La Via degli Abati

Sulle orme dei monaci longobardi

8 tappe


Presentazione

In illo tempore

Sembravano gocce di pioggia qualsiasi quelle che macchiarono di sangue gli abiti dei parigini; in preda all'orrore, li laceravano per sfuggire a quella visione agghiacciante. In una chiesa della Francia meridionale, un'allodola volò sulle candele e le spense tutte, gettando i fedeli nel terrore e nella costernazione. Altrove gli oggetti si coprirono di macchie scure che nessuno riusciva a rimuovere, quindi le macchie passarono sui corpi delle persone e in pochi giorni costoro morirono come mosche. Piovve, piovve, piovve senza tregua e i fiumi dilagarono, trasformando campi fertili in paludi, da cui draghi emersero e assalirono le persone. Le paludi divennero boschi, dai cui recessi lupi e orsi dilagarono nelle spopolate città di marmi avvolti dagli sterpi. Le nuvole assumevano forme di eserciti alle porte e annunciavano stragi, le danze notturne di cortine luminose, le meteore, la luna che si colorava di sangue annunciavano rotture degli equilibri cosmici e sciagure. La notte spiriti infernali o di morti trucidati vagavano per i boschi e le strade deserte di città dalla gente rinserrata in casa e terrorizzavano gli incauti. L'unico conforto era la speranza di un mondo oltre la breve e aspra vita, mondo che spesso travalicava in questo sotto forma di visioni celestiali di luci nella notte.
Il VI secolo trascorse così, sotto i colpi di guerre e di un cambiamento climatico sfavorevole, che diede il colpo di grazia a una civiltà millenaria di cui non sembrava possibile immaginare un successore. Le persone erano vittime delle carestie, debilitate e soggette a periodiche ondate epidemiche; quasi la metà degli scheletri nei cimiteri erano di bambini. Solitudini è il termine che ricorre più spesso, nei resoconti del tempo, per descrivere il paesaggio desolato di quel secolo. Non solo i rustici dediti ai culti animisti, ma anche i ceti colti, ancora impregnati della grande cultura al tramonto, interpretavano gli eventi naturali secondo schemi magici e li trasmettevano ingigantendoli e deformandoli.

La mente dei monaci

Quando nel 614 il re longobardo Agilulfo concesse al monaco irlandese Colombano, profugo dalla Gallia dopo che i suoi protettori erano caduti in disgrazia, la licenza di abitare e possedere un cerchio di quattro miglia con il centro, il fulcro nella diroccata chiesa di san Pietro a Bobbio, presso il fiume Trebbia, il manipolo dei suoi seguaci aspirava a ricostruire la fede e il territorio di quel lembo di terra. Come già san Benedetto nel secolo precedente, si erano allontanati dalle città, il cui declino percepivano anche in termini morali oltre che fisici, per gettare le fondamenta di un mondo nuovo, rurale, che prevedeva la condivisione di ogni bene e anche di ogni sentimento. In particolare, il lavoro collettivo dei campi ne era il centro aggregatore e salvifico. I monaci cercavano di opporre resistenza a quel mondo di violenza e morte, provando a ricostruire una società ispirata a quella che li aspettava in Paradiso; Colombano infatti aspirava a rendere i suoi discepoli urbani, lieti, laboriosi, rispettosi, colti, tramite una severissima disciplina esteriore ed interiore.
Il loro ideale di vita prevedeva appunto il lavoro, la preghiera e la predicazione a una popolazione locale ancora in larga parte legata alle religione animista italica, verso cui mostra molto interesse Giona, il biografo di Colombano e dei suoi primi successori: un monaco incendiò un fauno e venne brutalmente aggredito dalle popolazioni rurali. La conversione avveniva per exempla, con miracoli che provavano i poteri della nuova religione, come da insegnamento di Gregorio Magno: ad esempio, il monaco aggredito ne uscì incolume.
Soprattutto, però, era la mortificazione di tutto ciò che era corporeo a dominare gli sforzi spirituali dei monaci: «penitentiae medicamenta» è definita da Giona. Più volte il biografo narra dell'incredibile capacità del santo di vivere con pochissimo sostentamento, anche se non arriva ai racconti mirabolanti dell'agiografia del monaco buddista tibetano Milarepa. Negli ideali altomedievali, persino il sogno, quando la coscienza era assopita, era considerato fonte di vergogna e debolezza della carne, se portava immagini peccaminose, per quanto involontarie. Tutte le virtù esteriori dovevano infatti avere un corrispettivo nei pensieri del monaco, per cui il sogno impuro era attribuito a una mancanza diurna nel loro controllo. La regola di Colombano, in particolare, era così difficile da seguire, anche per gente in fuga dal mondo, che il monastero non filiò mai, nonostante l'appoggio rinnovato da ogni re longobardo; anzi, non pochi monaci, dopo la sua morte, abbandonarono il cenobio lamentandosi dell'asprezza della vita. Dopo qualche decennio, la regola colombana fu sostituita da quella benedettina.
Giona insiste poi molto sul misticismo del desertum, il luogo selvaggio e scristianizzato, a proposito delle fondazioni colombane. A proposito di Luxeuil, la fondazione gallica, scrive che il luogo era disabitato e che vi venivano praticati riti pagani, quando le risultanze archeologiche mostrano che vi era un luogo di culto cristiano. A proposito di Bobbio, insiste invece sullo stato di degrado in cui si trovava il centro di culto e sull'asprezza dei luoghi circostanti: grazie a un miracolo, i monaci si fanno largo in un bosco molto aspro e di difficile accesso.

La fondazione del monastero

Il sito scelto era un luogo favorevole all'insediamento, che a quel tempo si presentava in parte coltivata e in parte incolta. Era presente una sorgente termale, citata nella concessione di Agilulfo, come già a Luxeuil, dove il monaco si era insediato su resti di terme romane. Un'iscrizione del I secolo rinvenuta in val d'Aveto prova che già i romani avevano colonizzato queste valli per la medesima ragione. La posizione rilevata rispetto al Trebbia, su un conoide di deiezione del rio Bobbio, rendeva poi il sito protetto dalle alluvioni e fertile. Come già detto, le alluvioni nei decenni precedenti erano state molto frequenti e i fiumi avevano ripreso i propri alvei naturali, che invece in età imperiale erano stati regimentati. Lo stesso Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, riferisce questi fatti e anche Giona cita un miracolo di un successore di Colombano relativo alla protezione da un'alluvione del rio Bobbio.
Gli scavi archeologici mostrano che i romani era diffusamente insediati nei dintorni, e che vi era anche stato un luogo di pellegrinaggio della religione italica, un santuario di Minerva a Travo. In età tardo antica si era formato un vicus, un centro fortificato, con forse centro di culto nella basilica di san Pietro. Questa forma di mutamento dell'insediamento fu molto comune in Italia a cavallo tra VI e VII secolo, periodo durante il quale si modificò il modello insediativo dalle ville romane sparse a centri accentrati, spesso su alture o in prossimità dei fiumi, che avrebbero poi caratterizzato il Medioevo. Le ville persero il loro ruolo di sede dell'aristocrazia, che si spostò in città, il carattere di monumentalità dato loro dall'utilizzo di materiali pregiati come marmi, divenendo piuttosto nucleo fondativo dei villaggi, spesso ricostruiti in legno e molto piccoli, senza una vera struttura urbanistica e una stratificazione sociale, oltre che precari, nel senso che era comune abbandonarli in cerca di condizioni migliori. In epoca giustinianea, in particolare, anche per via di un'ondata di peste, la popolazione italiana calò dai 12 milioni di abitanti del tardo impero agli 8, gli incolti e la natura in genere si accrebbero, le ceramiche di importazione furono sostituite dalla pietra ollare delle Alpi e soprattutto il legno dei boschi sempre più estesi divenne la materia prima per case e oggetti di uso quotidiano.

I monaci e il secolo

Il re longobardi che, a ogni successione al trono, si affrettavano a rinnovare la protezione al monastero, avevano invece altre mire, nel concedere proprio quel lembo di demanio al santo irlandese: l'indicazione del luogo arrivò infatti direttamente dalla corte regia, secondo le fonti da un latino (è indicato il nome Iocundus) al servizio del re germanico. Il fatto stesso che del terreno fosse stata concessa la licenza di sfruttare e abitare, ma non il possesso, indica chiaramente come il re si proponesse di tenere la situazione sotto il suo diretto controllo. Il rapporto tra re e santo mi ricorda un po' quello moderno tra investitori e scienziati: questi sono motivati dal desiderio di scoprire la natura, ma sono finanziati solo nella misura in cui sono funzionali a produrre reddito a beneficio di quelli.
La valle del Trebbia era stata sottratta da poco al dominio bizantino ed era un nodo strategico di strade in parte romane, in parte anche più antiche: lungo il Trebbia verso Genova, per Torriglia e il passo della Scoffera; verso la sede vescovile di Tortona, a cui la zona era assegnata, e la capitale Pavia passando dal Penice (da qui arriviamo a Bobbio); in parte verso Est, dove la Toscana longobarda era raggiungibile evitando il dominio bizantino (questa sarà la nostra via da Bobbio in poi). Il ruolo dei monasteri regi era anche quello di riportarle sotto l'egida del potere centrale: altri ne sarebbero stati fondati in contesti analoghi nei decenni a seguire.
Il re si proponeva infatti di tenere sotto il suo controllo l'élite militare longobarda insediata nella regione appena conquistata. Nella concessione regia compare il riferimento a un certo Sundrarit, con cui il monastero deve condividere una sorgente salina. Il regno longobardo fu ben diverso dalle monarchie assolute moderne, perché il re doveva coabitare con l'aristocrazia e solo i più carismatici riuscirono ad avere una presa salda sul regno, ad eccezione dei ducati meridionali di Spoleto e Benevento, che rimasero sempre indipendenti. Lo stesso vale per la popolazione rurale, la quale, venuto meno il sistema fiscale romano, era pressoché libera da imposizioni superiori, in quanto l'aristocrazia, rinchiusa nelle città, non era in grado di estendere il suo controllo all'esterno: come già osservato, i villaggi rurali sembrano abitati da eguali.
Il re, creando un monastero sotto l'egida una figura di primo piano del cristianesimo occidentale e di provata fedeltà a Roma, si proponeva inoltre di allacciare i rapporti con il papato, che, come testimoniato dai Dialoghi di Gregorio Magno, aveva percepito l'invasione longobarda dell'Italia bizantina come una iattura. La situazione religiosa si presentava assai complicata: le élite longobarde professavano un misto di arianesimo e animismo, le popolazioni rurali italiche spesso erano ancora legate alla religione italica e gli stessi cattolici latini erano divisi dalla questione tricapitolina. Agilufo si proponeva di creare un clero longobardo, per cui il cattolicesimo fosse slegato dal rapporto con l'imperatore di Costantinopoli.
Colombano fu scelto proprio per sua insofferenza verso il potere dei vescovi mostrata in Gallia, atteggiamento dovuto alle origini irlandesi, con cultura difforme dal sistema romano, che aveva il centro cittadino con le sue autorità come fulcro. Giona connota negativamente tutti i vescovi gallici con cui il monaco interagisce, anche quelli che altri fonti coeve e i documenti pervenutici raffigurano come maestri di dottrina. Il monastero bobbiese era infatti sottratto al controllo vescovile e aveva potere sull'ordinazione dei sacerdoti, come rimarcato da uno dei successori di Colombano, Bertulfo, il quale si recò a Roma per ottenere il riconoscimento del diritto di esenzione dal controllo episcopale. Anche il fatto che fosse edificato dove già c'era una chiesa dedicata a san Pietro, è interpretato dagli esegeti come una forte valenza simbolica, volta a legare la devozione longobarda verso il centro romano, secondo l'insegnamento di Gregorio Magno, che vedeva in Pietro il tramite con i regni germanici.
Il carattere regio si accentuò con la dinastia carolingia, che concesse il mundeburdio (protezione) imperiale e nominò abati provenienti dalla sua corte. Questo doppio filo segnò anche la traiettoria discendente del prestigio dell'istituzione: nel X secolo il potere centrale venne meno e le città italiane si incamminarono verso l'autonomia, culmine di un processo che si era avviato già nell'VIII. Prese allora il largo un'opera di erosione delle sue proprietà, per effetto dell'attacco combinato dei signori locali, religiosi e secolari, e della privatizzazione dei detentori dei fondi.
Il monastero perse potere anche perché erano cambiati il mondo e la concezione del mondo rispetto a quando era nato: le città avevano superato la crisi e la materialità non era più fuggita, ma apprezzata, persino dai religiosi. Nel duomo di Piacenza, nella prima metà del XII secolo, accanto ai santi sarebbero stati scolpiti i mestieri dei nuovi ceti cittadini. Mentre la rivoluzione borghese si sarebbe rivelata irreversibile, questa seconda conversione avrebbe tuttavia avuto vita breve tra i religiosi e già nel XIII secolo in seno alla chiesa sarebbe riemerso il penitenziagite.

L'opera materiale dei monaci

Il lavoro dei monaci ebbe profonde ripercussioni sul paesaggio circostante. Due elenchi delle proprietà del periodo carolingio, le Adbreviationes dell'862 e dell'883, mostrano che il territorio era coltivato soprattutto a cereali, vite e prati da sfalcio, per una limitata produzione di formaggio. Un approfondimento merita il vino, che aveva una funzione ben diversa da quella odierna: era infatti un alimento, che, grazie al potere antimicrobico dell'alcool, sostituiva l'acqua, impossibile da potabilizzare con le conoscenze e le limiate risorse tecnologiche dell'epoca. Il prodotto è sopravvissuto egregiamente al cambio di paradigma e prospera tutt'oggi nell'Oltrepò pavese, dove è la coltura che modella maggiormente il paesaggio agreste.
La produzione di pregio dell'epoca era invece l'olio d'oliva, che proveniva dai possedimenti sulle rive dei laghi prealpini, soprattutto Garda. Allora l'olivicoltura in Liguria, dove dal periodo carolingio il monastero possedeva l'alpe Adra nel Levante, non era ancora decollata. Solo nel Basso Medioevo la coltura si sarebbe estesa lì e nel Mezzogiorno, mandando in crisi le produzioni lacustri.
Un'attività preponderante nel periodo longobardo, ma ancora vitale ai tempi delle Adbreviationes, fu l'addomesticamento del bosco con l'allevamento di suini bradi, nei querceti molto estesi della zona. In epoca longobarda, il magister porcarius era uno dei ruoli servili più prestigiosi ed esistevano pure livelli multipli di importanza dei funzionari. Una volta, ad un esposizione di piccoli produttori mi è capitato di assaggiare del lardo prodotto da suini bradi e l'impressione sul palato è stata celestiale. Più marginali erano l'apicoltura per la produzione di cera e il castagneto.
In conformità all'organizzazione delle aziende agricole del tempo, dette curtes in Italia, ma come agià avveniva per le ville romane, c'era un territorio dominico attorno al monastero, con servi (detti prebendarii); le zone più lontane erano invece affidate coloni liberi (detti mansi). Questi dovevano essenzialmente grano, vino e corvée. Le imposizioni sui coloni non erano uniformi, in quanto erano richiesti maggiori servigi a chi era vicino al monastero, magari ex servi allentati.
L'economia era prevalentemente chiusa, votata all'autosufficienza con limitati scambi sui mercati, ma non statica. Confrontando le due Adbreviationes, pur vicine nel tempo, si vede come l'attività agricola fosse in espansione per sostenere la crescita della popolazione e che i mansi erano in aumento. Sembra essere del tutto assente il denaro contante, verso cui c'era un forte avversione, com'era tipico del tempo: basta leggere il trattamento che, ancora nel XIV secolo, Dante riserva a chi presta a interesse per comprendere l'atteggiamento dell'epoca. Un'opera pubblica davvero notevole per il periodo, come il canale Courtaud in valle d'Aosta, fu interamente finanziata senza ricorrere al denaro, ma scambiando direttamente lavoro con acqua irrigua. I contadini delle Alpi hanno conservato questo schema economico e questa diffidenza fino al termine della loro civilità, come testimonia il disprezzo che nutrivano per chi, come i carbonai, produceva per ottenere denaro, con cui acquistare i beni necessari.

L'opera culturale dei monaci

i monaci medievali sono anche noti per la loro fondamentale opera di trasmissione e diffusione della cultura, tramite la copiatura dei testi antichi e contemporanei. Bobbio non fece certo eccezione. Da questo punto di vista, fu un monastero di portata europea, che scambiò cultura con altre aeree del continente. Sia l'analisi delle fonti coeve che l'analisi dei nomi dei monaci citati da Giona, mostra che da principio non vi fossero né conterranei di Colombano, né latini: i primi non compaiono mai, i secondi solo come popolani del luogo: i nomi hanno tutti radici nelle aree germaniche.
Il testo più antico della biblioteca a noi pervenuto è una traduzione dei vangeli in latino, anteriore alla Vulgata di san Girolamo, che si ritiene sia stato portato a Bobbio dallo stesso Colombano. Le prime opere furono invece testi patristici di origine tardo antica, passate per le corti longobarde, sotto la cui protezione era nato il monastero e presso cui Colombano aveva soggiornato prima di stabilirsi a Bobbio. È poi interessante osservare che molti dei testi più antichi fossero scritti cancellando precedenti opere in lingua gotica di area ariana, a indicare un iniziale ruolo del monastero nell'opera di conversione delle élite longobarde, che divenuto superfluo con la conversione generale, portò al riutilizzo delle pergamene.
Un altro corpus importante fu quello dei testi giuridici: da un lato la corte si appoggiava alle competenze dei monaci (l'editto di Rotari fu promulgato il giorno della ricorrenza di san Colombano) e li adoperava come tramite per trattare con il Papa, dall'altro gli stessi monaci ne avevano bisogno per dirimere le contese con il vescovo di Tortona.
Gli scambi con l'area irlandese ci furono, soprattutto dopo il periodo carolingio, ma già in epoca longobarda figure religiose di spicco vennero a trascorrere gli ultimi anni della loro vita, segno del prestigio di cui godeva l'abbazia sull'isola. Alcuni codici risultano scritti in calligrafie insulari. Analogamente, sebbene agiografie di santi gallici fanno riferimento al valore religioso dell'abbazia bobbiese e a loro pellegrinaggi, non è documentato lo scambio di codici con monasteri di quell'area, nemmeno quelli fondati da Colombano.
Gli scambi furono invece molti fitti con le aree tedesche, dove sono attestati possedimenti colombiani lungo le vie di transito dell'epoca, il lago di Como e lo Spluga e la vale Venosta e il Resia, oltre riferimenti al culto di san Colombano nelle abbazie di Coira e Disentis, poste oltre quei passi. All'abbazia di San Gallo fu inviata una reliquia della cambutta (bastone), frammenti della quale sono tutt'ora conservate in chiese abbaziali della zona. Inoltre proviene da San Gallo l'edizione più antica a noi pervenuta dell'Editto di Rotari (643), a cui i monaci bobbiesi contribuirono in maniera decisiva. Particolarmente intensi furono i rapporti con la Baviera: era bavarese la regina Teodolinda e come lei molte altre regine longobarde. È stata anche avanzata l'ipotesi che il più antico testo in lingua tedesca esistente, l'Abrogans (765-775), un vocabolario tedesco-latino, abbia un'ascendenza indiretta bobbiese: l'autore a cui è tradizionalmente attribuito, Arbeo, è legato a doppio filo a zone e istituzioni di influenza colombane e la stessa pratica dei vocabolari era molto diffusa in epoca longobarda, come testimoniano gli elenchi di libri della biblioteca bobbiese pervenutici.
Il culmine della ricchezza della biblioteca avvenne in epoca carolingia, quando sono attestati quasi 700 codici. Nei secoli successivi, con la decadenza del monastero e infine la soppressione napoleonica i testi andarono via via dispersi verso varie sedi. A metà XV secolo ne risultano solo 260; nel 1606 il cardinale Federico Borromeo ne ottenne 77 per la Biblioteca Ambrosiana, seguito a ruota da papa Paolo V che ne ottenne 29 per la Vaticana; negli stessi anni qualche altro confluì nella Biblioteca Reale Sabauda, dove purtroppo andarono distrutti in un incendio; alla soppressione i restanti furono messi all'asta e acquistati da un privato. Per fortuna i più antichi si sono conservati.

Sulle orme dei monaci

I primi a recarsi a Bobbio per Colombano, quando questi era ancora in vita, furono Teodolinda, moglie del re Agilulfo, e il figlio Adaloaldo, da Pavia passando per il Penice. Prima di loro, già nelle Gallie re locali si erano ripetutamente recati dal santo. Il loro fu un pellegrinaggio penitenziale, in luogo dove il divino aveva un ancoraggio nello spazio materiale, in un luogo sia reale che trascendente. Come loro, poco dopo la morte di Colombano altri monaci, futuri santi, vennero a Bobbio a fini di apprendimento e edificazione spirituale, tanto dalla Gallia quanto dall'Irlanda, come documentato dalle loro agiografie. In esse Bobbio è raffigurato come un luogo di connessione tra la dimensione terrena e quella soprannaturale, intriso di atmosfera miracolosa, in cui si matura spiritualmente come monaci. Il viaggio, invece, richiama la peregrinatio di Colombano stesso, che sulla falsariga di Abramo, lasciò la sua terra per seguire Dio.
Nel museo bobbiese sono conservati reperti, ad esempio reliquiari merovingi del VII secolo, che provano anche materialmente questa frequentazione; in particolare dei reliquiari da indossare durante il viaggio, come protezione per il pellegrino, attestano Bobbio come meta o luogo di passaggio. Vi sono infatti anche testimonianze di area palestinese o siriaca, nella forma di dischetti con incisa una croce, a indicare che era un punto di transito verso la Terrasanta.
L'abate Wala, nel periodo carolingio, fece perciò provvedere alla costruzione di un ospizio per pellegrini, come del resto vi erano xenodochia a Pavia e Piacenza, per chi arrivava da nord, e a Boccolo per chi era diretto a Roma.
Per noi era il ritorno al viaggio a piedi non più praticato da prima del COVID, o anche molto prima, per una serie di motivi molto personali. Ci siamo dovuti confrontare con i cambiamenti climatici, nella forma di un caldo estivo già ai primi di giugno e di una bomba d'acqua, oltre che con il nostro invecchiamento. Alcuni ne sono usciti provati, hanno sofferto lungo il cammino, non essendo più abituati allo sforzo e all'usura quotidiani, tutti abbiamo desiderato ripetere l'esperienza e già stiamo cercando idee per l'anno prossimo. Come sempre nei percorsi tra i paesi dell'Appennino, l'aspetto da portare a casa è stato soprattutto l'incontro con le persone, sia i gestori delle strutture ricettive che gente qualsiasi incontrata per strada.

Il percorso oggi proposto agli escursionisti è formato di due parti distinte: la tratta Pavia-Bobbio e quella Bobbio-Pontremoli.
La prima è ispirata dalla traslazione delle spoglie da Bobbio a Pavia, avvenuta nel 929, in occasione di un incontro tra re e potenti locali. L'episodio è narrato nei Miracula Sancti Columbani, un testo di qualche decennio posteriore all'evento, con il quale i monaci rivendicavano il possesso dei territori che i nuovi poteri locali stavano loro sottraendo. La rivendicazione avvenne anche in quel caso per exempla, tramite i miracoli che la sante spoglie compirono al loro passaggio. La spoliazione fu infatti descritta in chiave morale: che costoro cessassero ab illorum rapacitate fu la richiesta; è contrapposta la destinazione delle ricchezze in beni superflui da parte degli usurpatori e verso invece i bisognosi da parte del monastero. Significativo che il primo miracolo, in località Ponte presso S. Maria, fosse la comparsa di una croce su un albero presso cui è depositata l'arca: la demarcazioni con croci sugli alberi del territorio erano il tipico metodo di appropriazione dei monaci; il miracolo si ripetè regolarmente nell'Oltrepò. L'uso della traslazione delle reliquie era invalso in Francia a partire dall'Alto Medioevo come normale forma giuridica, ad esempio per smascherare gli spergiuri di fronte ad esse, per invocare l'intervento divino di fronte all'inefficienza del potere temporale. A quei tempi il potere centrale era molto debole, tanto che l'anonimo monaco che scrisse il testo, pur riferendo che i nemici del monastero si dovettero piegare allaa forza dei miracoli, non mancò di scrivere un lungo elenco di punizioni post mortem, che sarebbero toccate ai malfattori, segno che forse nell'aldiquà potevano spadroneggiare indisturbati. Pertanto il testo non è chiaro sul percorso effettivamente fatto dalla processione, puntando piuttosto a indicare i luoghi contesi che quelli effettivi di passaggio. Uno dei pochi nomi citati è Canevino, dove un bambino muto dalla nascita riacquistò la parola per annunciare al padre l'arrivo della processione.
In mancanza di precisi riferimenti geografici, il percorso scelto dagli ideatori è lungo all'incirca quanto quello dell'andata dei monaci e passa per Canevino. Fino a Caminata segue strade secondarie, mentre in seguito anche dei sentieri.
La seconda parte ricalca invece, per quanto possibile, le vie di comunicazione medievali, da cui dovevavno transitare i monaci e gli abati a partire da Bertulfo, secondo successore di Colombano, diretti a Roma per ottenere dal Papa la conferma dei diritti del monastero, contro le ingerenze dei vescovi cittadini. Grazie alle Adbreviationes, è possibile sapere dove fossero le proprietà del monastero, dove sorgessero le chiese e gli xenodochia per dare alloggio ai viandanti. Inoltre le carte più antiche disponibili ci dicono quali fossero i percorsi storici. Venute meno, per mancanza di manutenzione, le vie classiche piatte e dritte (i romani avrebbero edificato i tunnel di base della valle di Susa e del Gottardo, se avessero potuto), il traffico si spostò sui crinali e su preesistenti mulattiere secondarie, per restarci fino al sorgere delle carrozzabili e delle vie ferrate ottocentesche. Proprio per queste vie, oggi spesso divenute piste sterrate, camminiamo in questi giorni.

Noi abbiamo modificato i punti di partenza e arrivo in ossequio all'ideologia escursionistica della capogita, che prevede di camminare essenzialmente per la contemplazione estetica del paesaggio di stampo romantico. Abbiamo tralasciato la porzione da Pavia alle colline, ritenuta troppo monotona. Inoltre questa comporta l'attraversamento del ponte della Becca, che è molto trafficato e non ha un passaggio pedonale e pertanto richiederebbe di essere accompagnati dall'arca di san Colombano per ottenere protezione sufficiente. Abbiamo quindi escluso la tappa per Pontremoli, che si snoda lungamente per una noiosa e ampia sterrata.
Come forma mentis, siamo sempre partiti abbastanza tardi e siamo stati fermi nelle ore più calde, per arrivare non di rado a ora di cena, dopo aver anche pranzato in un locale. Per fortuna spesso i posti tappa hanno un ristorante e non danno cena alle 19 come i rifugi alpini.
Il cammino ha un antefatto, perché circa un lustro fa io e la capogita percorremmo la tratta tra Bobbio e Pontremoli, nello stesso periodo dell'anno. Di allora ricordiamo che di giorno c'era sì un caldo afoso, ma il meteo era molto più instabile, per cui la sera spesso scoppiava un violento temporale e il mattino l'aria era fresca, mentre stavolta abbiamo grondato sudore sin dai primi passi. Soprattutto, allora il fango appenninico fu un'esperienza mistica, mentre stavolta, fatto salvo dopo la bomba d'acqua, abbiamo camminato sul secco. I ricordi di quella esperienza riaffioreranno periodicamente.

Caveat emptor

A corredo delle descrizioni vedrete pochissime foto. La maggior parte dei luoghi attraversati si prestavano poco ad essere resi nel linguaggio fotografico. Il fotografo del Bauhaus Andreas Feininger ha scritto un intero libro per spiegare la differenza tra la percezione dei sensi e la percezione della fotocamera. Gli inesperti spesso confondono un bel soggetto con una bella foto e riprendono tutto ciò che piace loro; se invece si ha l'ambizione di scattare una foto che valga di per sé, i soggetti d'interesse cambiano: ho avuto più occasioni di scatto nel paesaggio desolato della prima tappa che in buona parte del resto del tragitto. Ci sono ambienti affascinanti, che offrono un’esperienza emotivamente coinvolgente, ma che non possono essere resi in un’efficace immagine bidimensionale, in grado di tradurre nel linguaggio visivo quello che si prova sul momento: i boschi e i prati quasi sempre, ad esempio.
Se poi una faina guizza come un’ombra nella fioca luce del crepuscolo, per poi scomparire nel folto del bosco, come si può tradurre in un’immagine statica un'esperienza così dinamica? Se si cammina un’ora ascoltando il brontolio dei tuoni sopra la testa, come si può tradurre in immagini il timore? Se si beve un caffè con dei cacciatori, chiacchierando di orti, lupi e brambille, perché riprenderli come se fossero un soggetto folkloristico? In questo viaggio di esperienze del genere ne ho vissute dal principio alla fine, per cui mi sono accorto quasi subito che non sarei riuscito a portare a casa grandi scatti. Poco male, ci sono i ricordi e le impressioni appuntate nelle pause, che sono persino più menzogneri.

Per approfondire

F. Bernini-C. Scrollini, Il conti Dal Verme tra Milano e l'Oltrepò Pavese Piacentino, Pavia 2006
A. de Candolle, Origin of cultivated plants, London 1884
G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
C. Cipolla [a cura di], Codice Diplomatico del monastero di San Colombano di Bobbio, Roma 1918
P. Delogu, Le origini del Medioevo, Roma 2010
E. Destefanis, Il monastero di Bobbio in età altomedievale, Firenze 2002
E. Destefanis, Pellegrinaggio, spazio e sacralità a Bobbio nell'latomedioevo (VII-prima metà IX secolo), tra fonti scritte e fonti archeologiche, E. Destefanis [sotto la direzione di], L'eredità di San Colmbano, Presses Universitaires de Rennes 2017
S. Gasparri, Italia longobarda, Bari 2012
Giona di Bobbio, Vita di Colombano e dei suoi discepoli, Milano 2001
N. Mazzucco - L. Mazzucco - G. Mori, Guida alla Via degli Abati, Milano 2013
A. Dubreucq-A. Zironi [a cura di], Miracula sancti Columbani. La reliquia e il giudizio regio, Firenze 2015
V. Polonio, Il monastero di San Colombano di Bobbio dalla fondazione all'epoca carolingia, Genova 1962
R. Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Roma 2015
E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961
M. Stokes, Sei mesi in Appennino, Bobbio 2020
F. Taylor, Miracula, saint's cults and socio-political landscapes. Bobbio, Conques e post-caroloingian society, Tesi di dottorato 2012
I. Wood, The Selective Memory of Jonas of Bobbio, S. Scholz-G. Schwedler [a cura di di], Creative Selection between Emending and Forming Medieval Memory, Berlin, Boston 2021
A. Zironi, Il monastero longobardo di Bobbio. Crocevia di uomini, manoscritti e culture, Spoleto 2004

Altri formati

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Tappe

Tappa 1: Broni-Canevino
Tappa 1: Broni-Canevino
Tappa 2: Canevino-Grazzi
Tappa 2: Canevino-Grazzi
Tappa 3: Grazzi-Bobbio
Tappa 3: Grazzi-Bobbio
Tappa 4: Bobbio-Mareto
Tappa 4: Bobbio-Mareto
Tappa 5: Mareto-Groppallo
Tappa 5: Mareto-Groppallo
Tappa 6: Groppallo-Bardi
Tappa 6: Groppallo-Bardi
Tappa 7: Bardi-Noveglia
Tappa 7: Bardi-Noveglia
Tappa 8: Osacca-Borgo Val di Taro
Tappa 8: Osacca-Borgo Val di Taro

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