Calcinara-Camogli

Parco di Portofino

9 giugno


Camogli
Camogli

Diario di viaggio

Da Uscio c'è solo l'imbarazzo della scelta, per quanto riguarda i percorsi per scendere al mare. Si può tornare indietro lungo la strada di ieri fino quasi alla cappella degli Alpini e quindi prendere il sentiero per Sori (questa è la via più breve). Proseguendo oltre, si può arrivare al monte Cordona e di lì scendere a Nervi, con la possibile variante di puntare su Sant'Ilario per crose e poi percorrere il lungomare Anita Garibaldi. Prendendo invece a est, si può puntare su Recco o il Promontorio di Portofino, dove le mete si moltiplicano.
In origine, avevamo pensato di mirare all'abbazia di San Fruttuoso e prendere quindi il traghetto. Tuttavia il vincolo di dover arrivare per l'ultima corsa delle 18.00 era restrittivo, per quanto riguarda le possibilità di godere la camminata senza sentire il fiato dell'orologio sul collo. Inoltre in origine contavamo di arrivarci venerdì, con meno folla balneare. Tra l'altro oggi è prevista una gara di MTB nel parco, che potrebbe limitare la nostra libertà di muoverci. Ci sarebbe molto da dire su quest'appropriazione dei sentieri da parte di eventi sportivi, a scapito dell'escursionismo. Alla fine abbiamo perciò deciso di scendere a Camogli, passando per Ruta.

Per colazione ci spetta un uovo fritto a testa. Un riguardevole flusso di anglosassoni di ogni continente percorre questo trek e qui hanno deciso di onorarli così. Qualcuno di noialtri makaroni è meno entusiasta della cosa, così a me ne toccano due. Per il cestino del pranzo, che qui designano con con terminologia anglofona, chiediamo un panino con la frittata e l'albergatore rinnova la cerimonia della piastra, per poi portarci ad ammirare il frutto del suo lavoro.
Al mattino, i venti da sud addensano una cappa di nuvole basse liguri, che ristagnano sulle dorsali. Riprendiamo la marcia sulla strada percorsa ieri sera, tralasciando la bretella che la abbandona per rientravi quasi subito. Al colle Caprile, il nome che indica una via di passaggio della transumanza, imbocchiamo la pista cementata in ripida salita, che presto spiana e diventa a fondo naturale. Un borbottio sinistro annuncia una rapida successione di gruppi di moto da trial, per un totale di una ventina di motociclisti. Il sentiero qui è abbastanza stretto, fangoso e circondato di vegetazione invasiva, per cui non è semplice spostarsi per lasciarli passare. Questo incontro, accoppiato alle nuvole basse, ci abbatte l'umore, ma per fortuna resterà isolato. Dalla strada abbiamo qualche veduta su Uscio, prima che il sentiero lasci lei e i gas di scarico per passare sul lato della val Fontanabuona, interamente ricoperto da un bosco misto collinare. Costeggiamo le cave abbandonate di monte Rosso, dove era estratta l'ardesia. Sul fondo delle zone di cava si sono formati dei piccoli laghetti. Da un passo rientriamo sul lato marino, dove rivediamo le tracce delle moto. Attraversiamo una vecchia zona di pascoli con ruderi, invasi da felci più alte di noi.
Ritorniamo nel bosco sul lato nord e arriviamo al passo dei Casetti, dove lasciamo l'itinerario colombano per una mulattiera che scende ripida. Seguiamo quindi un raccordo, che ci porta sulla strada asfaltata diretta a Colonia Arnaldi. La strada ci offre qualche vista sulle due chiese affiancate di Uscio, ma è nel complesso noiosa. L'afa poi è opprimente.

Con un po' di pena arriviamo alla colonia e oltrepassiamo il cancello. Fu fondata oltre un secolo fa da un igienista, il quale si era convinto che tutte le malattie avevano un'unica causa: l'accumulo di sostante tossiche nel sangue, dovuto a «anomalie nell'assimilazione e in una diminuita attività nelle vie di eliminazione». Per questo, proponeva un'unica terapia per tutte le malattie, «tanto un eczema come un cancro,[…] un diabete o una nevrosi qualsiasi»: una dieta, intesa nel senso ampio di stile di vita, insieme a una pozione erboristica da lui ideata. La filosofia che muoveva l'azione di Arnaldi era una mistura curiosa, vista con gli occhi contemporanei. Alla base di tutto c'era la convinzione che la civiltà avesse imposto uno stile di vita lontano dalla natura, artificioso e per ciò stesso dannoso. È una convinzione inscindibile dalla cultura occidentale: era già diffusa presso gli antichi greci. Ci sono poi altri elementi che ritroviamo anche oggi nei proponenti di cure miracolose, come un culto della propria personalità, o la convinzione dell'infallibilità del proprio metodo («senza veruna eccezione», scrive in grassetto a proposito dell'efficacia della sua cura). Non manca l'opposizione alla scienza ufficiale, come si direbbe oggi, che lui invece chiamava Scuola (nella sua propaganda faceva ampio uso di maiuscole). D'altro canto Arnaldi aveva un atteggiamento di fede positivistica nei confronti del progresso tecnico e scientifico del suo tempo, tanto da chiamare «medievali» i suoi oppositori. Era convinto che solo il progresso potesse ricondurre l'uomo alla natura e si poneva pertanto sulla scia degli inventori e degli scienziati, che, a partire dalla rivoluzione scientifica di Galilei a quindi a quella industriale, stavano consegnando all'umanità numerose invenzioni e scoperte. In questo era un uomo del suo tempo ed era profondamente diverso dai suoi epigoni odierni, che normalmente rifiutano la modernità e propugnano il ritorno ad un passato mitico.
Faceva poi un uso massiccio di clienti soddisfatti come prove, tanto da pubblicare un intero volume di lettere di ringraziamento. Questo modo di ragionare è così radicato nel nostro cervello da essere usato ancora oggi da tantissima gente per valutare le terapie da seguire. A questo proposito va detto che allora non era ancora conosciuto l'effetto placebo e pertanto non era ancora stato ideato il protocollo del doppio cieco; tuttavia, nell'appello ai clienti soddisfatti, manca anche la consapevolezza della necessità di un campione di controllo, per poter stabilire la presenza di causalità tra terapia e guarigione. Peraltro sarebbe davvero interessante far leggere queste testimonianze da un medico dei nostri giorni. Mi sembra di capire che all'epoca la Scuola facesse ampio uso pratiche e sostanze più dannose che non fare nulla (ad esempio, ci sono frequenti riferimenti ai purganti, che disidratano l'organismo). Inoltre dalle lettere di ringraziamento si deduce che i suoi clienti appartenevano alle classi agiate e intellettuali, quelle che più beneficiavano del progresso tecnologico senza pagarne il prezzo con la vita di fabbrica, ma che avevano i mezzi culturali e il tempo libero per riflettere sui suoi danni. Il concetto di disintossicazione dalla modernità e la vita nella natura venivano incontro a questo bisogno spirituale. Scegliere in base a una narrazione in armonia con i nostri valori, è quasi un bisogno primario delle persone, per quanto lo possono essere i bisogni culturali.
Sull'innominabile aspetto scatologico della dieta, celato nel lessico asettico dell'Arnaldi, insiste invece Aldo Busi, in un romanzo degli Anni Novanta ambientato qui, intitolato Le persone normali (la dieta di Uscio). Lo scrittore nella finzione impersona sé stesso, raccontando i dialoghi con i pazienti e il personale della struttura. I personaggi, che definire bislacchi è eufemistico, sono ben radicati nella carne, nei loro bisogni elementari: soldi, sesso, cibo, pettegolezzo sono le stelle polari che li guidano, al riparo di un cartonato di rispettabilità e ciò che li rende normali. La stessa dieta Arnaldi è divenuta una dieta dimagrante, adattandosi alla koinè televisiva. La colonia e la cura fanno solo da sfondo, sono unicamente un artificio narrativo per estraniare dalla quotidianità e mettere a nudo i protagonisti, il vero interesse dell'autore; la natura che abbraccia la struttura è invece pressoché assente, limitata a pochi schizzi appresi da qualche dépliant turistico.

All'ingresso della colonia i segnavia scompaiono e vado a memoria del mio passaggio precedente, in senso opposto. L'architettura degli edifici trasmette una molteplicità di unghiate sulla lavagna, di futuro in bachelite in mezzo alla natura, «modernità fuori moda», la definisce Aldo Busi. Non so se l'effetto sia connaturato alla visione del fondatore o se il tempo trascorso agisca come uno specchio deformante, come quando ci fa vedere un astronauta nella pietra di Palenque. Finalmente verso il fondo ritroviamo delle segnalazioni. Tra edifici dismessi ci immettiamo su una stradina, che si allontana dalle costruzioni e si inoltra nel bosco. In piano arriviamo al passo della Spinarola, dove oltrepassiamo una strada su una passerella e troviamo i primi cartelli del Parco di Portofino. Percorriamo un lungo traverso in un bosco misto di castagni, ornielli e noccioli. Le nuvole sono più addensate su questa dorsale che altrove, per cui ci tocca un passaggio nella nebbia. Da continentale la chiamerei novembrina, ma qui è comune in primavera, quando l'umidità trasportata dai venti marini condensa nella risalita dei versanti. Specie sul promontorio ha un'importanza vitale per l'apporto idrico, perché le piogge estive sono quasi assenti nel clima mediterraneo, e consente l'esistenza di sorgenti perenni. L'avevo letto sulla guida del parco, ma è la prima volta che la vedo, perché normalmente frequento questi luoghi solo d'inverno. Superiamo un rudere a forma di tronco di piramide, con tetto piatto in erba e un'unica finestra minima; immerso nella nebbia e nel bosco, alla nostra classicista ricorda le vestigia di qualche civiltà sperduta sugli altopiani tropicali. Li battezza “le rovine Maya”. Queste costruzioni sono abbandonate da quasi un secolo, nell'ipotesi migliore, per cui è andata anche perduta la memoria orale delle loro funzioni.
In senso opposto a noi passano un adulto e un giovane muniti di metal detector. Questa gente è detestata dagli archeologi, perché porta via i reperti, distruggendo il contesto senza prima analizzarlo, rendendoli perciò muti e inutili: restano buoni solo per i collezionisti interessati unicamente al loro valore venale. Al bivio del sentiero per il Manico del Lume facciamo una pausa, perché sono quasi tre ore che camminiamo, ma prima non avevamo trovato nessun angolo accogliente. Siamo di poco sotto le nuvole, per cui riusciamo a vedere il mare del Tigullio, dove pare esserci qualche raggio di sole, mentre Montallegro è avvolto dalla nebbia.

Riprendiamo il traverso, in un ambiente più aperto di cespuglieto, per arrivare al passo del Gallo. Qui imbocchiamo la traccia, segnalata da tre pallini, diretta al monte Orsena, dove sorge il santuario dedicato alla Madonna di Caravaggio. Passiamo accanto a dei ripari di cacciatori e restiamo nella boscaglia lungo la dorsale, fino a toccare la cima del monte, da cui accediamo al retro della chiesa. Andiamo poi a sistemarci sulle panche accanto alla facciata per il pranzo. Noto che in una fessura del sedile di legno è acquattata una lucertola punteggiata di giallo, che resterà immobile e probabilmente terrorizzata per tutto il tempo della nostra permanenza.
Le nuvole assediano il monte a poi si dileguano, in un andirivieni incessante. Scendiamo per la scalinata nuova e poi raggiungiamo il sentiero per Ruta con un traverso lastricato. Ricordo invece che la prima volta che venni qui, una dozzina d'anni fa, salii per la vecchia scala, che ricalca la dorsale diretta a Ruta. Oggi mi sembra ancora più dissestata di allora. Il sentiero prosegue in traverso, tagliando le pendici occidentali del monte Ampola. In questo tratto la traccia è più scomoda che prima, e fangosa. Arriviamo a un prato a cui sale anche una stradina, che bisogna seguire per andare a Recco. Ricordo che bisogna poi imboccare un sentiero, il cui attacco non è per nulla evidente né segnalato; infatti quando proseguii di lì mancai l'imbocco, e lo scoprii solo percorrendolo in senso opposto. Noi invece restiamo più in quota su una mulattiera. Passiamo accanto a una grande conca artificiale, in parte cinta dal terreno e in parte da un muro a secco, forse una vasca per raccogliere l'acqua (mi sembra un luogo un po' troppo caldo per una ghiacciaia, anche un secolo fa, inoltre manca lo scarcio per l'acqua di fusione). I lecci annunciano il Mediterraneo, coperto da uno spesso strato di nuvoloni. Dopo un lungo tratto in quota, prendiamo a scendere più decisi e raggiungiamo i primi segni della civiltà. Tocchiamo la chiesa vecchia di Ruta, attestata dall'XI secolo ma ritenuta ancora più antica.
Per Camogli non ci sono percorsi segnalati, ma basta scendere per scalinate. La prima che vediamo ci sembra promettente e la seguiamo. Alcuni si tolgono gli scarponi e indossano i sandali. Mai riporre i bastoncini fu più avventato (povere ginocchia). Un po' a casaccio, un po' con la guida del dio egizio delle mappe seguiamo una serie di scalinate che ci conducono nei pressi della stazione. Ho già segnalato la balzana mancanza di strisce pedonali nell'attraversamento dell'Aurelia, a cui rimediamo con un balzo felino e un segno della croce. Notiamo con piacere che le scale sono percorse anche dai bambini che vanno a scuola, come segnalano alcuni cartelli. Andiamo in via Garibaldi ad affacciarci sul mare e a prendere un gelato e la focaccia per il viaggio. Nella balconata non riesco a montare il cavalletto per un autoscatto collettivo, perché i bambini che giocano a calcio me lo demolirebbero.
Gli ombrelloni sono quasi tutti chiusi. Qualche bagnante va a frangere la spuma dei cavalloni. Restiamo a lungo ad annusare l'odore del mare, che non snifferemo più fino alle gite invernali.

Galleria fotografica

Uscio
Uscio
Cave di Monte Rosso
Cave di Monte Rosso

Rovine Maya
Rovine Maya
Santuario di Caravaggio
Santuario di Caravaggio

Camogli
Camogli
Camogli
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Sergio Chiappino

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