Erto
Vajont
22-23 luglio
Diario di viaggio
A Erto il bus ci scarica ai piedi di scalinate tra casermoni in cemento fotocopiati: il progetto della ricostruzione fu lo stesso per tutti. Chi voleva rientrare non aveva alternative a un blocco grigio con finestre in metallo tinto di giallo, senza cantina né garage. Per la verità il paese non fu colpito direttamente dal disastro, ma fu dichiarato inagibile e i suoi abitanti ricollocati, il nome asettico delle deportazioni. Solo dopo aspre lotte alcuni riuscirono a ritornare nel proprio paese, ma furono costretti a costruire nuove case sopra la quota della diga, subito a monte del paese vecchio. La barista ci dice di non sentirsi a suo agio quando chiude la porta e vi rientra. Il suo locale l'ha ingentilito con il legno, ma il porticato grigio e squadrato le è rimasto (cercherò invano un soggetto adatto a rendere questo contrasto in uno scatto). La notte dopo lo sogno in mezzo alla steppa russa, durante un'esplosione nucleare come nei poligoni sovietici, che ho visto nei reportage dei fotografi russi. La madre, che era ancora bambina quel 9 ottobre, ci racconta che la sera prima del disastro venne uno degli ingegneri della diga con l'autista. Suo padre, che quella notte sarebbe morto, gli esternò le sue preoccupazioni per quella montagna, ma quegli lo schernì come montanaro rozzo e ignorante. Chissà se questo aneddoto è vero. Certo il suo valore didascalico lo rende un buon candidato ad essere un falso ricordo.
Prima di cena, durante il temporale del tardo pomeriggio, si manifesta un'apparizione mistica e irsuta, ma insolitamente analcolica. Anche se per la verità qualcuno sembra più incantato dalla bionda e piacente barista. Per cena, dopo una settimana passata a scegliere tra frico e goulasch, avrei voglia di un ristorante vegano, ma finisco comunque a cenare con i migliori frico e pastin assaggiati finora. Alla luce del crepuscolo e dei lampioni visitiamo quindi il paese vecchio. Di molte case è rimasto solo lo scheletro esterno, mentre molto poche sono ristrutturate e ancor meno vissute tutti i giorni. Scritte sui muri sparute e sommesse come gli abitanti invitano alla resistenza e alla disobbedienza. Quanto sono invece più cariche di violenza, quelle analoghe sui muri della mia città. Il campanile batte le ore per tutta la notte. Tanto, chi mai può svegliare con i suoi rintocchi?
La mattina il mio sonno termina alle quattro. Un'ora dopo, quando comincia a schiarire, esco per il paese con la macchina fotografica al collo. Sono così concentrato che non mi accorgo che il mio compagno di stanza è già sveglio. La valle è avvolta nella nebbia. Al bar mi spiegheranno che l'alta diga fa da tappo all'umidità, che non può fluire verso valle e ristagna qui. Una vecchia spinge una carriola tra i vicoli. A quest'ora del mattino, c'è più vita in questi paesini spopolati che sugli Champs-Élysées, come mi ha confermato una parigina trapiantata sull'Appennino. Una gatta grassa e rossiccia e mi scruta sospettosa mentre cerco di aggirarla circospetto, per fotografarla prima che scappi. Uno nero da streghe con una coda pelosa, meno compiacente con i foresti e i fotografi, si nasconde furtivo in una casa diroccata; nel buio scorgo i suoi occhi gialli e le sue pupille tonde che mi fissano attraverso la finestra. Cammino con lo sguardo sul terreno per non calpestare le tantissime lumache e chiocciole uscite per l'umidità penetrante. Al rientro resisterò a stento alla tentazione di una doccia calda supplementare.
Ho quasi esaurito il tempo a disposizione, perché mi devo preparare per partire. Indugio tuttavia ancora un po', tornando sui miei passi quando il primo sole sulle cime dirada la nebbia. Verso le 6.30 credo sia ora di andare a destare il mio compagno di stanza, che contava sulla mia sveglia. Lo trovo poi già in piedi, a spasso per via 9 ottobre, mentre mi chiama per farsi aprire.
Da Erto si può proseguire fino a Casso per il Truj de Sciarbon (sentiero del carbone), che in passato era percorso dalle donne che si caricavano gerle anche di quaranta chili, da portare a valle. (A me sembrò di fare un'impresa eroica quella volta che portai i sacchi di cemento da venticinque chili su ad un rifugio). Il carbone prodotto dalla legna di faggio era un modo per integrare i magri redditi della montagna e sfruttare le zone inadatte all'agricoltura e al pascolo. Il sentiero si snoda in quota in un ambiente molto diversificato, dai tipici boschi di ornielli della bassa montagna delle Alpi Orientali fino ai ghiaioni aridi con la loro vegetazione pioniera. Offre un ottimo punto di vista sulla frana del Monte Toc e su ciò che resta del lago. Casso ha un dialetto molto diverso da quello di Erto, ma la ragione di ciò non è chiara ai loro abitanti, le cui opinioni in proposito divergono assai.
Da Casso si può scendere fino a Codissago per il Troi de Sant'Antoni, che passa accanto a una cappella affrescata, purtroppo molto deteriorata. L'ultimo tratto di discesa ha un fondo molto rovinato e attraversa a più riprese la strada, dove bisogna schivare le moto e indossare i tappi per non restarne assordati. Sconsigliato.
Galleria fotografica
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Sergio Chiappino
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