Donnaz - Crest
Vallone del Fer
10 luglio
Diario di viaggio
Una lunga marcia comincia con una lunghissima salita. Mao era stato assai più fortunato di me, perché per iniziare questo viaggio mi tocca ben più di un piccolo passo. La prima tappa porta infatti a risalire un lungo e selvaggio vallone, dove una splendida mulattiera e miseri pascoli sono l'unica traccia umana. Partendo dall'imbocco della Vallée, devo risalire fino a un colle a oltre 2000 m, per poi scendere di nuovo a 1000 m per trovare un alloggio. En passant, tra il posto dove dormirò e quello dove cenerò e farò colazione ci sono ulteriori 80 metri di dislivello su sentiero gradinato, da aggiungere al computo ufficiale.
L'Alta Via 2 prende le mosse ai margini di Donnaz, il secondo paese della Valle Centrale, tra Pont-Saint-Martin e la strettoia di Bard. La strada romana con l'arco è a un tiro di schioppo, ma in altra direzione. Attraverso il ponte pedonale sulla Dora, impetuosa e dalla torbidità glaciale, per portarmi sul versante idrografico destro, dove rimarrò fin quasi agli ultimi passi del viaggio. L'unico segnale è un dimesso 2 nero nel triangolo giallo, il simbolo ufficiale, dipinto sul muro di cemento che delimita la ferrovia, insieme alla freccia gialla che indica la direzione da seguire. Mi sarei aspettato qualcosa di più retorico e pomposo, per esempio un cartello con scritto “Courmayeur 70h 00min” o cose del genere. Sono le 7 e il primo sole filtra fin qui da un incavo tra due cime, mentre il vicino Forte di Bard è ancora in ombra. Alle mie spalle ci sono i terrazzamenti dove sono coltivate le uve nebbiolo, da cui si produce il pregiato Donnaz. Mi fermo a cambiare l'acqua cittadina alla prima fontana che trovo. In direzione opposta alla mia, passano due francesi con uno zaino piccolo: saranno gli unici due escursionisti che vedrò nei primi due giorni di cammino. Uno spruzzatore bagna un prato e mi crea un arcobaleno personale.
A Monteil, dove parte il sentiero, una chiesa illuminata da una bella luce sormonta delle case contadine. Alla prima rampa sento lo zaino carico trascinarmi all'indietro, ma mi abituerò presto al suo peso. Il carico, comprese l'acqua, la macchina fotografica e qualche scorta di prodotti energetici pesa 14 kg. Mi sembra già di aver rinunciato a qualcosa, preparandolo, e userò tutto quello che mi sono portato dietro, tranne i guanti e il cappello di lana. Il primo ambiente che attraverso è un castagneto da frutto abbandonato. Il castagno era l'albero del pane di queste zone di bassa montagna troppo impervie per poter essere terrazzate e devolute alla cerealicoltura. L'atmosfera è asfissiante, perché l'umidità è massima (la notte è piovuto) e il sole colpisce in pieno questo versante esposto a nord-est. Oggi suderò anche l'anima e rinuncerò a spalmare la crema solare sulla mia pelle, perché l'avrei colata immediatamente giù per il collo. Meno male che a Donnes troverò una fonte, perché dopo due ore avrò già quasi finito il litro e mezzo della borraccia. Nel primo tratto di salita, è più fresco solo quando la mulattiera si approssima al torrente, dove soffia una piacevole brezza.
Tra i versi gracchianti delle ghiandaie e i canti dei passeriformi, la mulattiera affronta una zona di grandi massi. Sono nella falda Sesia-Lanzo, una zona di gneiss molto resistenti che si frantumano in grossi blocchi. Il castagneto da frutto cede il passo al ceduo, con segni di sfruttamento boschivo contemporaneo, come legna accatastata. La mulattiera è ripidissima: povere donne, che avevano di solito l'incarico di trasportare da e verso valle i beni prodotti in montagna e verso monte quelli acquistati nella bassa. Passo accanto a un crotton appoggiato a un masso, cosa che mi fa pensare che ci siano delle case nascoste al mio sguardo. Finalmente vedo dei terrazzamenti e poi delle felci che hanno invaso dei prati abbandonati: Donnes è vicina. Ai margini del paese qualcuno ha piantato un ulivo, ma poi l'ha trascurato. Era molto ottimista se sperava che fruttificasse a 900 m, su un poggio che prende il sole solo al mattino. Forse puntava tutto sul riscaldamento globale. Più tradizionali sono un frassino e dei castagni da frutto monumentali. Tra le case c'è un forte odore di stallatico. Faccio una pausa alla fontana, dove mangio anche una pesca (ne ho sei per due giorni, prevedendo molto bisogno di sali). Non ci sono abitanti in giro.
Nel primo tratto che si incunea nel vallone del Fer de Mouilla, una strada ha sostituito la mulattiera, ma per fortuna la devastazione si ferma dopo non molto. Le mulattiere sono un retaggio materiale di una cultura passata, in cui si girava a piedi, e secondo me dovrebbero essere preservate, quando si rende la montagna più accessibile a chi ci lavora. Lungo la strada mi imbatto in uno scoiattolo rosso, per poi raggiungere la cascata del torrente Bonze, che si è scavato una valle profondamente incavata. La strada finisce nel nulla poco dopo e proseguo sulla stupenda mulattiera lastricata. Prosegue molto in alto rispetto al torrente, che si è scavato una profonda forra. La vegetazione cambia sovente, al mutare dell'esposizione: lariceti si alternano a noccioli con felci. Nel tratto precedente avevo anche visto qualche faggio, un incontro che non mi capiterà più per tutto il viaggio: un po' perché di solito sarò al di sopra del piano montano, un po' perché il clima continentale della valle interna non si adatta a questa latifoglia. L'umidità è sempre elevata: la rugiada luccica al sole, ma le pietre del fondo sono scivolosissime e mi costringono a procedere guardingo, facendo più attenzione a dove poggio i piedi che all'ambiente circostante. Per questo non mi godo questo tratto come potrei. Per un tratto cammino intorpidito dalla mancanza di aria fresca, finché non mi desta una chiassosa ghiandaia.
Incontro un primo alpeggio con i fili che delimitano la zona in cui devono pascolare le mucche. È minuto. Riesco intanto a scattare qualche foto decente alla mulattiera dove attraversa delle pietraie e nelle zone di felci. Supero il bivio per Cormoney, che vedo abbarbicata al costone, sull'altro versante del vallone. Al tornante successivo sono all'alpe Mognissola, anch'essa davvero misera. La costruzione sembra abbandonata.
Alla successiva alpe Bouchet ci sono una casa rivestita di malta e una a secco addossata a un masso. La malta indica un intervento di fine Ottocento o inizio Novecento, quando fu liberalizzata la cottura della calce e si poté pensare a qualche confort in più nelle case di abitazione. La pietra a secco, infatti, lascia passare gli spifferi, mentre la malta li blocca a fornisce un isolamento migliore. L'abitudine di costruire addossati a massi, invece, serviva anche per fornire un buon isolamento termico e frescura ai locali che dovevano essere impiegati per la produzione e la conservazione dei formaggi. Per produrre la toma, infatti, bisogna prima lasciare il latte una notte in un ambiente fresco, affinché si conservi mentre affiora la parte grassa che sarà usata per produrre il burro. Per questo spesso una canaletta d'acqua correva al centro del pavimento. Quest'alpeggio doveva essere un luogo importante della transumanza, perché qui finisce la mulattiera e comincia il sentiero. Probabilmente qui i pastori stazionavano durante le stagioni intermedie, a maggio e ottobre. È sorprendente la sproporzione tra l'immane lavoro necessario a edificare la mulattiera e la piccolezza di questi alpeggi. Chiaramente erano sufficienti solo al bestiame di una singola famiglia. È tipico della zona sud-orientale della Valle d'Aosta, dove gli gneiss poco erodibili offrono solo piccole zone di terreno adatto alla trasformazione in pascolo.
Intanto il cielo si è piano piano coperto quasi del tutto. La costruzione dell'alpe successiva, l'alpe della Mouilla, ha un tetto sommariamente tamponato con dei teloni. Non vedo camini né crotton, per cui ne deduco che le vacche che vedrò a breve siano da carne. Ancora un breve tratto di salita e raggiungo un grande pianoro erboso, il classico lago di sbarramento glaciale interrato, con il torrente che serpeggia trasparente al centro. Devo dire che mi aveva colpito molto quando l'avevo vista dall'alto, dal monte Vailet, perché da lì sembrava una minuscola isola verde tra le rocce sterili, mentre ora che sono in mezzo questa prospettiva si perde. Su un masso faccio una pausa, dopo un breve giro esplorativo in cui finalmente vedo molte vacche, ma nessun pastore. Le cime sono coperte dalle nuvole, ma riesco lo stesso a farmi un'idea di dove possono essere il Debat e il Vailet, al confine con la Valchiusella. Altre nubi risalgono poi dal basso.
Il sentiero si inoltra poi nel piano fino circa a metà, per poi lasciarlo a sinistra per prendere quota. Mi accorgo subito che le mucche non ne sono ancora salite al di sopra, perché cessano le fatte e l'erba brucata. Compaiono anche le fioriture, lussureggianti, anche con qualche orchidea. Zone umide con sorgenti e ontani si alternano ad ambienti più secchi dove crescono i cespugli di ginepro tra radi larici. Il sentiero qui è meno tracciato, ma lo perdo brevemente solo nei dintorni dell'alpe Posseuil, di cui non resta che il perimetro dei muri, mentre il tetto è imploso. A monte per fortuna la nebbia non è fitta, perché il sentiero è sempre meno tracciato e le frecce gialle sono rade. Al colle non c'è vento e fa caldo, contrariamente alle mie attese, ma soprattutto speranze, perché non ho mai smesso di grondare. Anche in discesa patirò il caldo. Secondo la guida dovrei vedere il Rosa, ma è già tanto se vedo il pendio che mi attende.
Dall'altro versante risalgono nubi che impediscono la vista sul basso e lasciano filtrare il sole solo a spizzichi. Il sentiero è più tracciato, o forse è solo che, osservato dall'alto, è più visibile. L'ambiente è il rado lariceto a rododendro. In una radura pianeggiante vedo il sedere di un animale nero che si nasconde tra gli alberi. È talmente imponente che la prima impressione è quella di un orso, anche se è chiaramente impossibile, perché i più vicini sono nel Brenta. Lo sento poi grugnire e capisco allora che è un cinghiale. Perdendo ancora quota arrivo agli alpeggi di Vallesomma, molto spartani. I muri sono costruiti con una tecnica rara di alternanza tra pietra a secco e legno. Qui ci sono fatte recenti di vacca e ne odo anche i campanacci. Il sentiero prosegue con un lungo traverso discendente, in un lariceto umido con sorbi e ontani. I campanacci sono subito sotto di me, ma non riuscirò a vedere le bestie. Il sentiero cala più decisamente e comincio a sentire un incessante abbaiare di un cane; capirò poi che sta giocando con i bambini. Il cielo è decisamente scuro e sento le prime gocce quando sono ormai in vista del santuario d Retempio, sotto il cui tetto a spiovente mi rifugio e mi fermo a rifocillarmi. Si susseguono brevi rovesci e si odono anche dei tuoni, mentre la zona è completamente immersa nella nebbia. Quando la pioggia si fa più fitta, il pastore dell'alpeggio annesso, che avevo già salutato mentre mi rifornivo d'acqua durante un momento asciutto, mi invita a casa sua e mi offre un caffè. Chiacchiero un po' con lui, mentre gioco anche con i suoi quattro figli. La più giovane è ancora allattata al seno, mentre la più grandicella sta imparando dalla mamma a scrivere i numeri. Il maschio è abbastanza scatenato. Stanno approntando un rifugio per gli escursionisti, ma sono ancora in attesa di qualche autorizzazione per partire. Il pastore è della valle Orco. Ha qui vacche da carne e pecore, per cui è moderatamente preoccupato, perché in zona sono segnalati due lupi. Mentre scenderò, incrocerò due forestali che ha chiamato per capire cosa fare.
Si scatena intanto un rovescio più forte, con lampi e tuoni vicini. La zona sud-orientale della Valle d'Aosta è più piovosa delle valli interne, perché risente ancora dell'influsso dell'umida pianura. Inoltre, come tutte le zone ai margini delle catene montuose, è il luogo dove si scaricano le perturbazioni arrestate dai monti. Il pastore mi spiega che questa zona è abbastanza pericolosa: tempo addietro delle vacche di un suo vicino di alpeggio furono uccise da un fulmine. Mi chiede se ho visto le sue e decide che per stasera non andrà a trovarle. Il lato positivo è che qui non rischia di restare senza acqua. Qualche settimana fa sono salito sul versante solatio di queste montagne e ho notato che molte sorgenti in quota erano secche, perché lo scorso inverno è stato avaro di neve.
Riparto quando finalmente smette. Fatti pochi passi sento un fortissimo profumo di terra. È dovuto alla geosomina, un terpene (sostanze chimiche che danno anche il profumo ai fiori), emesso da alcune specie di attinomiceti. Sono dei microrganismi simili ai batteri, ma in grado di produrre ife come i funghi e sono presenti in grandi quantità nei terreni. Scendo per un bel bosco immerso nella nebbia, in un'atmosfera ovattata e silenziosa. Il cappuccio mi protegge dagli scrosci di pioggia, che si susseguono, e mi racchiude come in un guscio. Ho smarrito i pensieri di quei momenti di raccoglimento. Vedo un topolino e una chiocciola. Sceso al ponte, con un traverso sono al bivio per Crest. Dormo nell'agglomerato superiore, mentre ceno in quello inferiore. Sono l'unico cliente qi questa struttura a gestione familiare. La moglie serve a tavola, mentre il marito cena con un amico chiacchierando in patois.
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Sergio Chiappino
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