventa a poco a poco montana, di faggeta pura, passando per frassini e aceri.
A un bivio prendiamo a sinistra in salita (ritroveremo tra poco il sentiero di destra), usciamo brevemente allo scoperto al colle Nord del monte Lavagnola, dove intercettiamo l'AVML e svalichiamo dal versante padano a quello tirrenico, come testimoniato dai segnavia FIE che da gialli diventano rossi. Notiamo che dei nuvoloni neri sono quasi sopra di noi e minacciano pioggia, ma per ora non scaricheranno che poche gocce. La mia esperienza appenninica mi ha insegnato che, nelle ore centrali, si formano dei nuvoloni, che però non producono molti fenomeni, mentre poi a metà pomeriggio o a sera arriva una seconda ondata più intensa. Ad ogni modo, per precauzione indossiamo i coprizaini, che terremo per tutto il giorno. Tagliamo le pendici del monte Lavagnola, senza salire in vetta (tanto sembra boscoso) e ritroviamo il sentiero lasciato poco fa. Entriamo quindi in una zona di dorsale più spoglia, che fin verso la colletta di Boasi ci regalerà dei magnifici panorami sull'Appennino e sul mare, sempre più vicino. Riconosco l'antennuto monte Fasce e il Manico del Lume, oltre al promontorio di Portofino. In basso vediamo parecchie case sparpagliate tra i pendii, dove si riconoscono le fasce ormai invase dal bosco. Sul versante sotto di noi ci sono invece dei cespugli di erica e delle felci, spesso esuberanti per le abbondanti piogge. Segue quindi un tratto di bosco, dove incontriamo una coppia che porta a spasso due cani. Scendiamo a una strada, dove è parcheggiata l'auto dei signori e la lasciamo subito per un sentiero in quota. Ci fermiamo su una balza rocciosa a mangiare un boccone.
Continua il traverso in una zona di rigogliose felci e arbusti, con fioriture, tra cui mi colpisce un fiore rosso che assomiglia ai gerani che vedo di solito sulle Alpi e, dalle ricerche sul Pl@ntNet, potrebbe essere un Geranium sanguineum. A un bivio, lasciamo sulla destra l'Alta Via, diretta al passo della Scoffera e di lì al crinale della val Bisagno, che separa Genova dall'entroterra. Proseguiamo in discesa nel bosco, che ci accompagna da un po', e giungiamo a un muro ricoperto di malta. Lo costeggiamo e dall'altra parte vediamo un piccolo casotto. Giunti alla colletta di Boasi, capiamo che era un casino di caccia di una villa, di cui restano dei ruderi. A giudicare dall'ampio uso di cemento e dallo stile, qualcosa nei pressi dell'Art Noveau, potrebbe essere dei primi decenni del Novecento. A valle delle case vediamo l'abbozzo di una strada non terminata, di cui sono rimasti i muri di sostegno in cemento.
Passati tra le poche case della frazione, entriamo in un castagneto, in cui resteremo a lungo. Non saprei dire quanto, se mezz'ora o un'ora o anche più. Il portamento degli alberi è una via di mezzo tra quello degli alberi da frutto e quello dei cedui: sono alti, non slanciati, ma con tronco dal diametro significativo. Il castagno da frutto ebbe un'importanza capitale per l'alimentazione, nelle zone impervie in cui non era possibile coltivare cereali, tanto che la Repubblica di Genova li fece piantare diffusamente anche nella colonia corsa, che ha una morfologia montuosa. Qui in Liguria la coltura andò in crisi a inizio Ottocento, un po' per l'introduzione di patata e mais, un po' perché allora furono importati il mal d'inchiostro e il cancro corticale, che arrivò a minacciare l'esistenza stessa di questa specie. Furono pertanto rimpiazzati dal castagneto ceduo, immune al cancro corticale. Anche se gli alberi non hanno la maestosità di quelli dei castagneti da frutto della Corsica, il lungo traverso ha su di me un effetto ipnotico, da cui mi desterò solo quando un temporale si scaricherà su di me. Il sentiero passa accanto a diversi ruderi, uno dei quali presenta un'architettura di archi in pietra.
Usciamo quindi dal bosco, costeggiando un orto e attraversando dei prati abbandonati e invasi dalle felci, che sono alte quanto noi. Passiamo da un punto panoramico, sopra i dossi di castagno, da cui udiamo la tromba bitonale di una autobus, senza però vedere né una strada né un paese. Ci fermiamo a mangiare un boccone su una roccia dall'aspetto scistoso. Comincia intanto a gocciolare di nuovo. Sbuchiamo quindi su una dorsale panoramica e scoperta, da cui vediamo un temporale alla nostra sinistra. Qualche fulmine cade intorno a noi e arriva quindi una pioggia sempre più battente. Quando giungiamo alla strada mi sono finalmente risvegliato dall'ipnosi e, anche se ancora non realizzo il rischio che ho corso tra i fulmini, mi rendo conto che è il caso di indossare il guscio, perché la maglietta e i capelli sono ormai zuppi. Ci manca poco per arrivare a Sant'Alberto di Borgonovo, dove fortunatamente un bar è aperto e ci offre riparo.
Chiediamo tre tè e poi se ha qualcosa per accompagnarlo. La barista va allora a rovistare in casa e ci porta dei biscotti danesi, che non ci farà neppure pagare, e di cui mi abbufferò. La signora è stata molto gentile, ma i biscotti devono contenere qualche margarina terribile al posto del burro, perché dopo mezz'ora mi bruceranno lo stomaco con un'acidità nitrica, anche se di solito digerisco anche le pietre. Con la signora chiacchieriamo a lungo, mentre un avventore del posto se ne sta in disparte a sorseggiare una birra. Quando cessa la pioggia, riprendiamo la marcia. L'erba zuppa ci infradicia i pantaloni in men che non si dica, e poi l'acqua colerà nelle calze e di lì negli scarponi. Il sentiero è una stretta ma ardita mulattiera, sostenuta da alti muri a secco, che taglia un pendio ripidissimo, superando vari impluvi. Telegrafiche parole per descrivere il sentiero più bello di quelli visti finora, impreziosito dalla fioritura di margheritone e grandi campanule di colore violetto. Il pendio attraversato ha un aspetto molto impervio, direi alpino. Mi domando a cosa servisse questo sentiero, che certamente non era praticabile dalle carovane di muli che trasportavano merci dal porto alla Lombardia, in quanto troppo stretto e pericoloso. Doveva essere piuttosto un sentiero di transumanza per il bestiame minuto. Poco prima di arrivare al colle del Bado, il sentiero guadagna rapidamente quota con stretti tornanti. Qui il fondo roccioso è parecchio scivoloso con il bagnato e ci richiede una scelta accorta degli appoggi. Alla base dei tornanti una corda protegge dalle cadute nel precipizio sottostante. A cena scopriremo che è stata sistemata dall'organizzazione del trail “La via del mare”, svoltosi a fine aprile, per non dover andare a recuperare i corridori nei rovi. Loro infatti hanno sceso questi tornanti di corsa, ma la sorte è stata benevola, perché i giorni della gara sono stati caldi e asciutti (anche troppo, vista la stagione).
Dopo essere stati a lungo in un bosco fitto, improvvisamente al colle del Bado ci si apre un panorama a perdita d'occhio, su ambo i versanti. A est il pendio cala precipitosamente e lascia vedere la nostra meta in lontananza, tra dossi boscosi. A ovest c'è invece una conca erbosa e boscosa chiusa da due ripidi monti, il Bado e il Croce di Fo. Dal basso arriva una teleferica, che testimonia l'importanza passata di questo luogo, così come lo faranno le costruzioni e le tracce di bestiame sulle pendici del monte Croce di Fo. Ci fermiamo lungamente in questo punto, gironzolando per ammirare entrambe le facce del panorama. Decidiamo che procederemo nella conca erbosa, anziché verso Pannesi, da quanto questa zona ci attrae. Saremo baciati dal sole, che si sta facendo strada nel cielo sgombratosi dopo la pioggia; non togliamo tuttavia il coprizaino, che protegge il sacco dalla vegetazione invasiva ancora fradicia.
Procediamo in quota, per un sentiero che attraversa diversi impluvi, uno dei quali ci richiede anche un breve excursus fuori sentiero per evitare le rocce più scivolose. Ci infiliamo in un profondo incavo, da cui si stacca anche il sentiero che porta in cima al Bado (sarebbe bello salirlo, ma è già tardi e rischieremmo di inzupparci ancora di più, nell'erba alta). Sul pendio opposto vediamo numerose tracce di bestiame, e quindi, passando da una zona boscosa a una più aperta, oltrepassiamo un muro a secco di architettura caratteristica, qui chiamatocrèsta. È costruito con lose derivate dalla frattura del calcare tipico di questa zona; alla sommità le pietre sono disposte verticalmente, a coltello: questa geometria serviva a renderlo invalicabile dagli animali al pascolo, perché la sua funzione era di delimitare zone di pascolo da zone agricole di bosco o coltura mista.
Questa zona montuosa, anticamente conosciuta come Montagna di Fascia, era infatti il punto d'incontro tra i contadini della costa e i pastori transumanti di ovini dell'alta val Trebbia, che vi svernavano. I loro percorsi hanno lasciato il toponimo di colle Caprile, da cui transiteremo domani. Questa zona era anche di capitale importanza per l'approvvigionamento di latte e carne alla vicina Genova. I contadini, dal canto loro, avevano un rapporto di amore e odio con le pecore: se da un lato il loro letame era universalmente riconosciuto come ottimo concime, dall'altro erano temute per la loro caratteristica non lasciare neanche un filo d'erba per la fienagione per le vacche in stabulazione, senza contare poi che attaccavano le cortecce delle colture arboree. Alla lunga prevalse il secondo interesse, per cui dal periodo napoleonico, quando furono anche privatizzate le comunaglie del monte, che permettevano ai pastori di sfruttarne liberamente le risorse, furono un poco alla volta sostituite dalle vacche.
Sfioriamo delle caselle, dall'architettura simile a quelle più note delle montagne savonesi e imperiesi. Nelle pietre di una di esse, gli archeologi hanno trovato un foro da mina, che ne implica una datazione relativamente recente, all'Ottocento, quando era in attività una vicina cava. Purtroppo non ho mai trovato nessun libro che ricostruisse la funzione, la tecnica costruttiva o la datazione di questi edifici rurali pure così comuni. L'unica monografia in cui mi sono imbattuto, in un rifugio del CAI di Albenga, era puramente tassonomica. Vediamo poi delle lunette in pietre a secco, la cui funzione mi rimane ignota (sul promontorio di Portofino le ho viste usate come sede di un ulivo, ma qui non c'è traccia di alberi). Sotto alle lunette due motociclisti girano in tondo, come criceti in una ruota, e frantumano il silenzio di cui abbiamo goduto finora in mille cocci di vetro, oltre a erodere il terreno. Siamo prossimi alla fine settimana.
Presso Case Becco ci immettiamo sulla strada del monte Fasce, dove il traffico è molto scarso. In senso opposto sale un e-ciclista che ha sentito parlare dell'Alta Via e a cui piacerebbe percorrerla, ma di cui ha idee non poco indefinite. Godiamo di una bella vista mare, per l'infilata della valle che scende a Sori, una delle possibili vie di accesso alla costa. Noto che, dall'ultima volta che passai da queste parti, sono stati rinfrescati i segnavia dell'itinerario colombano, che congiunge Nervi alla val Fontanabuona. Fotografiamo i cartelloni con la descrizione dei sentieri della zona, superiamo Case Cornua e facciamo una pausa al sole, sulla panca accanto alla cappella degli Alpini. Siamo separati dalla valle di Sori da un salto, ai cui piedi la valle prosegue profondamente incavata. In uno spazio molto risicato si passa dal monte alle fasce coltivate della costa. È interessante osservare come i confini comunali del paese rivierasco risalgono la valle e includono anche il monte soprastante. Ciò è dovuto alla pratica mista di agricoltura e pastorizia, diffusa una volta, che richiedeva sia terreni coltivabili che pascolivi o di fienagione.
Riprendiamo a camminare lungo la strada; di fronte a noi compare un vistoso arcobaleno, che ci fermiamo a fotografare. Imbocchiamo quindi la vecchia mulattiera che si stacca sulla sinistra, godendoci un ultimo tratto umido e scivoloso. Transitiamo accanto all'edicola votiva, costruita per il ringraziamento a uno scampato naufragio nel golfo del Leone, e, tagliando un tornante della strada, siamo a Calcinara. La gattara del gruppo si ferma a socializzare con l'omologa locale, che sta compiendo il suo dovere. Passata la chiesa, il cui campanile è illuminato da una luce serale (sono le 19.30), siamo all'albergo, dove stavano già pensando di mobilitare i soccorsi. Guadagniamo tuttavia subito cento punti, quando raccontiamo che ci siamo concessi un'ultima pausa alla cappella con vista mare.
L'albergatore è un appassionato corridore di montagna e ha recentemente organizzato la prima edizione del trail “La via del mare”, da Camogli a Torriglia. Mentre ceniamo, apparecchia sé stesso accanto all'olio e si dilunga orgoglioso a raccontare l'impegno dell'organizzazione e i dettagli della gara. Ci cucina dei branzini al cartoccio, che prepara su una piastra dall'altro lato della strada, solcandola ripetutamente da una parte all'altra mentre li cuoce, lasciandoci contemplare dalla vetrata la sua figura slanciata e la sua falcata atletica. È assistito da un abitante del posto, che viaggia inseparabile da un grosso cane.
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Sergio Chiappino
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