Sacra di San Michele 962 m
Val Sangone/Valle di Susa
Inizio primavera
In un baleno
Da quando scoprii Punta Martin e l'Alpesisa, ho sempre invidiato i genovesi, perché possono fare escursioni in montagna partendo a piedi dalla città. Tuttavia con questa mi sono vendicato, perché ho raggiunto la Sacra di San Michele, l'abbazia medievale che guarda dall'alto l'imbocco della valle di Susa, partendo dalla fermata di un autobus urbano di Torino
Diario di viaggio
Da quando scoprii Punta Martin e l'Alpesisa, ho sempre invidiato i genovesi, perché possono fare escursioni in montagna partendo a piedi dalla città. Tuttavia con questa mi sono vendicato, perché ho raggiunto la Sacra di San Michele, l'abbazia medievale che guarda dall'alto l'imbocco della valle di Susa, partendo dalla fermata di un autobus urbano di Torino. Alla Sacra ogni domenica arrivano frotte di turisti in auto, causando ingorghi nella strada di accesso. Alcuni escursionisti salgono dal fondovalle per una delle due mulattiere che la raggiungono, mentre altri percorrono la ferrata. Questo percorso vi arriva invece direttamente dalla pianura, lungo la collina morenica, formata dai detriti depositati dal ghiacciaio pleistocenico che scavò la bassa valle di Susa. Nonostante si svolga in una zona densamente villettizzata e industrializzata, ai margini di Torino, il tracciato evita quasi del tutto i paesi e le strade asfaltate.
La prima volta che percorsi a piedi questa escursione, fermandomi al Lago Piccolo di Avigliana, era stata un'esperienza solitaria, mentre stavolta coinvolgo un innocente, un amico indistruttibile che si presta volentieri a seguirmi nei miei propositi megalomani. Un purista sarebbe partito a piedi da casa, ma non avevo voglia di sorbirmi e infliggere i sette-otto chilometri di asfalto, lungo la pista ciclabile del Sangone. Prendiamo perciò il 43 che ci scarica tra le villette delle zone residenziali di Rivalta, dove cominciano i sentieri. Imbocchiamo la via pressoché deserta che porta ai margini del centro abitato. L'unico incontro è con qualche persona che porta a spasso il cane, un'incombenza che come la mungitura delle vacche non conosce né Natale né Pasqua. D'altronde la carenza di pedoni non è dovuta solo alla mattina festiva: qui gente a piedi non è che ne abbia mai vista tanta, perché chi abita in questi romitori di lusso prende l'auto anche per andare a comprare il giornale. D'altronde, dove potrebbe andare? Qui non ci sono che abitazioni: il negozio più vicino sarà a due chilometri. La prima volta in cui percorsi il tragitto tra questa distesa di case come in fotocopia, senza punti di riferimento come negozi o luoghi pubblici, provai la sensazione di essermi perso, anche se ero sicuro che la strada giusta fosse questa. Ero passato tante volte di qui, ma sempre in auto o bici, mentre quel giorno l'andare a piedi sembrava dilatare gli spazi oltre misura. Stavo iniziando a meditare di consultare il GPS del cellulare, quando riconobbi la familiare via che porta in campagna.
La cappella di san Sebastiano fu posta, come spesso capita, all'incrocio tra due strade: la prima segue il margine della collina, la seconda la risale. Per ora la crescita suburbana sembra essersi arrestata ed essa volge ancora l'abside ai prati. Seguiamo la via bassa, una pista antica, che in certi punti conserva ancora la lastricatura in sassi di fiume levigati dalla corrente. Sullo sfondo, oltre i prati, a filo dell'orizzonte fa capolino la familiare piramide del Monviso. Il tracciato costeggia cascina Rifoglietto e poi prosegue come sentiero nel bosco. L'ambiente è quello della foresta di pianura, con prevalenza delle moderne robinie, importate dal New England per motivi ornamentali e divenute infestanti; il sottobosco è un intrico impenetrabile di cespugli e rovi. Gli alberi sono di dimensioni medie o piccole: questo, così come la prevalenza di robinie, fa pensare a tagli frequenti e anche abbastanza dissennati. Una panchina è stata posta ai piedi di un carpino nero più grande della media. Il mio amico si chiede spesso come fossero i luoghi che attraversiamo al tempo dei Romani: prima che l'uomo medievale intervenisse, questi alberi insieme alle querce costituivano le essenze più diffuse del bosco di pianura. L'intervento umano tuttavia, ai laghi di Avigliana, data già all'Età del Bronzo. Accanto al sentiero corre un canale d'irrigazione per i campi sottostanti, mentre sull'altro lato si vedono i primi massi erratici della giornata. Ai piedi di una quercia vediamo muoversi qualcosa e scrutando notiamo che è uno scoiattolo rosso. L'invasione di quelli grigi ha preso il via a pochi chilometri da qui, da una coppia regalata a una famiglia, per il giardino della loro villa. Si sono così diffusi che la scorsa settimana ne ho visti due che bisbocciavano di fronte alla porta di casa e anche i parchi di Torino ne sono ormai pieni. Fa piacere constatare che qualche esemplare autoctono ancora resiste, non solo in montagna, dove per ora gli invasori non sono arrivati. Incrociamo un po' di gente che corre in tuta o pedala in mountain bike.
Confluiamo in una strada sterrata, chiamata Strada Comunale Antica di Bruino. Su questa collina ne conosco diverse che portano nomi del genere (un'altra la incroceremo a breve). Le strade per le automobili costruite successivamente hanno seguito percorsi diversi, più rettilinei e in zone più pianeggianti. Questa puntava ad un guado oggi scomparso, mentre la strada recente varca il Sangone su un ponte in cemento, in una zona in cui non è guadabile per via delle sponde alte. Questo vecchio tracciato è rimasto così com'era, per chi ha voglia di girare a piedi, a cavallo o in bici. Corre tra la collina e un bosco ai margini del torrente Sangone, dove c'è una zona di protezione, perché ci sono i pozzi dell'acquedotto di Torino. La situazione non è così preservata dappertutto: poco a valle, accanto al torrente alcuni anni or sono è stata trovata una discarica abusiva di rifiuti tossici, sotto un parco dove la gente andava a fare le grigliate. Oggi la zona è cintata, in attesa di una bonifica. A mezza strada c'è poi un'industria premiata da Federchimica per il rispetto ambientale, che nei decenni scorsi ha causato non pochi conflitti a causa degli scarichi che riversava nel corso d'acqua. Torrente che d'estate è spesso in secca, perché il prelievo irriguo non rispetta il deflusso minimo vitale: quando non ci si poneva questi problemi, furono assegnate generose concessioni di durata secolare.
Superiamo l'imbocco dell'antica strada che univa Bruino con Villarbasse, che allora ne era una frazione. La strada è scomparsa verso Bruino, per via della zona riservata all'acquedotto, come anche il guado sul Sangone. È invece ancora percorribile verso Villarbasse. Univa i centri dei paesi per la via più breve, mentre il percorso moderno fa un giro più lungo, passando dove è stato possibile tracciare una carreggiata più ampia. Nel tranquillo paese di Villarbasse fu commesso l'ultimo delitto punito in Italia con la pena capitale: si trattò di un'orrenda strage per rapina, pochi mesi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (vi risparmio i dettagli raccapriccianti). L'esecuzione avvenne nel 1947, nel poligono di tiro che esisteva alle Basse di Stura. Questa zona oggi è divenuta una collina artificiale, piena dei rifiuti di diverse generazioni di torinesi, come il famoso Monte dei Cocci della Roma imperiale, pozzo di san Patrizio per gli archeologi del 3000.
Proprio su quella strada moderna termina la nostra. La attraversiamo e andiamo a imboccare un vecchio percorso diretto a Reano. Ci sono due modi per raggiungerlo: il primo è seguire la traccia che si diparte subito ripida, una scorciatoia di ciclisti; tuttavia il vero imbocco può essere raggiunto risalendo il prato in diagonale. Quando ero ragazzo c'era un pista erbosa che raggiungeva l'imbocco, ma oggi è scomparsa. La stretta stradina è bordata da file di pietre e muri a secco ricoperti di muschio, dove crescono le felci. Probabilmente era lastricata, ma ormai la terra, che sempre tende a sommergere i manufatti umani, ha seppellito le pietre. Passiamo accanto a un edificio in rovina. Di case del genere, non raggiunte dalla carrozzabile e per questo abbandonate, nei giri in montagna ne vedo continuamente, ma mi fa specie trovarne una qui, a breve distanza dalle zone residenziali suburbane. Seguendo delle sommarie segnalazioni, finiamo sul sentiero confinale tra Reano e Trana, dove sono infissi diversi cippi di confine, con una R su un lato e una T sull'altro. Ce ne sono di analoghi nella parte alta della collina, tra Villarbasse e Rosta, con una B e una R (Bruino e Rosta o Rivoli). Arriviamo ad un vigneto, dove si vede svettare il castello di Reano color rosa, e successivamente a un tabernacolo posto su un quadrivio, dove facciamo uno spuntino. Seguiamo quindi la strada in discesa. Finiamo tra alcune case dove si apre la vista su Reano. Come molti paesi dei dintorni di Torino è stato diffusamente villettizzato, con il risultato che nelle estati secche c'è carenza d'acqua, perché si trova in cima alla collina. Scendiamo alla provinciale, che percorriamo in discesa. Al tornante lasciamo la strada e imbocchiamo il sentiero per il Moncuni. Sembrerebbe possibile arrivare al sentiero anche evitando l'asfalto, scendendo dal tabernacolo fino a Trana, dove ci dovrebbe essere una sterrata che vi risale. Tuttavia questo comporta dislivello supplementare.
Il sentiero è segnalato approssimativamente da scolorite tacche gialle, ma non c'è il rischio di perderlo, perché i motociclisti l'hanno eroso fino a renderlo profondo anche trenta centimetri, in certi tratti. In altri la terra è completamente scomparsa e ha lasciato affiorare le rocce sottostanti, che sono poi le famigerate ofioliti dell'arco alpino occidentale. Mi domando che senso abbia girare in moto per questi sentieri, visto che con questo mezzo non ci si rende minimamente conto di ciò che ci circonda, ma si mette solo alla prova la propria abilità nel superare le difficoltà tecniche. La natura è usata solo come palcoscenico per esibirsi, senza apprezzarla e senza capirla. Avrebbe più senso girare su una pista artificiale. Per fortuna da metà anni ’90 questa zona è stata vietata ai mezzi motorizzati.
L'ambiente si fa più arido, con querce rade su un terreno sassoso e quasi spoglio. Non dev'essere una zona molto frequentata, perché in vari casi vi ho visto animali (caprioli e una volpe). La temperatura, che era stata gradevole finora, cresce repentinamente, nonostante il cielo si veli un po'. Tra le panche sotto alla cima troviamo un po' di escursionisti e molti ciclisti. Gran panorama sulla val Sangone sovrastata da cime bianche e sul Lago Piccolo, avvolto da boschi che ancora attendono la primavera.
La via diretta per il Lago Piccolo scende dal col Buchet, ma allunghiamo puntando verso Borgo San Pietro, per attraversare un condensato di cultura locale: un pianoro dove si dice si radunassero le masche (il nome piemontese delle streghe) e un masso erratico. Questi massi in particolare, depositati dal ghiacciaio che ha scavato la bassa valle di Susa, sono una peculiarità di questa collina morenica. Lungo il percorso ne abbiamo visti diversi, già nei dintorni di Rivalta, ma i più imponenti sono tra Villarbasse e Rosta. Hanno sempre alimentato la fantasia delle persone, che non riuscivano a spiegarsi come fossero arrivati lì. Questo velo di mistero non ha loro impedito di sfruttarli prosaicamente come comode cave di pietre da costruzione: sulla faccia superiore di questo ancora si vedono i fori che venivano praticati picapera (spaccapietre), per favorirne la rottura ed ricavare lastre per le costruzioni. La tecnica consisteva nell'infilare un ramo di melo nel foro e poi bagnarlo, finché la dilatazione indotta non provocava la fessurazione e il fragoroso distacco di una lastra. In valle di Susa la pietra è sempre stata abbondante, tanto da essere usata in manufatti altrove fatti con altri materiali, come i pali delle vigne. A Borgone esisteva un'importante corporazione di tagliapietre, che ha lasciato la celebre grotta della Roca Furà, dove si possono vedere i segni dell'estrazione della macine da mulino.
Dal colle Bal dle Masche prendiamo il sentiero in quota che va a riallacciarsi a quello che scende verso il lago. Su questo traverso, nonostante tanti passaggi, ho visto solo una persona un'unica volta, perché gli escursionisti tendono a percorrere i sentieri che puntano diretti verso la cima. In un punto panoramico ci fermiamo a fare uno spuntino. Oggi non facciamo una vera pausa pranzo, perché ingenuamente puntiamo tutto sui leggendari panini del bar della Sacra. Superiamo un bivio, dove hanno messo dei cartelli solo in dialetto, perché evidentemente pensano che ai forestieri questa zona non interessa. Senza arrivarci, passiamo vicino a una zona detta Druine, che indica un luogo fertile. Stando a quanto mi ha raccontato una guida ambientale della zona, la radice celtica “dru“, che si trova anche un druido o nel piemontese drugia (letame), indica ricchezza di qualche attributo. Sbuchiamo a Case Olivero, dove ci sono case contadine e un complesso cintato e sorvegliato da videocamere. Pochi passi e siamo nel parcheggio del Lago Piccolo, che nella domenica mite di inizio primavera è invaso da gente che fa il picnic. Un caffè alla Zanzara, il bar rivierasco, non ce lo leva nessuno. Avigliana ha due laghi di origine glaciale. Il Lago Grande è devoluto al turismo, con sponde occupate dai ristoranti e libertà di navigazione; invece il Lago Piccolo è un'area protetta dove trovano rifugio molti uccelli acquatici, sia stanziali che svernanti o di passo.
Anziché imboccare direttamente la Via dei Pellegrini diretta a case Cordero, proseguiamo lungo il lago, perché il mio amico non c'è mai stato. Notiamo subito che la frequentazione cala vistosamente, non appena ci allontaniamo dai luoghi raggiungibili in automobile. Lo guido fino agli anfratti più reconditi e gli mostro il pioppo bianco, che funge da posatoio per i cormorani che svernano qui. Il livello del lago e degli affluenti è un po' aumentato, dopo le piogge che hanno posto fine alla lunga siccità invernale; mi fa persino piacere sguazzare nel fango di certi tratti, dopo che per tutto l'inverno il terreno era stato duro e secco. Nella zona ombrosa c'è una notevole fioritura di dente di cane: così tanti tutti assieme non li avevo mai visti. A inizio aprile fioriscono anche gli alberi ed è uno spettacolo. Percorriamo il sentiero collinare per ritornare sul nostro percorso; in alternativa si possono prendere un paio di piste sconnesse che portano sulla strada ufficiale a monte di case Cordero (basta seguire la traccia GPS fornita al fondo dell'articolo).
Poco a valle di case Cordero torniamo sulla Via dei Pellegrini, che seguiremo fino alla Sacra. Nel borgo il mio amico resta affascinato da un tazebao di Lupo Alberto. Seguiamo quindi un tratturo nel bosco, che non è uno dei tanti percorsi scavati dalla ruspa per sfruttarlo, ma un tracciato antico: lo si capisce dalle file di pietre ai bordi. Costeggiamo dei prati da sfalcio presso borgata Battagliotti, un posto incantevole. Attraversata con prudenza la trafficata strada che arriva da Giaveno, la mulattiera ci fa salire gradualmente alternando bosco e prati. In alcuni tratti, è entrata nella viabilità automobilistica: è stata allargata e asfaltata, ma la si riconosce perché ha conservato un muro a secco su un lato. All'incrocio con una strada vediamo due cavalieri e poi, in un tratto con vegetazione invasiva, superiamo due vecchietti, che si fanno da parte al nostro passaggio. «Largo ai giovani!» «Mica tanto giovani». Se vai in montagna, fino ai 60 sei giovane. In un tratto asfaltato si apre la vista su Avigliana e il Lago Grande. Con un interminabile tratto nel bosco di castagni cedui arriviamo alla strada della Mortera che sale da Avigliana; seguendola, in breve siamo alla borgata, da cui parte la Via dei Principi che conduce alla Sacra. Il nome della mulattiera viene dal trasporto di alcune salme di principi Savoia che, per volere di Carlo Alberto, furono seppelliti nell'abbazia. La Sacra ha sempre avuto uno stretto legame con le famiglie nobili, decisamente più lasco con il territorio. Ho bisogno dell'ultima arancia del mio zainetto. «Vuoi un caffè?» «Uhm, no».
L'ultima casa è una cascina con lo striscione No TAV. A monte alcuni terrazzamenti in via di recupero, a bordo sentiero una centrifuga arrugginita, lì da chissà quanto. Saliamo a zig-zag, facendo leva sulle ultime forze. Dopo oltre sei ore a buon passo, siamo entrambi un po' in crisi e ancora non sappiamo che dobbiamo ancora passare attraverso la grande tribolazione. I saliscendi sono molto più estenuanti di una salita regolare. Incrociamo un po' di famigliole che scendono. Il mio amico socializza con una che si accompagna con un border collie e porta un cucciolo sfinito in braccio. Nessuno di noi due può fare altrettanto con il compagno di gita, che pure lo desidererebbe.
Arrivati alla punta d'Ancoccia, andiamo al punto panoramico, ottimo punto di vista su Avigliana e la bassa valle, Torino, le Alpi Liguri e naturalmente la Sacra, che troneggia in cima al monte Pirchiriano. Il nome della montagna deriva da “porco”. Furono i Longobardi a introdurre gli allevamenti bradi di maiali nei boschi e a questo scopo favorirono la diffusione di specie come il faggio, che producono ghiande gradite a questi animali. E proprio i Longobardi si attestarono alla base della montagna, nel punto più stretto della valle di Susa, nel vano tentativo di sbarrare la strada ai Franchi. I primi non ebbero mai un esercito particolarmente efficiente, mentre i secondi avevano strutturato la propria società in funzione della guerra: non ci fu storia. I versanti di queste montagne sono molto dirupati, tanto che qui, anche se siamo a bassa quota, vive una colonia di camosci, che con un po' di fortuna possono essere avvistati al mattino presto o la sera tardi. Peccato che nel frattempo i monti più alti, che ci apparivano nitidi fino al Moncuni, siano stati avvolti dai cumuli. Indugiamo un po' in questo posto meraviglioso, dove sono venuto diverse volte a fotografare. Da qui persino i capannoni della sottostante zona industriale di Avigliana non danno fastidio. Tra le tante industrie che si sono insediate qui, ci fu anche il dinamitificio Nobel, dove lavorò Primo Levi. Un episodio di chimica che gli capitò è narrato ne “Il sistema periodico”. Si riconoscono poi i capannoni blu mare della Azimut, un'azienda che ai piedi delle Alpi produce yacht di lusso. Molto più lontano, a sud dello squadrato castello di Rivoli, si può intuire il nostro punto di partenza.
Riprendiamo la marcia e quasi subito ci imbattiamo in due vecchie conoscenze del CAI, che se ne stanno beati su una panchina a godersi il pomeriggio. Calpestiamo l'ultima neve nelle zone ombrose prima di arrivare alla strada, dove ci sono meno auto di quanto mi aspettassi. Sarà perché nella Domenica delle Palme la gente va a messa a fare incetta di ulivi benedetti più che a fare la gita fuoriporta: oggi non c'è nemmeno l'ingorgo delle auto che scendono in contromano.
Evitando la stradina asfaltata pedonale percorsa dalle folle disarcionate, seguiamo la mulattiera, che si congiunge con quella proveniente dalla sottostante frazione di San Pietro. Da qui arriva un po' di gente in abbigliamento cittadino. Ci precipitiamo verso il bar affollato di turisti e chiediamo due panini con melanzane piccanti e acciughe al verde. «Mi spiace, ma da mangiare non ho più nulla», replica la barista con tono secco. “Ho visto la mia fine sul tuo viso, il nostro amor dissolversi nel vento. Ricordo… sono morto in un momento”. Il poeta riassume bene il nostro stato d'animo. Ci consoliamo con la birra artigianale, che accompagniamo con dei tristissimi pacchetti di patatine perverse (io, in particolare, pescando a caso ne imbrocco uno all'aroma di lime che è davvero ripugnante, nonostante la fame).
Alla fine del fiero pasto, raccogliamo le masserizie e ripartiamo, non senza esserci imbattuti in due femmine di cinghiale con numerosa e rosea prole. Devono essere state attirate dall'odore di cibo del bar e sono giunte fino alla recinzione. Tuttavia, alla presenza umana battono ben presto in ritirata. Scendiamo a San Pietro e di qui imbocchiamo la mulattiera lastricata per Sant'Ambrogio. Poggiando il piede su un'infida pietra ofiolitica, scivolo e finisco sedere a terra. Devo ringraziare i montanari, che la costruirono apposta scivolosa, perché vi trasportavano i prodotti del bosco sulle lese, le slitte da sentiero. Queste famigerate pietre verdi: tra tutti i difetti che hanno, includono pure la scivolosità. E dire che alcuni anni fa la discesi indenne in un giorno umidiccio, ma ero più giovane. Da qui in poi, cammino perciò fissando incessantemente il terreno. Con il collo come incriccato in posizione flessa, quasi non m'accorgo della calda luce che illumina il Musiné e delle ombre che hanno ormai avvolto questo versante e si vanno allungando verso est. È ormai questione di pochi tornanti e siamo in paese. Ci dirigiamo alla stazione promettendoci di fare una puntata in pizzeria, una volta a Torino, per consolarci della magra merenda. Ma cento pizze non potranno mai eguagliare una singola acciuga al verde.
Per approfondire
- Traccia GPS: dalla fermata Monte Ortigara a Rivalta alla stazione di Sant'Ambrogio