Intorno a Sassello
Parco del Beigua
3 tappe
Presentazione
Questo breve trek di tre giorni si svolge per gran parte nella vasta foresta che separa Sassello dal crinale dell'Appennino, a parte un'incursione in quella del lato marittimo. Non pochi escursionisti con cui ho condiviso pezzi di strada detestano i boschi e apprezzano soltanto la montagna dal piano alpino in su. Non parlo solo di persone che sono attratte unicamente dalle difficoltà tecniche delle vette inaccessibili, ma anche di tranquilli merenderos che fanno due passi intorno all'auto. Basta vedere quanto auto in più ci sono, in una qualsiasi domenica, alla testata delle valli, rispetto agli attacchi dei sentieri delle zone medie e basse, per averne una conferma immediata. Per costoro il panorama si riduce esclusivamente alle cime lontane. «Non si vede niente, c'è il bosco», è il loro aforisma, come se la tavolozza iridescente dei buprestidi non meritasse ammirazione o l'imponenza delle piante secolari reverenza, tanto per fare un paio di osservazioni alla portata di tutti. Inoltre, anche coloro che apprezzano le foreste disprezzano il legno morto, tanto da chiamare “sporco” il bosco che lo contiene, e vi preferiscono invece il bosco addomesticato dall'uomo. È un retaggio culturale che ci viene dal mondo classico, che in genere non aveva una gran opnione della natura selvaggia: il dio dei boschi, Pan, era il simbolo degli istinti brutali, e aveva una connotazione talmente negativa che i cristiani ne usarono l'iconografia come modello per il diavolo.
Curiosamente i primi escursionisti del Regno d'Italia condividevano la stessa impostazione culturale, ma vedevano i boschi nel modo opposto. Allora le montagne erano quasi nude, a causa dell'itensa pressione a cui le risorse forestali erano state sottoposte nei secoli precedenti. Questa nudità era percepita come il simbolo del degrado dell'inselvatichimento, dovuto alla cattiva gestione dei secoli passati, e nello stesso tempo la causa della diffusa povertà delle zone montuose.
Il castagno
Negli ultimi due secoli la composizione dei boschi che attraverso è mutata radicalmente, per effetto di fattori prevalentemente antropici, dopo alcuni secoli di stabilità. L'azione dell'uomo non è certo una novità dell'Antropocene: nei boschi dell'Europa Centrale è ben documentato che l'insediamento temporaneo del Neolitico, una volta abbandonato, causava una rigenerazione del bosco con specie diverse da quelle preesistenti al dissodamento dei primi contadini. Anche il Beigua è stato popolato fin dal Neolitico, principalmente per le attività di estrazione delle pietre per le asce e successivamente per la pastorizia e l'agricoltura. Contemporaneamente ai primi insediamenti, intorno alla dorsale si assistette alla scomparsa degli abeti bianchi e all'arrivo dei faggi, anche se qui il ruolo dell'uomo non è chiaro.
Tuttavia i grandi cambiamenti nella copertura vegetale si sarebbbero verificati soprattutto a partire dal Basso Medioevo, quando la crescita della popolazione creò le condizioni per la domesticazione del bosco a bassa quota, contemporaneamente alla sua regressione in alto, dove fu sostituito dalle praterie adibite a pascolo. Fu allora che si diffuse su vasta scala la coltura del castagno da frutto, non a caso chimato “domestegu” in alcuni dialetti liguri e semplicemente “arbo” (albero) in molte zone prealpine piemontesi. In natura i castagni si presentano come alberi isolati all'interno di un bosco misto mesofilo collinare a prevalenza di querce. In questo periodo l'uomo vi sostituì progressivamente il castagno da frutto, che si ottiene innestando castagni su castagni selvatici o su querce. La vicina Badia di Tiglieto, il cui ordinamento cistercense poneva i dissodamenti al centro dell'esperienza dei monaci, venendo incontro a un diffuso bisogno della società del periodo, promosse attivamente questa coltura. Numerosi documenti attestano come i contadini fossero incentivati ad ampliare gli impianti e a preservare quelli esistenti, limitando il prelievo di legna. Analoghe politiche erano seguite dai signori feudali. A beneficiare dei frutti erano anche i gruppi sociali più svantaggiati, come i vecchi e le vedove, per cui a volte erano previste rendite in castagne. Il querceto tuttavia non scomparve del tutto, in quanto nel suo sottobosco erboso erano ancora praticati l'allevamento e la coltura mista, come si faceva sulla costa ligure negli oliveti. Già dal tempo dei Longobardi era stato promosso l'allevamento brado dei maiali nei boschi e a questo scopo le querce erano state favorite, per via dell'appetibilità delle ghiande. A volte le castagne le sostituirono come alimento per i maiali. Oltre ai maiali potevano esserci anche le pecore, che avevano il pregio di tenere il sottobosco spoglio, fondamentale per la raccolta dei frutti, che avveniva a terra dopo la caduta.
La coltura del castagno andò in crisi dopo il periodo napoleonico: quando Casalis scrisse la voce del paese per il suo Dizionario, a metà secolo, la transizione era quasi compiuta. Una serie di fattori concomitanti concorse alla trasformazione. Innanzitutto lo spopolamento della montagna, che prese il via in quei decenni, ridusse in generale le attività agricole in quota. A questo va aggiunta l'introduzione di colture più produttive, la patata e il mais. Inoltre in quel periodo furono importate gravi malattie, come il mal d'inchiostro e il cancro corticale, che arrivò a mettere a rischio l'esistenza stessa dei castagni in Italia. Infine va considerata la nascita delle industrie, che aumentò la pressione sulle risorse legnose. I castagneti furono pertanto convertiti a ceduo, sia perché questi erano più resistenti al cancro, sia per venire incontro alla nuova domanda. Il legno di castagno può essere usato come legna da ardere, come paleria e anche per la produzione di tannino per la concia delle pelli, uno sbocco che nacque proprio in quel periodo e si protrasse fino al secondo dopoguerra.
I rimboschimenti
La necessità di legna era molto elevata, superiore alle capacità produttive dei boschi italiani. Questo portò a un'intensa pressione sulle risorse, con il risultato che a metà Ottocento le montagne si presentavano in larga parte spoglie. Nacque un movimento di opinione che nel 1877 avrebbe portato alla prima legge italiana sulle foreste e, nei decenni successivi, a opere di rimboschimento.
Le motivazioni addotte erano di carattere economico e sociale, non ecologico. Al centro di tutto c'era la questione del legname come risorsa, che era di interesse strategico per la nascente industria e anche per la guerra, come si era vista nel primo conflitto mondiale. Era impiegato sia come combustibile che come materia prima per un'infinità di settori, come l'industria della concia, la costruzione di ferrovie e altre infrastrutture, le cartiere… Insomma, la produzione di legno aveva un vasto indotto, come si direbbe oggi. Si sperava che la disponbilità di legname diventasse una risorsa per le zone montane, in un periodo in cui lo spopolamento era già un fenomeno consolidato, e lo contrastasse. La foresta era inoltre ben vista per la capacità di impedire il dissesto idrogeologico, per usare un termine odierno, tramite le regolazione dei flussi dell'acqua piovana. Si temeva che la loro assenza compromettesse le sorgenti e impedisse tra le altre cose lo sfruttamento idroelettrico, che a fine Ottocento in nuce e in piena crescita sarebbe stato tra le due guerre. Il carbone bianco, era definito, in grado di dare all'Italia l'autosufficienza energetica. Anche le semplici ricadute dei lavori di riforestazione erano ben chiare, come dimostra il fatto che furono impiegati nei duri periodi postbellici per garantire lavoro e reddito alle popolazioni montane.
Tutto ciò implicò in maniera pressoché necessaria che le specie da rimboschimento non fossero scelte in base al loro adattamento alle zone di piantumazione, ma alla capacità di produrre reddito: furono perciò scelte in base alla loro velocità di accrescimento. Si spiega in questo modo la messa a dimora di molte specie alloctone, come l'onnipresente pino nero, una conifera originaria dell'Austria che fu impiegata anche in ambiente mediterraneo. Il risultato di questa scelta è che questi boschi oggi sono spesso attaccati dalla processionaria, il più temibile parassita dei pini, pericolosa anche per gli animali, compreso l'uomo. Nel caso della robinia, per contro, questa si adattò talmente bene da diventare infestante e creare boschi fitti e spinosi, inadatti alla fauna selvatica. I rimboschimenti di abete rosso, specie preferita sulle Alpi, sono completamente diversi dai popolamenti spontanei: questi formeno boschi radi, dove c'è spazio per il prato, mentre i primi boschi molto fitti e bui, con sottobosco del tutto assente.
I rimboschimenti furono spesso condotti con non pochi attriti con le popolazioni locali. Era infatti diffusa la percezione che il depauperamento dei boschi fosse imputabile alla loro cattiva gestione. Era perciò sentire comune della classe dirigente che esse andassero in qualche modo redente da sé stesse. Si spiegano così dei provvedimenti in stridente contrasto con gli interessi dei montanari, come la spietata repressione della Forestale, che fu militarizzata, o la battaglia contro le capre, accusate di essere la principale causa del degrado dei boschi. Inoltre, proseguendo una poltica avviata dalle truppe napoleoniche, furono indeboliti gli istituti di gestione collettiva delle risorse, che garantivano a tutti un accesso ai prodotti del territorio, a favore della proprietà privata, perché si riteneva che un singolo avesse maggiore interesse ad attuare una politica di sfruttamento sostenibile delle risorse. Quando questa convinzione fosse fondata, lo si vede bene dalla storia della foresta dellla Deiva.
La foresta della Deiva
La storia della foresta della Deiva, che attraverso l'ultimo giorno, è molto rappresentativa in questo senso. Nel Medioevo fu destinata a uso collettivo promiscuo, per il pascolo e la raccolta di legna, di cui era vietata nel contempo l'esportazione, per limitare il prelievo. Nel Seicento fornì la legna necessaria a ricostruire il paese, dopo che questo fu incendiato dalle truppe savoiarde. Nel secolo successivo tuttavia, a causa dell'impoverimento del paese dovuto alla crisi delle ferriere, fu sottoposta a tagli sempre più estesi, senza che nessuno la rimboschisse. Il risultato fu che nell'Ottocento era depauperata. In ossequio alle convinzioni economiche del periodo fu privatizzata, spinti dalla necessità contingente del comune di finanziare la costruzione della strada per Acqui. Sotto il nuovo proprietario e del suo erede i consorzi pubblici dell'epoca provvedettero al rimboschimento, utilizzando molte conifere. Alla morte della vedova dell'erede, durante la Seconda Guerra Mondiale, fu ceduta in successione a due ditte che la rasero al suolo, per ricavarne legna. Nuovamente rimboschita del dopoguerra, oggi è passta al Parco del Beigua, che ha infine mutato le regole di rimboschimento e cerca di accelerare il processo che conduce verso un bosco climax.
Le rocce e l'acqua
Il parco del Beigua è però caratterizzato dalle sue peculiarità geologiche. Questi monti dal punto di vista geografico sono il primo gruppo dell'Appennino, ma condividono la storia delle Alpi Occidentali. Sono infatti costituiti prevalentemente da rocce di origine vulcanica, formatesi a partire da lava proveniente dal mantello e solidifcata nei fondali oceanici. Questi, scontrandosi con la placca continentale africana, hanno dato origine ai corrugamenti delle Alpi.
I numerosi turisti domenicali, che lasciano l'auto a Pratorotondo e, dopo un luculliano pasto, digeriscono portando a spasso il cane lungo l'Alta Via dei Monti Liguri, a Prato Ferretto si imbattono in una delle gigantesche distese di pietre del parco. Sono conosciute come fiumi di pietre. Il termine è dovuto a Charles Darwin, che li vide quando il Beagle attraccò alle isole Falkland. Non sono morene, perché i massi hanno più o meno tutti la stessa dimensione. I geologi ritengono che si siano formati duranti periodi freddi, in seguito a disgregazione delle rocce per effetto dei cicli di gelo e fusione e siano stati quindi smossi dalla grande quantità di acqua nelle fasi di disgelo.
Alcune di queste rocce furono sfruttate dagli uomini fin dal Neolitico, circa 7000 anni fa. Quei nostri antenati cercavano l'eclogite, una rara roccia molto pesante e compatta, a causa delle elevate pressioni a cui si è formata, nelle zone di subduzione della crosta oceanica. Serviva a fabbricare asce (una di queste è esposta ad esempio nel Museo Archeologico del Finale). Di queste asce fabbricate qui ne sono state rinvenute anche in luoghi remoti, fin nell'odierna Scozia. L'aspetto interessante è che non avevano uno scopo pratico: per queste i vari villaggi si rifornivano con materiali locali di minor pregio. Avevano invece un ruolo di status-symbol, come si direbbe oggi, servivano cioè come accessori di prestigio nel corredo di individui di ruolo sociale elevato, all'interno di società con marcata stratificazione sociale. Di solito in zona avveniva una prima lavorazione, che era poi perfezionata nei siti di Alba e Finale Ligure. Questa lavorazione ha lasciato delle rocce incise con lunghi solchi, dette a polissoir. Come ha mostrato l'archeologia sperimentale, erano degli affilatoi. Altre rocce incise avevano invece funzioni rituali legate alla cultura dei pastori: ad esempio, è ben documentato in parecchi luoghi che alcuni massi servissero come sito di ritrovo, ad esempio quando c'era un cambio della guardia alla guida di greggi condivise. È poi stata avanzata l'ipotesi che l'intero gruppo e alcuni picchi in particolare, come quelli su cui si scaricano preferibilmente i fulmini, fossero montagne sacre. Un indizio è il nome stesso della cima principale, affine al celebre Bego della Valle delle Meraviglie e a quelli del dio-ariete Begu. Infine spesso queste pietre si trovano nei pressi di sorgenti o lungo i torrenti (il Beigua è molto piovoso e anche tempestoso), e il culto della montagna apportatrice di acqua è ben documentato tanto qui vicino come in un po' tutto l'arco alpino. Qui come altrove la sacralità del luogo è rimasta inalterata anche dopo la diffusione del cristianesimo, che ha in parte integrato i vecchi riti e in parte li ha vietati demonizzandoli. Si vedono pertanto croci affiancate a simboli religiosi precedenti, come le coppelle, oppure la distruzione dei simboli animisti. Purtroppo in genere non è possibile datare le incisioni e di conseguenza inserirle in una fase storica precisa; bisogna anche considerare che questi reperti sono oggi muti, in quanto è andata perduta tutta la cultura orale e cerimoniale che dava loro significato.
Come accennato, qui l'acqua è in genere abbondante. Frequentando questa zona, ho fatto caso come la Liguria, per essere una regione votata al turismo balnerare, ha non poche parole per descrivere diverse varianti di tempo grigio e fosco. La maccaja, citata anche da Paolo Conte nella sua canzone su Genova, è «tempo grasso», come recita il dizionario ottocentesco del Casaccia, quando il vento del mare addensa contro questi monti nubi basse e forma una cappa grigia e opprimente, anche dal punto di vista emotivo. Caligo è invece quando trasporta nebbia sulla costa. Gaigo è detta la nube orografica da tramontana sul Beigua; si genera quando il deflusso di aria umida adriatica nei bassi strati padani, arrestato dalla barriera delle Alpi Occidentali, si riversa in questa zona e condensa svalicando le cime.
Il Beigua inoltre si trova al confine tra due masse d'aria diverse, quella continentale e quella tirrenica; il loro scontro produce spesso instabilità e precipitazioni abbondanti, oltre che nebbie dense e frequenti. Questo ha influito non poco anche sull'economia delle sue pendici. Infatti, i boschi hanno reso possibile per alcuni secoli l'esistenza di attività proto-industriali come le ferriere, alimentate dalla disponibilità di carbone di legna per i forni e di acqua per le lavorazioni meccaniche.
Per approfondire
- AA.VV., Alla scoperta delle rocce incise nel geoparco del Beigua, [Savona] 2013
- A. Agostini, Il problema dei rimboschimenti in Italia, Roma 1933
- G. Bellincioni, Perché si deve rimboscare?, Firenze 1901
- H. Küster, Storia dei boschi, Torino 2009
- A. Parodi, vette e sentieri del béigua geopark, Cogoleto 2013
- P. Petrequin et al., Beigua, Monviso e Valais. All'origine delle grandi asce levigate di origine alpina nell'Europa occidentale del V millennio, Rivista di Scienze Preistoriche 2005
- R. Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Roma 2015
- R. Rao, Una civiltà del castagno: uomini e boschi nell'Appennino ligure-piemontese durante l'apogeo del medioevo (secoli XII - metà XIV), Archivio storico italiano, aprile-giugno 2013
- P. Rossi, Sassello. Storia e cultura, Sassello, 1991
- A. Agostini, Il problema dei rimboschimenti in Italia, Roma 1933