Sondrio-Prato
Anello dei Pizzi
9 luglio
Diario di viaggio
«Ma c'è l'autobus!». Così mi aveva risposto al telefono la proprietaria del ristorante con camere presso cui pernotterò stasera: non riusciva a concepire che volessi salire a piedi da Sondrio. L'Alta Via parte da Torre Santa Maria, ma il Mallero sfocia a Sondrio nell'Adda, per cui da lì la mia religione escursionistica mi impone di partire. Per la verità, fino a quel punto ci ero arrivato con il simbolo stesso della velocità e della meccanizzazione, il treno. Per qualche imperscrutabile ragione, i regionali che sfrecciano già oltre i limiti di velocità delle autostrade sono percepiti dai conservatori come emblema della lentezza, mentre i Frecciarossa della velocità moderna sono da osteggiare. Costoro non sanno che, per andare al lavoro, ci impiego lo stesso tempo in bici e treno che in automobile. Io non me ne sono curato e ho adoperato una miscela di ambo. Solo dall'imbocco della Valtellina, a causa di lavori alla linea, ho dovuto immischiarmi nel congestionato traffico stradale, funzionale ad ammirare con calma i vigneti terrazzati del versante solatio. Prima avevo fatto un po' di caso ai paesaggi del lago di Como, familiari per il sentiero del Viandante percorso qualche anno addietro, anche se meno che alle gambe tatuate di un interista, mentre delle risaie e della Brianza non mi è rimasto nulla.
Faccio una frugale seconda colazione in un bar di una galleria, ai cui tavolini un medico in pensione racconta del magna magna sui vaccini della Sanità in mano ai politici. Di solito argomentazioni del genere sono adoperate dagli oppositori di una politica o di un prodotto, per far vedere quanto è malvagio. Il fatto è che ciò si applica a ogni cosa che esiste nella nostra società, anche a quelle a cui noi siamo favorevoli, perché è organizzata sulla capacità di estrarre denaro da ogni cosa che si fa: ho il mio zaino perché un produttore tedesco ha collaborato con un petroliere arabo per estrarre il petrolio, con una raffineria indiana per trasformarlo in fibre di plastica, con un operaio vietnamita che ha tessuto la struttura, con un negoziante italiano che l'ha venduto, tutti in nome del denaro che questo procura loro. Magari ciascuno disprezza la cultura dell'altro, ma in nome del denaro hanno collaborato per un fine comune utile a me. I problemi nascono quando ci si dimentica del fatto che il denaro è un mezzo con cui ci organizziamo per fare cose utili e lo perseguiamo come fine da ottenere, ad esempio massimizzando i profitti e aumentando il PIL senza porci il problema di cosa ciò comporti. Il mercato poi premia chiunque faccia malversazioni senza farsi scoprire, tipo corrompere le autorità di controllo o smaltire i rifiuti tossici in Somalia, perché riesce così a ridurre i costi ed essere più competitivo, in qualunque settore.
Dopo la sosta, attraverso il mercato settimanale del sabato, che esiste dal 1492, in seguito ad un'istanza al duca di Milano, anche se Sondrio divenne il centro principale della valle soprattutto in epoca grigiona. Per nulla affollato, dove mi fermo a scattare una foto un banco di scarpe, attratto dall'ordine geometrico delle scatole. Ancora non so quanto saranno profetici questi incontri cittadini per i giorni a venire.
Dato che la prima parte della salita avviene su un percorso dedicato a Nicolò Rusca, faccio una puntata alla chiesa della Collegiata, dove è sepolto. Tra qualche fedele che prega ai banchi dell'unica navata barocca, una giovane accattona attira le rimostranze del diacono, che le ricorda con tono secco il divieto di mendicare in chiesa. Uno più ligio mi chiede un euro all'uscita, mentre riempio la borraccia a una fonte accanto al campanile.
Risalgo la parte vecchia della città, tra case in pietra intonacate, cortili con bici e vicoli. Ci sono persino delle Apecar, come quelle che possedevano tutti i vecchi montanari senza patente, quando ero bambino. Niente male. Purtroppo la luce zenitale molto secca di questo giorno senza nuvole limita le mie possibilità di fotografare: mi andrà meglio al rientro, tra due settimane. Raggiungo il castello Masegra, dimora dei signori di Sondrio, attorno a cui vi era il nucleo medievale primigenio della città, sviluppatasi ai tempi della colonizzazione basso medievale delle Alpi, pur tra molte distruzioni per i frequenti conflitti del tempo. Le mostre non mi attirano, ma mi fermo a guardare i tetti da qui, che si presentano abbastanza ordinari, senza eccellenze. In fase di programmazione speravo di scattare un foto alla città dai vigneti, ma da questo lato del Mallero prevalgono gli edifici. Erano meglio i vicoli visti da dentro.
Esco dal centro abitato per una strada abbastanza trafficata, con vista su ripidi vigneti a monte del castello Masegra, in parte strutturati secondo l'antico sistema del rittochino, la disposizione dei filari lungo la linea di massima pendenza. Quando nel basso Medioevo si cominciò ad arare le colline, fu il primo metodo utilizzato, ma poi fu sostituito dai ciglioni e dai terrazzamenti con muri, che proteggevano maggiormente dall'erosione. Tra loro e il castello si stende un grande impianto industriale dimesso, apparentemente novecentesco, dall'architettura. Mi domando se sia il grande cotonificio da 2600 dipendenti citato dal Bagiotti; la localizzazione fu scelta per la disponibilità del “carbone bianco”, com'era detta allora l'energia idroelettrica. Molti considerano erroneamente le Alpi un santuario della natura, peraltro attribuendo erroneamente connotati naturali all'agricoltura e alla pastorizia, quando in passato conobbero molto presto l'industrializzazione, per una serie di fattori concomitanti. Un primo era la cronica eccedenza di forza lavoro prodotta dall'attività agricola, che portava a generare molti figli per collaborare nel lavoro dei campi, a cui il territorio non poteva offrire sostentamento da adulti, destinandoli perciò all'emigrazione permanente. I fattori fisici erano due. Il primo era la vicinanza con le miniere, accanto a cui erano già nate attività proto-industriali nei secoli precedenti. Il secondo la disponibilità di energia idroelettrica, che all'inizio non poteva essere trasportata su grandi distanze: ad esempio, ad Ardenno fu edificato uno stabilimento per la lavorazione dell'alluminio, un'attività ad altissimo consumo di energia elettrica. L'industrializzazione si limitò comunque solo alle grandi valli di transito, non raggiungendo mai le zone impervie come quelle che visiterò nei prossimi giorni. Prima dell'industria il medesimo ruolo fu svolto dall'attività estrattiva, che ad esempio già nel Settecento il re di Sardegna aveva promosso proprio con questo scopo.
Con l'industrializzazione ottocentesca nacque la figura del contadino operaio a tempo parziale, che svolgeva ambo le mansioni. Precedentemente i lavori dei campi erano affidati principalmente a donne e bambini, mentre gli uomini, se non lavoravano nelle miniere o nell'indotto, svolgevano mestieri girovaghi o emigravano la maggior parte dell'anno. In un libro, mi ha colpito la foto di emigranti, rientrati per le vacanze, accanto a un «fiammante Ford Taunus» con targa tedesca. Grazie all'industria, metà della forza lavoro arrivò a essere impiegata nel settore secondario. Con il progredire del Novecento, i fattori favorevoli vennero meno: grazie agli studi di Tesla, furono inventate la corrente alternata e l'alta tensione, che permettono il trasporto dell'energia elettrica su grandi distanze con dispersioni minime; il miglioramento dei trasporti rese disponibili risorse minerarie di territori lontani, estratte in condizioni meno disagevoli che le alte montagne; con il boom economico del secondo dopoguerra e l'abbandono venne meno la disponibilità di forza lavoro. Tuttavia a questi si opposero dapprima variegati fattori politici, che mantennero viva l'industria montana, seppure nella forma di filiale di imprese della pianura e non come imprenditorialità alpina. La crisi industriale degli Anni Ottanta ebbe effetti disastrosi su queste filiali secondarie. Ciononostante le Alpi sono tutt'ora industrializzate, anche più delle pianure, perché nel frattempo sono rimaste più arretrate nel processo di terziarizzazione dell'economia.
Un aspetto che mi urta molto di questo impianto è tuttavia la bruttezza. Nell'Ottocento gli impianti industriali presentavano un'architettura molto curata, tanto che spesso, dopo la dismissione, sono stati recuperati e destinati ad altro scopo. Invece quasi tutto ciò che è stato costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale è desolato e triste, come se si fosse perso il senso dell'utilità e del benessere sociale che questi impianti portavano, il senso del futuro che rappresentavano, e si fossero ridotti a puri scatoloni dove produrre reddito.
Di qui a Cagnoletti percorrerò prevalentemente la vecchia strada della Valmalenco, risalente al periodo asburgico; la nuova corre invece sul lato opposto del Mallero. Purtroppo i vigneti più fotogenici sono proprio lì, a valle del santuario barocco della Sassella, per cui mi devo accontentare. Poco più a monte, dove lascio l'asfalto per una pista, ce n'è uno, ma ordinario, da collina più che da balza scoscesa. Attraverso poi un borgo di casette. A Sondrio c'era qualche grande villa, mentre qui sembra più un dormitorio per gente qualsiasi. Sono poste in una zona dove la valle cessa brevemente di salire in maniera ripida (è un po' bassa per essere già la spalla glaciale della lingua valtellinese); sto infatti risalendo il tipico salto di una valle glaciale sospesa, successivamente eroso dal torrente. A Ponchiera evito di fare una pausa sul muretto accanto alla chiesa, pentendomi della scelta per il lungo tratto successivo, che non offre punti comodi di riposo. Per fortuna trovo almeno delle fonti. Tra le casette, noto una cima di roccia bianca tra varie altre alla testata della valle, ma non trovo nessun vecchio a cui chiedere i nomi. Scoprirò in seguito che è il pizzo Tremogge, alla cui sommità si è preservato un lembo della copertura sedimentaria di calcare e dolomia, sovrapposta al lembo marino del continente paleoeuropeo.
Mi allontano dagli edifici su una pista nel bosco bordata di muri a secco, tra alberi ancora di pianura. Scendo quindi alla carrozzabile per Arquino, che seguo fino alla frazione, transitando a monte di una centrale idroelettrica, le cui condotte forzate calano verticali dall'alto a corrono sotto l'asfalto. Incrocio un frate in saio e sandali, che mi augura buon cammino. Ad Arquino mi faccio ingannare da un cartello che indica la vecchia strada di Valmalenco e resto sul lato sinistro della valle. È però u'indicazione ingannevole, perché porta alla strada posteriore l'asburgica, che transitava sul lato orografico sinistro. Quando, nei pressi di un masso erratico, mi accorgo che sto puntando verso la val di Togno, imbocco una pista in discesa che mi riporta sulla retta via, nei pressi del ponte in pietra sul Mallero, detto “nuovo”, perché soggetto alle piene e ricostruito di frequente. Oggi per il transito automobilistico è sostituito da uno in cemento a monte.
Qui il torrente impetuoso ha scavato una profonda forra, dove precipita con una fragorosa cascata. «Le acque spumeggianti infrangendosi sopra enormi macigni, si elevano in nubi e pulvischi, cosicché, quando il sole è alto, formasi uno splendido arcobaleno», recita una guida di Sondrio del 1894. Non poche volte si è ingrossato a dismisura, provocando alluvioni devastanti. L'ultima risale al 1987, evento che coinvolse tutta la Valtellina ed ebbe ampia risonanza sui mezzi di comunicazione dell'epoca, con tanto di tracimazione in diretta TV di un lago. Era la terza grande alluvione novecentesca e pure il secolo precedente ne annovera una distruttiva.
Una leggenda ambientata ai tempi della Guerra dei Trent'Anni vuole che da una delle voragini scavate dal torrente si oda il tormento di un giovane di Spriana, che venne meno alla promessa fatta alla sua bella ma povera amata, dopo che le sorti della vita gli avevano permesso di avere successo nella vita e conoscere una strafiga altolocata. Lei, saputolo, corse disperata e fu trovata esanime sotto il ponte, su cui si erano promessi amore eterno; lui, dimentico, durante una battuta di caccia fu trascinato qui da un cavallo posseduto dal demonio e vi trovò anch'egli la morte. Non è dato sapere la sorte della strafiga.
Rimonto il salto vallivo su una vecchia e stretta strada, ora cementata, ma ancora bordata di muri a secco. Lungo di essa c'erano terrazzamenti destinati a vitigno, ancora in parte coltivati. In passato il loro aspetto sarebbe stato diverso, perché vi era praticata la coltura mista, ovvero erano seminati grano, segale, miglio o quant'altro tra i filari. Delle linee ad alta tensione vi corrono subito sopra e dei tralicci vi sono piantati in mezzo. Trovo un muretto all'ombra e mi fermo per uno spuntino, oltre che per bere, perché fa davvero caldo, nelle ore centrali del giorno. Intanto sulla strada principale della valle, che sto per raggiungere, transita un centro traffico di sirene, mentre su questa dei ciclisti in discesa e in salita un ragazzo senza zaino a passo doppio del mio. Da questa strada, già in disuso, transitò il principe Scipione Borghese con l'Itala vittoriosa alla Parigi-Pechino, dopo che era rimasto bloccato al lago Palù, poiché una delle solite alluvioni aveva distrutto la strada principale, che transitava sul versante opposto.
Ripreso il cammino, raggiungo e oltrepasso la strada principale, entrando in Cagnoletti alla ricerca delle indicazioni per la Scala dei Pizzi, un anello di cui percorrerò la parte superiore. Passo tra case e baite sparse, davanti a una delle quali dei tamarri romeni (il tamarrismo è transnazionale) stanno seduti all'ombra tra l'uscio e l'automobile. Mi salutano sguaiatamente. In salita raggiungo la chiesa, abbastanza dimessa, e trovo le indicazioni, insieme a un cartello che commemora chi recuperò questi sentieri ideando l'anello. Per una pista lastricata, da cui apprezzo la posizione del borgo, sul margine del salto vallivo, salgo nella parte alta del paese, al di sopra dei vigneti più elevati della valle. C'è qualche vecchia casa in disfacimento, che ha conservato uno stile retrò, invece perso da quelle moderne ristrutturate o costruite ex-novo in decenni recenti.
Dalla periferia di Cagnoletti a Marsciana non annoto molti appunti. Ricordo soprattutto il sentiero assai rovinato e spesso invaso, scarsamente marcato da scoloriti bolli rossi (i segnavia CAI sono quasi assenti). Pertanto tra le baite diroccate di Scervera poso lo zaino ed estraggo il cellulare, per attivare il GPS e controllare se il sentiero è davvero sotto il mare di felci che sto faticosamente fendendo, oppure se mi sono perso. Sarei pronto a scommettere sulla seconda che ho detto, ma incredibilmente sono sull'invisibile strada giusta, senza sapere come ho fatto a restarci. La tensione nervosa mi impedisce di liberare la mente, per fotografare questo mare di felci e abbandono, che meriterebbe invece una documentazione. Sono demotivato e pentito di essere salito di qui, anziché puntare direttamente ai Pizzi per la scala, via scartata perché le case e la vista di Marsciana mi sembravano preferibili, dalle foto viste. Nonostante cammini quasi sempre all'ombra del bosco, sudo anche dietro le orecchie. Stranamente non raccatto zecche, contro i prognostici della proprietaria del mio ricovero serale; sul libro di un naturalista lessi che negli anni secchi come questo muoiono presto disidratate mentre aspettano l'ospite appese ai rami.
A monte di Scervera la vegetazione invasiva si sfoltisce, ma il fondo del sentiero resta sempre molto rovinato e poco tracciato. Per fortuna la via è unica, per cui non rischio di smarrirmi su questo versante assai scosceso. Noto dei faggi, che non credevo di poter vedere qui, perché sono in una valle delle Alpi interne, con clima più continentale. Dopo un tempo che mi sembra infinito, ricevo conferma di essere sulla retta via oltrepassando un paio di bivi segnalati, prima dei quali avevo di nuovo avuto le tentazione di estrarre il GPS. Sto sempre arrancando per l'erta salita, ma sudando meno per la temperatura più fresca, anche se ormai la disidratazione e lo stiramento dei muscoli sono tali da innescare un crampo a un piede. Mi impongo di non guardare quanto dislivello manca ancora sull'altimetro.
Un ultimo traverso mi porta alla radura di Marsciana, dove improvvisamente si apre il panorama su Sondrio e le Orobie e su alcune montagne dell'alta valle con ghiacciai. Sono due panorami contrapposti, che possono dare impressioni opposte a seconda del verso di marcia: se arrivassi dall'Engadina, mi troverei proiettato nel mondo solatio del Sud, mentre per me è il primo sguardo sui ghiacciai che quasi calpesterò tra una settimana. L'alpe è anche sul confine tra le vedute aeree degli ampi ma affollati spazi del fondovalle valtellinese e le vedute più ristrette e solitarie della Valmalenco. Ad essere pignoli non è ancora l'arrivederci definitivo, perché domani dal Sasso Bianco ancora mi affaccerò su di esse, ma il panorama successivo, alla prima radura, sarà più rappresentativo di ciò che mi aspetta nel corso del viaggio.
A monte del sentiero una vecchia signora è seduta su una sdraio accanto all'unica baita ristrutturata, circondata da un prato in forte pendenza ben rasato. Mi saluta e mi chiede se sto percorrendo l'anello dei Pizzi. Questa epifania così domestica, al culmine di di un salita assai penosa e di un ambiente invero selvatico, supera in surrealtà il frate scalzo. Una volta ascoltai la testimonianza di un vecchio alpinista che aveva compiuto una prima invernale molto difficile sul Pillar Gervasutti del Monte Bianco, con bivacchi appeso e tormenta, finché, spuntato in cima, aveva incontrato una persona: ricordando le sue parole, ancora cinquant'anni dopo si mise a piangere.
Pranzo alle 15 sotto un cielo che si va velando, al riparo di una baita e sotto un ciliegio. Mi viene da chiedere se qui i frutti maturano. Mi rivolgo alla baita, dove nel frattempo è apparso il marito, e di lì mi invitano a salire. Sorseggiando un gradito quanto inatteso caffè, ci mettiamo a chiacchierare. Lui è del posto, mentre la moglie è originaria di Sampeyre, ai piedi del Monviso, e in paese mi indica anche un ristorante gestito da una cugina. Ha anche un parente frate in un monastero a Monterosso, alle Cinque Terre.
Vedo dei funghi in un cesto e chiedo loro come hanno fatto a trovarli con questo secco. Mi dicono che in anni normali riempiono una cassetta di frutta con funghi già seccati. Mi spiegano che le cime innevate sono il gruppo del Bernina e da qui con il binocolo vedono la Marco e Rosa, la base di partenza per il 4000 e la fila di alpinisti, che ogni giorno lo salgono a frotte. Il discorso da qui scivola sulle temerarie imprese sciistiche del gestore, conosciuto con il soprannome di Bianco. Il signore ha invece terrore dei ghiacciai: da bambino si divertiva a scivolare sulla lingua terminale della vedretta, che allora arrivava al margine degli alpeggi, ma il nonno l'aveva messo in guardia dal rischio che sotto ci fossero dei buchi, da cui non sarebbero riusciti ad estrarlo in caso di cedimento, e da allora è rimasto scosso e li evita.
I signori mi chiedono poi il favore di sintonizzare il decoder della TV, perché non ricevono più i canali Mediaset. Avendolo già fatto per la mamma, mi metto a cercare le medesime funzioni nel menu: cancello tutti i canali e avvio la sintonizzazione automatica. L'operazione riesce, ma i canali agognati continuano a latitare. Ricordo di aver letto da un titolo che Mediaset ha disattivato dei ripetitori in montagna, sarà quello. La mia inutilità si accresce quando non riesco a togliere una notifica dal cellulare, perché dovrei liberare memoria, ma ho il terrore di cancellare qualcosa di importante. Da qui parte una nostalgica rievocazione dei bei tempi in cui bastava alzare la cornetta per parlare e attaccare l'antenna per ricevere la TV. A casa di mia zia bisognava anche aprire i cassetti del comò sottostante in una ben precisa combinazione, ad essere pignoli. In tutto questo mi scordo completamente di chiedere del ciliegio.
Accomiatatomi, lascio l'alpe per un prato e poi per lariceti, tra fioriture di campanule viola, sempre con vista sulle alte cime a ora anche sui paesi della media valle. Scendo quindi a una pista cementata per Pizzi, dove ripenso all'incontro. Prendendola in salita, giungerei al maggengo dei Piasci, dove passerò domani. In passato qui operò un rifugio, in cui mi sarebbe piaciuto soggiornare la prima notte, ma purtroppo da qualche anno è chiuso. Giunto alla borgata, chiedo informazioni sul sentiero per Musci a una ragazza con un neonato in braccio, che gira la domanda alla nonna, perché evidentemente lei non cammina. Questa, incerta se il sentiero sia pulito, mi manda ad ogni modo alla cappella, dove lascio un obolo agli dèi della montagna come buon auspicio per il viaggio. Il sentiero scende nel fitto bosco, con bei tratti scalinati: mi domando perplesso perché mai abbiano segnato e promosso la Scala dei Pizzi tra qui e Cagnoletti, che dalle foto sembra un passaggio breve e abbastanza amorfo, anziché queste bellissime scalinate.
Sbuco su una stradina nei dintorni di Musci, con vista su una chiesetta, delle arnie multicolori e alcuni paesi a monte. Mi inoltro tra le case per cercare il sentiero per Prato e raggiungo una rustica cappella parecchio malandata, edificata di fronte a un masso coppellato. Tra vegetazione invasiva e multiple tracce, mi infilo nel recinto di un cavallo, alla vana ricerca del sentiero, riportato sulla mia cartina 1:50.000, ma non su openstreetmap. Tornato sui miei passi, chiedo a una signora intenta a prendere il sole, che mi indirizza oltre degli orti. Noto che ai margini del paese, dietro la cappella, la mulattiera è stata completamente invasa dalla vegetazione, per poi riprendere, non segnalata né indicata, poco a valle. Imbocco quindi un bel sentiero tra muri a secco e grandi massi morenici, che più in basso finisce su una pista erbosa, in corrispondenza di un gruppo di arnie.
Scendo al ristorante, sulla strada di fondovalle. I titolari, che camminano e conoscono molto bene la valle, mi chiedono i più minuti dettagli dei miei progetti e mi offrono consigli su dove alloggiare e dove annunciarmi come loro amico. Non sempre li seguirò, ma apprezzo molto l'affetto. Mi raccontano della ∇UT, il trail della valle, previsto per fine mese. Dalle loro parole, mi rendo conto di aver sbagliato degli accenti tonici e soprattutto che molti rifugi sono declinati al femminile, perché, come scoprirò andandoci, in origine erano chiamati capanna.
La stanza è ampia e essenziale. Dopo la doccia, rigorosamente fredda, mi concedo una cena tipica con pizzoccheri e bresaola, tanto per cominciare bene. La gestione è completamente familiare, perché la cameriera è la figlia, che studia lingue all'università. Il servizio è celerissimo e i prezzi molto convenienti. Lungo la strada c'è traffico anche serale, ma crollo lo stesso subito nel sonno.
Galleria fotografica
❮ ❯
© 2008-2024
Sergio Chiappino
Questo opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.