Il Grande Est del Devero
Valle Devero
26 giugno
In un baleno
Fino agli anni Settanta del Novecento bisognava invece arrivare a piedi, superando la soglia di sbarramento glaciale, che separa l’alpe dalla bassa valle. Così scrive uno scrittore locale: «Qui la strada, se può chiamarsi così un sentiero scabroso, percorso solamente dal bestiame da latte e dai muli, si alza con numerosi giri e rigiri, finché, oltre mille metri sopra il livello del mare, si fa ad un tratto orizzontale e sbocca in una verdeggiante e bellissima valle che nessuno avrebbe sognato a tale altezza»
Diario di viaggio
Il Grande Est del Devero è un complesso di altopiani pascolivi, separati tra loro da alcune valli, che sovrastano di alcune centinaia di metri la sponda orientale del Codelago e gli alpeggi di Devero e Crampiolo, da cui è separato da scoscese balze boscose, chiamate la Selva. Si estende dall’alpe Forno inferiore all’alpe Fontane. Il percorso qui descritto parte dal parcheggio di Cologno e percorre gli altopiani in direzione nord, per poi tornare indietro dal Canaleccio e lungo la sponda orientale del Codelago. Da Crampiolo prosegue poi lungo il sentiero e, senza toccare l’alpe Devero, prosegue in traverso fin sopra il parcheggio, a cui giunge con una breve discesa.
L’ambiente ondulato è punteggiato da numerosi laghetti ed estese torbiere, paradiso di zanzare ed eriofori nelle zone umide nelle conche, di marmotte nei secchi declivi prativi a monte. Moltissimi anche i rododendri. Gli alpeggi attraversati sembrano tutti ancora caricati, vista la cura con cui sono tenuti, anche se a fine giugno le vacche non vi sono ancora salite.
L’Alpe Devero è una meta turistica molto frequentata, che un’amministrazione oculata ha parzialmente preservato dall’assalto dei mezzi motorizzati: è infatti possibile salire in auto, ma bisogna lasciarla in un parcheggio interrato all’imbocco. Solo i residenti e i pastori possono andare oltre. I turisti devono muoversi con le proprie forze o usufruendo delle navette elettriche. Fino agli anni Settanta del Novecento bisognava invece arrivare a piedi, superando la soglia di sbarramento glaciale, che separa l’alpe dalla bassa valle. Così scrive uno scrittore locale:«Qui la strada, se può chiamarsi così un sentiero scabroso, percorso solamente dal bestiame da latte e dai muli, si alza con numerosi giri e rigiri, finché, oltre mille metri sopra il livello del mare, si fa ad un tratto orizzontale e sbocca in una verdeggiante e bellissima valle che nessuno avrebbe sognato a tale altezza». L’alpeggio si è formato dall’interramento del classico lago di sbarramento glaciale. L’intervento umano nei secoli XVI e XVII ha prosciugato la maggior parte delle torbiere risultanti, con lavori di canalizzazione; l’ha trasformato in un ubertoso pascolo per le stagioni intermedie e prati da sfalcio per la piena estate. L’elevata quantità di precipitazioni, anche in estate molto generose, garantisce abbondante erba, mentre due estese zone prative più a monte, note come Grande Est e Grande Ovest, offrono il pascolo estivo al bestiame, dal cui latte si ricava il pregiato formaggio Bettelmat, insaporito da erbe di montagna come la mottolina.
Partiamo dal parcheggio di Cologno, lungo la strada tra Goglio e l’Alpe Devero. Non ci sono altre auto oltre la nostra, nel lunedì di fine giugno. Nell’unica direzione lasciata aperta dal vallone che ci avvolge, troneggiano il Pizzo Diei e il Cistella. Mi sembra incredibile che siano passati già sei anni da quella volta che lo salimmo: quanto sono ancora vividi i ricordi dei suoi altopiani stepposi e dell’aerea Costetta! Saliamo per prati su un sentiero trasformato in solco dal bestiame, ma che a volte si frange nei mille rivoli delle vacche dalla transumanza dispersiva, come di un centro estivo tra vetrine di dolciumi e giocattoli. Il vallone è verdissimo di prati senza pietre e larici, anche se non sembra che qui abbia piovuto di recente. Al centro scorre un ruscello di acqua trasparente. La giornata è limpida e senza una nuvola, ma l’umidità è elevatissima: pur senza essere opprimente, ci fa sudare e colare la crema solare dalla fronte giù per le guance e il collo. A breve dovremo spalmarcene un altro strato.
Puntiamo verso un ampio canalone di slavina, dopo essere transitati accanto a delle baite. Il sentiero piega poi a destra in un rado lariceto e in breve ci porta all’alpe Fontane, sotto cui pascolano delle vacche pezzate. Tutto attorno alle baite c’è una vasta distesa di Rumex alpinus, che qui è conosciuto come lavazzè e dà origine a un diffuso e ben noto cognome (anche il proprietario del posto in cui dormiremo stanotte lo porta). Insieme all’ortica è il più diffuso esponente della vegetazione nitrofila, che prospera sui terreni ricchi di ammoniaca, portata dalle deiezioni animali. Questa pianta la sa sfruttare al meglio per produrre i propri composti azotati, come gli aminoacidi, i mattoni delle proteine; di solito invece i vegetali ricavano l’azoto dai nitriti e dai nitrati. Il processo che li produce a partire dall’ammoniaca qui è molto lento, perché questo tipo di terreno di alpeggio è tossico per i microorganismi specializzati nella nitrificazione. La conseguenza è che la vegetazione nitrofila può persistere quasi indefinitamente, anche dopo l’abbandono dell’alpeggio.
Con nostra grande gioia, a monte delle baite ci imbattiamo in una gelida sorgente, dove ci dissetiamo con voluttà. Forse rischiamo un po’, perché se le vacche hanno già pascolato a monte, potrebbe essere contaminata. Tuttavia siamo stati un po’ troppo ottimisti, dando per scontato che avremmo trovato sorgenti, cosicché alcuni sono partiti con poca acqua. E poi l’acqua gelida in una giornata caldissima è francamente un’attrazione irresistibile.
Il sentiero prosegue poi in un canale erboso, poco tracciato e disperso in mille rivoli. Di questo tratto ricorderò soprattutto i nugoli di zanzare, che in questa stagione sono all’apice. Sembriamo tre Pig-Pen, il bambino sporco dei Peanuts, ma con la nuvoletta a puntini di insetti anziché di polvere. Confluiamo su una pista erbosa che, presa a sinistra, in breve ci porta al primo altopiano. È una conca chiusa a est dai ripidi pendii erbosi del Monte Sangiatto, a ovest da colline che finiscono sul bordo del salto che precipita sull’Alpe Devero. Abbiamo la Punta d’Arbola di fronte a noi, il Cistella alle spalle, il Cervandone e Punta Fizzi che scorrono a ovest, a chiudere la conca del Devero. I pascoli e i rododendri che li bordeggiano sono fioriti, ogni tanto una conca è occupata da un lago. L’erba è a malapena spuntata ed è ancora troppo presto per il pascolo. In traverso su un dosso, arriviamo all’alpe Sangiatto, da dove parte un sentiero che scende a Crampiolo. Attraversiamo una conca dove giacciono alcuni larici secchi trascinati da una slavina, caduta dal Monte Corbernas, e poco dopo arriviamo all’omonima alpe, anch’essa circondata da Rumex alpinus. Sostiamo un quarto d’ora. Il sole intanto ha cominciato a giocare a nascondino con le nuvole. Hanno dapprima coperto il Cistella e stanno pian pianino invadendo tutto il cielo sopra la valle.
Per un tratto non ci sono più altopiani, ma valli e creste. Proseguiamo allora su un sentiero che taglia un pendio prendendo quota. L’ambiente è punteggiato di larici sparsi, tra rododendri e mirtilli. Il larice è una conifera che nel passato è stata molto favorita dall’uomo, perché stabilizza il terreno dei pascoli con le sue radici profonde, ma senza togliere luce all’erba, grazie alla chioma rada. Con l’abbandono delle montagne, sta regredendo in molte stazioni a favore degli abeti rossi e dei pini cembri, ma questa associazione con i rododendri sembra essere un climax, perché qui si osserva un vigoroso rinnovamento della conifera. In discesa arriviamo alla Valle della Valle, risalita da un sentiero che porta al passo di Pojala e all’omonimo lago. Il nostro prosegue invece sempre tagliando i pendii. Supera un primo impluvio, dove il guado è facilitato da qualche pietra posta dall’uomo da tondini di acciaio. Tra magnifiche fioriture, arriviamo a un secondo torrente. Questo va superato ben tre volte, le prime due con un doppio guado che aggira uno spuntone e poi con un rudimentale ponticello in pietra. Poco sopra di noi c’è l’alpe della Satta, che vediamo quando guadagniamo quota.
Entriamo qui in una seconda successione di altopiani e laghi, proprio ai piedi dell’Arbola, che si è coperto di nubi. Su un dosso ai margini dell’altopiano ci fermiamo a pranzare. Le nubi hanno coperto quasi tutto il cielo e diventano sempre più scure. Anche l’aria è decisamente più fresca che al mattino. Non è più questione di se, ma di quando e quanto pioverà. Le previsioni e l’atmosfera circostante non lasciano spazio a molte speranze. Ad ogni modo, non ci facciamo prendere dall’ansia di anticipare la pioggia, perché il percorso che ci aspetta non presenta pericoli gravi: è quasi tutto nel bosco, per cui dai fulmini siamo al sicuro, ed è su stradina, senza tratti esposti o guadi a rischio piena.
Ripreso il cammino, mentre il resto del gruppo torna subito al sentiero, una di noi resta sui dossi poco sopra, perché in questa zona di rocce sedimentarie una volta ha trovato un fossile di una pianta. Ora ottimisticamente spera che la fortuna le arrida di nuovo. Le rocce viste fin qui, invece, erano prevalentemente metamorfiche: ricordo un masso con i cristalli multicolori disposti nei caratteristici strati, dovuti alle sollecitazioni meccaniche delle profondità terrestri, durante il sollevamento della catena alpina. Le rocce sedimentarie sono invece più rare, perché in origine erano sottili strati tra gli gneiss. In questa zona c’è anche del calcare, che era estratto per ricavare la calce in un forno all’alpe Vallaro. Superiamo l’inghiottitoio, dove si riversano le acque della torbiera che occupa questa zona del Grande Est. Qui le erbe poggiano su uno spesso strato di muschi, gli sfagni, che possono assorbire acqua fino a venti volte il loro peso. Qualche erioforo è già fiorito: quanto è avanti la stagione, dopo i caldi precoci di giugno! La fragilità di questi ambienti impone di non uscire dal sentiero. All’alpe Forno comincia la discesa, che, come detto, è su una stradina. Già nella torbiera avevamo visto qualche goccia generare l’anello di onde, ma ora ne sentiamo qualcuna in più. Indossiamo i paramenti da pioggia e ripartiamo. Pioverà a tratti, senza eccessiva intensità. Così non mi dispiace bagnarmi un po’: le nuvole corrono lungo le cime, i verdi delle foglie e dell’erba diventano lucenti, il lago assume connotati scozzesi, il cappuccio crea un’atmosfera ovattata di raccoglimento meditativo. Posso fotografare i miei amici nel verde sfolgorante del bosco agghindati di colori vivaci; devo solo evitare accuratamente di includere il cielo, ma non è troppo difficile, perché con saggezza inconsapevole prima della discesa ho montato il mediotele.
Una ripida discesa a tornanti ci porta verso un catino detto Canaleccio, che mi ha sempre meravigliato per la sua inconsueta forma a U, dai versanti erbosi e quasi verticali. Qualche marmotta già grassa fugge al nostro passaggio. Scendiamo di nuovo più ripidamente. Per fortuna neanche i tratti lastricati sono scivolosi, nonostante il bagnato. Passiamo accanto a un alpe e perdiamo ancora quota, fino a immetterci nell’anello del Codelago. Piacevolmente arriviamo infine in vista di Crampiolo, con i suoi ordinati tetti in piode. In Ossola i tetti sono costruiti con queste piccole lose, in due spioventi. Sono disposte orizzontalmente a scalini, in modo che gli spioventi si avvicinino fino a toccarsi al colmo. Sono sorrette da travi di legno disposte fittamente, per reggerne il peso che è notevole.
A Crampiolo ci fermiamo per la notte. Sulla veranda della pensione, dove ci togliamo le coperture fradice e gli scarponi infangati, un signore in tenuta da città si dice incerto se voler salire il Cervandone, un tremila alpinistico, che secondo Crosa Lenz richiede esperienza, capacità di orientamento, allenamento e attrezzatura adeguata, oppure se seguire il nostro tranquillo sentiero. Non ha neppure la cartina. Quello di noi che oggi la consultava senza mai riuscire a capire dov’era e a trovare i luoghi attraversati, gli dà indicazioni premurose su dove andare. Sembra un banfone innocuo, comunque.
Piove fitto tutta la sera. Ai primi chiarori del nuovo giorno, faccio un giro tra le case per catturare la fascinosa bruma del mattino. Vado poi fino al Lago delle Streghe, dove dei caprioli fanno un gran fracasso di richiami alla mia comparsa. L’emissario corre rettilineo: è senz’altro una delle opere di bonifica dei secoli passati. Scendiamo verso il Devero lungo il sentiero, che corre nei boschi non lontano da un torrente. Riprende a piovere. Passiamo accanto a un recinto con due maiali, di cui uno rosa fosforescente. Non ci fermiamo all’Alpe, ma scendiamo subito verso Cologno, tra qualche orchidea. Il sentiero regala la vista sulla Cascata dell’Inferno, un nome che ci ricorda che il metro di giudizio sui luoghi è cambiato parecchio: forse per gli alpigiani questo pendio di rocce scivolose era solo il luogo peggiore dove poteva smarrirsi una vacca. Proseguiamo poi traversando un pendio boscoso. Confluiamo in una pista sassosa molto recente, che termina nel nulla con un enorme piazzale da manovre dei TIR. Il sentiero supera un traverso esposto e termina su quello percorso ieri, a breve distanza dal parcheggio.
A Baceno, all’imbocco della valle, ci fermiamo a visitare la chiesa di san Gaudenzio. «È la chiesa più bella da qui a Novara o Torino», ci dice un orgoglioso pensionato del posto, che porta a spasso un passeggino. In effetti. Sulla facciata romanica troneggia un gigantesco san Cristoforo, patrono dei viandanti: era un’usanza diffusa dipingerlo in dimensioni ciclopiche lungo le vie di comunicazione (ad esempio mi capitò di vederne uno simile lungo la via di pellegrinaggio per Montecassino). Qui passava infatti la Via dell’Arbola, un’importante via commerciale tra il Ducato di Milano e la Svizzera, ma che esisteva già dalla notte dei tempi: verso il passo è stato trovato un pugnale spezzato datato al XVI sec. a.C.; secondo gli archeologi era un’offerta votiva per superare indenne le montagne. L’interno è interamente affrescato. Non sono un grande estimatore dei dipinti, ma mi colpiscono una crocifissione tardo-rinascimentale, con molti dettagli di un realismo bizzarro, e un peccato originale danneggiato dallo zelo controriformista. Salire all’alpe Devero senza visitare la chiesa sarebbe una gita monca.
Per approfondire
- P. Crosa Lenz, G. Frangioni, Alpe Devero, Domodossola 2004
- G. De Maurizi, L’Ossola e le sue valli, Domodossola 2015
- B. Gallino - G. Pallavicini, La vegetazione delle Alpi Liguri e Marittime, Peveragno 2000
- G. De Maurizi, L’Ossola e le sue valli, Domodossola 2015