Crest - Champorcher
Colle della Fricolla
11 luglio
Diario di viaggio
La tappa più lunga. La salita si snoda attraverso il vallone di Brenve, selvaggio e pochissimo frequentato, lungo una mulattiera molto curata e poi un sentiero, per una successione di alpeggi. Invece il vallone della Legna a valle di St. Antoine nei giorni festivi è più turistico, anche se nel tardo pomeriggio di un giorno feriale di luglio non ho incontrato escursionisti. Sopra il limite delle vacche, fioriture coloratissime.
Quando a colazione vedo il proprietario del ristorante in canotta, calzoncini e scarponi, gli chiedo se va a fare un'escursione. «No, vado al lavoro», mi risponde. Monta tetti in lose. Non è certo la divisa delle persone che vedo lavorare nella mia città. La moglie e il figlio adolescente si occupano invece del ristorante e del dortoir. L'uomo che va a lavorare fuori e la donna con i bambini che cura la casa è un'inveterata tradizione delle montagne. Una volta gli uomini andavano lontano, anche all'estero, e le donne con la prole seguivano gli animali all'alpeggio; oggi questa famiglia continua il modus vivendi tradizionale, ma per loro fortuna in condizioni meno gravose. Ad ogni modo, entrambi alle 6 sono già all'opera.
Il primo tratto di salita segue una mulattiera lastricata, che a tratti è bordata di lose e lungo cui sono state edificate alcune edicole votive. Mi colpisce in particolare una, dentro cui ci sono dei dipinti di fattura ingenua che raffigurano l'Agnus Dei. A fianco della mulattiera ci sono anche carpini e frassini monumentali. Più avanti la pendenza aumenta e guadagno quota con dei tornanti. Un traverso passa ai piedi di una parete da cui cade una cascata di goccioline, che finiscono sul sentiero, rinfrescandomi. C'è anche una corda, ma non strettamente necessaria, perché il sentiero è ampio. Da qui vedo anche la parte del Rosa che chiude la valle di Gressoney, perché questa mattina il cielo è limpido. La mulattiera sfrutta quindi una cengia e sale ora tra i larici. Faccio la prima pausa presso le baite di Miallet, accanto al tipico frassino monumentale, che normalmente era piantato negli alpeggi di bassa quota, per foraggiare il bestiame negli anni magri. Intanto il cielo si è velato. Anche per oggi è prevista un po' di instabilità.
Più a monte passo accanto a una prateria di epilobi, vicino a un torrente che scende da una gola. Trovo poi un piccolo alpeggio arato dai cinghiali e passo dall'ampio pianoro su cui sorge il villaggio di Brengole d'Arby, dove l'albergatore ha una casa. Brengole è su un conoide di deiezione, una zona dove si sono accumulati detriti franati, che poi sono stati vegetati, mentre il pianoro è nato da uno sbarramento glaciale, che ha formato un lago poi colmato. Il cielo intanto si sgombra di nuovo. Come sempre negli alpeggi, la traccia si fa più incerta e le segnalazioni appena sufficienti. Mi tocca ora superare un gradino vallivo, poiché devo entrare in un vallone pensile, una tipica morfologia glaciale, di una lingua più piccola, con minor forza erosiva, che confluiva nel ghiacciaio più grande, che ha scavò il vallone di Brenve. La salita è abbastanza ripida, a tratti anche su pietraia, e accolgo perciò con sollievo la vista della vegetazione nitrofila, come il Rumex alpinus, qui chiamato lavasse, e il veratro. Annuncia l'alpeggio sul ciglio vallivo, Breuil, dove ho in programma una pausa consistente.
Il tetto della baita sta per crollare: penso che alla prima nevicata scoccherà la sua ora. Sul margine della pietraia sono meglio conservate alcune balme, che servivano per conservare il formaggio, grazie alla frescura garantita dall'inerzia termica dei grossi massi a cui erano appoggiate. Sul bordo del precipizio c'è una piccola edicola votiva con una statua della Madonna Nera, venerata nella vicina Oropa. Da qui la vista spazia dal sottostante Brengole fino al monte Mars.
La successiva salita al colle della Fricolla sarà uno dei momenti più faticosi del viaggio. Le due levatacce, la due salite infinite, l'afa opprimente di ieri si sono accumulate e si assommano alla pietraia che devo affrontare nell'ultima ora e mezza. È un lascito del periodo post-glaciale, quando venne meno la pressione sulle pareti di roccia delle cime, che crollarono. Per fortuna il tracciato nella pietraia è sistemato; non devo pertanto saltare di masso in masso sperando di non finire su uno mobile, ma “solo” alzare continuamente le ginocchia fino al petto, per superare i gradoni di massi. Un po' di velature mi dispensano dal salire sotto il sole a picco, riverberato dalle rocce chiare. Il percorso è ben segnalato da continue tacche gialle, cosicché il venir meno della lucidità non mette a repentaglio l'orientamento. Tuttavia non vedo il bivio per il lago Cornuto né l'edificio che ci dovrebbe essere in quel punto, secondo la cartina. Riesco almeno a percepire i fischi delle marmotte dai prati e i richiami dei gracchi sulla parete che mi sovrasta. Sul sentiero noto escrementi di camoscio, ma non ne vedo nei prati circostanti. L'ultimo tratto è davvero eterno, tanto che avrò l'impressione di aver camminato un'ora in più del tempo reale, dall'ultimo alpeggio.
Dal colle vedo la Tersiva, una cima di oltre 3500 m tra Cogne e Aosta, e la Rosa dei Banchi, un tremila dell'alta valle di Champorcher, presso cui passerò domani. Sono cupe per le nuvole che si vanno addensando. Faccio una lunga pausa. La calura è piacevolmente scemata, grazie alla brezza del colle.
Il primo tratto di discesa è di nuovo su pietraia sistemata, non rognosa. Ogni tanto devo superare qualche piccolo nevaio. Le nuvole si sono addensate sempre di più e ora scaricano qualche debole rovescio. Indosso il coprizaino, ma non la giacca, perché le poche gocce si asciugano subito: non vale la pena di ripararsi, perché patirei solo il caldo. Solo all'arrivo noterò che l'altimetro al colle segnava, come quota massima dell'escursione, una ben più alta di quella effettiva; meno male, mi sarei preoccupato per un nonnulla. Qui un temporale sarebbe stato ben più ansiogeno che tra i boschi di Retempio, in assenza di alberi e ripari. Scendo senza particolare interesse per l'ambiente brullo, fino a quando finisco in una zona di rocce montonate e rododendri in parte fioriti. Qui ricomincio a scattare qualche foto. Due guadi successivi su un ruscello non pongono problemi. Lungo l'Alta Via, i pochi guadi sono tutti facilitati, ma è più comune che ci siano ponticelli di legno. Noto per caso una parete strapiombante sopra di me, sotto cui proliferano gli ontani. Per caso perché ero più concentrato a osservare i pianori erbosi a valle.
Cominciano le fioriture: prima un giglio martagone e un'enorme Aquilegia alpina, la variante di aquilegia che cresce nei prati di alta quota, a differenza di quella più comune che cresce nei sottoboschi ricchi di humus. Credevo fosse diffusa solo fino alle Alpi Liguri, ma evidentemente era un falso ricordo, perché è endemica di tutte le Alpi occidentali. Seguono poi dei prati rosa, tappezzati di Persicaria bistorta, quel fiore rosa molto comune, formato da una piccola pannocchia di minuscoli fiorellini, in cima a uno stelo lungo. È una distesa infinita, che dura per dieci minuti buoni di cammino. Arrivo quindi a una strettoia, dove un ponte supera il torrente. Subito prima, svoltando attorno a un masso, sorprendo una marmotta a un paio di passi da me; schizza via a tutta velocità e va a rifugiarsi nella tana. E se fossi stato una volpe? Tra l'altro proprio qui vedo esattamente un'escremento di volpe pieno di pelo…
La valle si allarga di nuovo. I fiori finiscono, perché entro in una zona di erba brucata e, poco, dopo, mi imbatto in una mandria di vacche sdraiate, intente a ruminare. Attraverso una distesa di loro escrementi e sono a St. Antoine, un'altra strettoia dove c'è un'edicola votiva. Intanto è spuntato un bel sole, che mi invita a fare qui la pausa merenda, immerso in una piacevole indolenza.
Uscita dal pianoro, la mulattiera supera una strettoia e scende subito ripida accanto a una cascata e pozze verdi. Lontano intravedo il Rosa e il Cervino imbiancato, seminascosti tra le nuvole, che sono tornate anche qui. Sotto i miei piedi, invece, noto delle rocce ofiolitiche (aka pietre verdi). Il vallone della Legna, per cui sto scendendo, si trova sul confine tra due falde di roccia di origine diversa: sul versante destro, gli gneiss della placca africana, che ho incontrato finora; sul sinistro le rocce vulcaniche della placca dell'oceano oggi scomparso, che scontrandosi con la precedente, ha dato origine alle Alpi Occidentali. Queste ultime sono ricche di minerali; mi ricordavo che in questo tratto c'era una fessura della roccia in cui si vedono degli aghi di magnetite, ma non riesco a riconoscerla.
Supero un pianoro dominato da un picco arrotondato e fratturato e scendo di nuovo tra larici e felci, un probabile pascolo a larici, oggi abbandonato, dove si è avviato il processo che lo trasformerà in un lariceto a rododendro o ginepro. Arrivo al pianoro di Ourty, dove c'è un alpeggio. Faccio una deviazione per vedere il forno del Seicento dove veniva lavorato il minerale di ferro proveniente da una miniera nel vallone di Vercoche, ma non riesco a trovarlo, anche se riconosco il masso a cui era appoggiato. Possibile che sia andato distrutto? Attraverso poi il piano, dove degli spruzzatori stanno bagnando l'erba appena brucata dalle mucche. Nel prato sono ancora riconoscibili i solchi dei ru con cui una volta lo si irrigava per allagamento; oggi la tecnologia è cambiata.
La mulattiera lastricata prosegue in un ambiente ameno, di lariceto misto ad abeti rossi. È insolito trovare queste ultime conifere in una zona di pascolo, perché in genere sono state sostituite con i larici, che stabilizzano ugualmente il terreno facendo meno ombra ai prati. A Porte, dove c'è un frassino monumentale, lascio il vallone e prendo il sentiero che affronta le pietraie del Monpey, un ammasso di enormi blocchi di serpentinite, che domina l'abitato di Outre l'Eve. Temevo questo tratto, perché comporta dei saliscendi, che sono sempre faticosi, dopo otto ore di cammino. Tuttavia la pausa a St. Antoine mi ha restituito le forze. Sono però stanco mentalmente e faccio fatica a prestare attenzione ai dintorni. Mi godo il panorama dal tratto esposto protetto da una staccionata, traverso nel bosco, ammiro un masso ricoperto di semprevivi, finché esco dal sentiero per ammirare la Goilli di Pourtset (pozza del porco, in patois), una gola del torrente Ayasse con rapide, cascata e una vorticosa marmitta dei giganti, come suggerisce il nome. Nei dintorni stanno campeggiando dei ragazzi francesi.
L'ultima rampa mi porta al nuovo ponte a schiena d'asino, da cui accedo ai campi sportivi, dove c'è una colonia di ragazzi. Il frisbee incastrato tra le rapide della Goilli dev'essere loro. In breve sono al capoluogo di Champorcher, dove c'è l'albergo. Mi fermo però prima alla fontana, perché un litro e mezzo di acqua è stato appena sufficiente. Dopo cena vado a fare un giro alla chiesa, dove ci sono delle targhe che ricordano dei religiosi illustri che hanno servito qui o sono legati a Champorcher. Il più noto è l'abate Pierre Chanoux, che fu rettore dell'ospizio del Piccolo San Bernardo, fondò un giardino botanico e promosse l'esplorazione delle Alpi. Dopo una tappa di otto ore seguita da una di nove, mi sento tutto anchilosato e mi muovo goffamente. Per fortuna un buon riposo basterà a rimettermi in sesto.
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Sergio Chiappino
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