Meira Garneri-Rore
Nadobrand
22 giugno
Diario di viaggio
Tappa breve, caratterizzata da una lunga discesa (è l'unica tappa con un dislivello superiore ai mille metri). Molto belli i prati a valle del rifugio. L'abbiamo percorsa con la minaccia incombente di temporali pomeridiani più organizzati che nei giorni precedenti, che siamo riusciti ad anticipare e che poi non sono stati particolarmente violenti.
La colazione è la migliore del viaggio, con prodotti sfornati dalla cucina e altri di artigiani dei dintorni. Alla nostra partenza, il gattino è intento a cacciare nei prati intorno alla struttura. Seguiamo una pista sterrata in ripida discesa, che si diparte dalla via di accesso automobilistico al rifugio. Subito è spoglia e triste, ma ben presto si ricopre di erba verde e diventa più godibile. Ci conduce alla Meire da Fiour; in questa stagione tengono fede al loro nome, in particolare grazie al Polygonum bistorta, quel fiore formato da una pannocchia di microscopici fiorellini rosa, che è molto comune e tappezza i prati. Continuiamo a scendere con decisione tra baite e prati, attraversiamo la strada del colle, e al pilone di Misservè imbocchiamo un sentiero nell'erba folta, parallelo al torrente. Costeggiamo delle arnie, dove un giovanissimo apicultore sta estraendo le lastre con i nidi, per controllare l'andamento della produzione. Giungiamo a una pista da sci, dove la traccia si perde, ma dall'altro lato c'è un pilone votivo che ci indica la direzione giusta. Strano destino di un pilone votivo, che marcava un sentiero e ora una pista da sci, adattandosi ai tempi nuovi. Verificando sulla carta, scopriamo che dobbiamo proseguire ancora in piano per qualche decina di metri, per poi prendere a destra e varcare il torrente. Oltre il pilone per fortuna la traccia è stata appena battuta da una mandria di vacche, altrimenti sarebbe irreperibile tra le megaforbie. Giunti al filo che delimita il pascolo, individuiamo il sentiero da imboccare in discesa, che ci porta nuovamente alla pista da sci e oltre il torrente su una passerella di legno.
Il sentiero raggiunge un pilone con raffigurato san Chiaffredo, transita sotto una seggiovia e confluisce quindi nella strada del colle, che dobbiamo seguire per qualche curva. Siamo in corrispondenza del ristoro S. Anna, ma è troppo presto per una pausa caffè. Proseguiamo incrociando diversi ciclisti in salita a discesa e alcuni motociclisti. Salviamo dallo sgnaccamento delle improvvide chiocciole, che rischiano la vita attraversando la strada. Finalmente raggiungiamo la pista sterrata diretta a Nadobrand, che ci consente di abbandonare l'asfalto. Proseguiamo in lieve salita. Da una pista laterale arrivano due signori, che hanno parcheggiato il fuoristrada al tornante successivo; ci superano poi due ciclisti, il più vecchio dei quali è senza fiato ma non la smette di parlare neanche un secondo. Su una spalla uno squarcio nel bosco ci offre un punto panoramico su Becetto e le meire Roina, di cui riusciamo a individuare il prato, ma non gli edifici. Dopo l'ultima baita, che all'ingresso a un grosso fiore rosso simile alle peonie, nessuno più ha rasato l'erba, per cui ci camminiamo in mezzo fino al ginocchio. Poco prima di giungere al termine della pista, sul bordo ci imbattiamo in una ricca fioritura di aquilegie. Al fondo c'è un gruppo di baite, di cui una ristrutturata con abbondante impiego di cemento. La nostra cartina chiama questo posto Madonna di Nadobrand, ma non vediamo cappelle nè piloni. Ci fermiamo su dei massi per mangiare un boccone. Il cielo, sgombro al mattino anche se in un'atmosfera fosca, si è coperto e minaccia pioggia.
A valle delle baite vediamo una tacca su un albero isolato; attraversiamo allora il prato seguendo un traccia di erba calpestata (al rifugio ci hanno detto che due giorni fa altri escursionisti si sono incamminanti sul nostro stesso percorso). Il sentiero scende per un breve tratto regolarmente, attraversando anche una zona di rododendri fioriti, che emanano un profumo dolce, poi in maniera molto più accentuata, sempre seguendo una dorsale. C'è anche una balza rocciosa attrezzata con una fune metallica, fresca di fonderia. Data l'umidità del fondo, apprezziamo molto l'aiuto. Seguono altri tratti che richiedono cautela, per le pietre scivolose e le immortali foglie di faggio che le ricoprono. Continuando a rotolare, finiamo in una trincea, da cui scendiamo su una pista erbosa, in corrispondenza di un pione votivo in rovina. Saliamo a Grange Collet, un piccolo insediamento allungato ai bordi della pista, dove solo una baita è ristrutturata e tenuta. Continuando a salire nel bosco fitto, raggiungiamo delle caserme e delle fortificazioni di fattura ottoentesca, suppongo le retrovie delle fortificazioni edificate al confine con la Francia, durante il periodo della Santa Alleanza. Ai piedi dell'ultimo forte, la strada incomincia a scendere. Si mette a piovere dopo che da un po' tuonava e gocciolava. Ci fermiamo, indossiamo guscio e coprizaino e riprendiamo a scendere a morbidi tornanti, lungo la pista militare nel bosco. Il primo temporale per fortuna è tenue, per cui, grazie anche alla copertura del bosco, quasi non ci bagniamo.
Dopo un pilone accanto a delle case abbandonate, arriviamo alla giunzione con un sentiero, dove dobbiamo fare un'inversione a U. Proseguendo sulla strada, arriveremmo più in fretta a Rore, ma vale la pena di allungare la tappa, peraltro breve, per andare alla chiesa dedicata a san Mauro. Il sentiero resta in piano, passando a monte della borgata Brusa, e raggiunge la chiesa. Come speravamo, ha un porticato dove possiamo trovare riparo dalla pioggia, che tra poco crescerà d'intensità. All'interno è molto semplice e ha degli ex-voto appesi alle pareti, mentre sulla facciata ha delle raffigurazioni di santi. La parte bassa è tutta incisa da firme di passanti, per la maggior parte risalente agli Anni Settanta. Sotto il porticato ci sono dei nidi di passeriformi. Assistiamo al primo incerto volo di uno di essi, forse una femmina di ortolano. Accanto c'è un edificio a più piani, di cui è rimasto solo lo scheletro, che doveva servire come alloggio dei pellegrini e delle cavalcature, e dove adesso ci sono dei tavoli da picnic.
Terminato lo scroscio, con molto comodo ripartiamo. Seguendo in discesa una sterrata, arriviamo a Brusa, dove siamo accolti da gatti e galline. Più avanti vediamo delle vacche nei prati e delle stalle. Arriviamo alla provinciale, nel punto dove confluisce anche la pista militare. Con prudenza attraversiamo la trafficata arteria e saliamo a Ressia, nome che significa sega, in quanto qui, sfruttando l'energia meccanica offerta dal Varaita, nell'era pre-industriale c'erano degli opifici. All'ingresso di Rore un cartello avvisa gli automobilisti di procedere lentamente, perché qui i bambini giocano ancora per strada. Facciamo una puntata alla chiesa con portale del Quattrocento, per poi andare in albergo, poco prima che si scateni un rovescio.
Ci accoglie il figlio della titolare, mentre la nonna è impegnata in cucina, da cui arriva un forte odore di funghi, che ci verranno serviti a cena come condimento dei tagliolini. Il papà è invece impegnato in un trail da Alagna a Capanna Margherita, mentre la sorella sta facendo la ragazza alla pari vicino a New York. L'architettura della struttura è anni Ottanta, la stanza che ci danno è ampia e confortevole. Dato che oggi non dobbiamo neanche fare il bucato, indugiamo nel bar, dove c'è un poster autografato in occitano dai gemelli Dematteis, i detentori del record velocità nella salita sul Monviso. Alla sede del circolo vicino alla chiesa avevamo già osservato uno striscione in loro omaggio, anch'esso in occitano. Viene a fare un giro al bar il cane Barack, così chiamato perché fu trovato durante il periodo dell'elezione del presidente Obama. È di proprietà di una parente, in questo periodo assente, ma è anche il cane del paese. Dato che dopo il temporale il cielo si rischiara, saliamo alla chiesa di Santo Stefano, che domina il paese. La frazione è molto curata e ha l'aspetto di un posto vivo e animato: le case sono dipinte con figure ispirate ai sarvanot, la versione alpina del piccolo popolo del bosco. La cena è tradizionalista, condita all'inverosimile. Sentiamo la padrona mentre al telefono prende la prenotazione di un cliente abituale, un vecchio che chiama professore e viene qui con la moglie a trascorrere la villeggiatura estiva.
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Sergio Chiappino
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