Torre Santa Maria-Piana d'Airale
Val Torreggio
10 luglio
Diario di viaggio
Con questa tappa supero un gran dislivello, passando dai paesi di fondovalle alle praterie alpine e agli alpeggi, che nelle prossime tappe saranno la quota minima di pernottamento. Tecnicamente semplice, è invece fisicamente impegnativa poiché quasi interamente in salita, anche se la pendenza è costante e alla fine la tappa non è così lunga.
Al ristorante sono così disponibili da darmi la colazione molto presto e offrirmi uno strappo in auto fino a Torre Santa Maria, risparmiandomi qualche inutile chilometro su asfalto. Lasciandomi, la signora mi chiede anche di mandarle degli aggiornamenti, cosa che farò ogni tanto. I gestori rinunciano anche al guadagno domenicale, per andare a trascorrere la giornata al Dosso dei Vetti, un alpeggio sulle pendici del monte Motta, dove hanno una casa.
Per prima cosa, non riesco neanche oggi a fare una buona azione, perché non ho da cambiare 5 € in moneta a una famiglia, che evidentemente deve pagare il pedaggio per la strada dei Piasci. Faccio poi due passi per il paese. La chiesa è dedicata a Maria nascente. L'episodio, rappresentato in forma di dipinto sulla facciata, è contenuto solo nei vangeli apocrifi dell'infanzia di Gesù, ma è entrato nel culto cattolico. D'altronde la stessa Madonna ha un ruolo centrale in questa confessione cristiana, pur meritando solo brevi cenni nei vangeli canonici, perché ha finito con l'avocare a sé precedenti culti animisti e anche i movimenti millenaristi e contattisti cattolici si esprimono attraverso il suo culto. Di fronte alla facciata è raffigurata la Deposizione su un pilone votivo. Attraverso quindi dei vicoletti tra case rivestite di cemento grezzo.
Imbocco la strada per Ciappanico, da cui vedo le indicazioni della ∇UT dirette alla mulattiera lastricata, che taglia i tornanti, purtroppo a volte sommersa dai rovi e impraticabile, per cui tocca seguire l'asfalto. Balzanamente, l'Alta Via parte da un posto dove si arriva solo in automobile e dove non c'è una gran disponibilità di parcheggio e finisce in un punto diverso. Secondo me, avrebbe più senso farla partire e arrivare alla fermata di un mezzo pubblico. Arrivo così alla parte moderna di Ciappanico, edificata dopo che una frana aveva colpito il nucleo antico. La parte nuova è formata da casette semplici. Non riesco a capire dove fosse l'osteria, che operò qui fino a quando lo spopolamento non la costrinse a chiudere. Durante l'era contadina, i centri a mezza costa ben esposti erano i principali, per le condizioni favorevoli alle coltivazioni, mentre con l'era delle automobili e del turismo il centro si è spostato verso il fondovalle meglio connesso.
Risalgo del bosco di latifoglie, costeggiando un grande muro a secco con i classici gradini di piode a sbalzo, che in certi posti meritano anche un nome proprio, per risalirlo e raggiungere i campi. Anticipata da alcuni grandi noci, la parte vecchia di Ciappanico si presenta ben tenuta ed è in stile più tradizionale montano della parte bassa moderna. La frana pare essersi arrestata e non ci sono più le case con i muri inclinati come nelle foto d'epoca. Riesco anche fotografare una cucina e non so cosa darei per leggere il giornale abbandonato lì dentro da chissà quando. Intorno le frane fanno una certa impressione: nei discorsi da rifugio, tra qualche giorno uscirà il luogo comune secondo cui le montagne sono sempre lì e io mi ricorderò di questi paesaggi. In cielo invece compare un velatura iridescente, che vedo oggi per la prima volta in estate.
Si tratta di nubi, in genere alte e sottili, colorate a bande anziché bianche. Come si può immaginare dalla rassomiglianza con l'arcobaleno, le striature colorate sono dovute alla diffrazione della luce tra le gocce d'acqua o le particelle ghiacciate (nelle stagione fredde) della nube. Nel caso di nubi con grandezza angolare ridotta, si formano quando le gocce vicine al bordo della nube stanno evaporando, per cui sono più piccole e disperdono perciò la luce diversamente da quelle più centrali, da cui la differenza di colore. Sono relativamente comuni, ma non è facile accorgersene, perché così vicine al sole possono essere troppo luminose e apparirci pertanto di un bianco slavato (inoltre fissare oggetti particolarmente brillanti può danneggiare la vista). Se invece le velature sono più gradi e uniformi e occupano tutta la zona attorno al sole, si può vedere un intero arcobaleno circolare attorno ad esso, detto corona. In questo caso le particelle sono più uniformi ed è l'angolo che le separa dal sole a determinare l'iride, come nel caso dell'arcobaleno.
Il sentiero prosegue molto ben costruito in un bosco selvaggio, quindi è interrotto da una grande frana, abbondantemente vegetata da piccoli larici, dove prosegue come traccia. L'ambiente, essendo ormai stabilizzato, non sarà forse terrorizzante come i torrenti glaciali che vedrò nel vallone di Scerscen, ma non è nemmeno rassicurante. Oltre la frana è stato risparmiato un gruppo di baite, dove il sentiero riprende a salire in un bosco di latifoglie, molto caldo per il sole che mi ha raggiunto dopo Ciappanico: anche oggi mi tocca una bella sudata.
Sbuco successivamente sui prati dell'alpe Son, dove un signore sta estirpando dei cespugli a beneficio del pascolo delle vacche. L'attributo alpe è improprio, in quanto si tratta di un maggengo per le stagioni intermedie e non di un alpeggio estivo. Mi fermo a bere alla fontana, presto seguito da un ciclista, che attacca bottone con il montanaro, quando mi allontana. Mi supera intanto un trailer canuto vestito di rosso. Attraverso dei prati bordati di lunghi e bassi muri a secco, rientro nel bosco ora di conifere, dentro cui scendo a un torrente. Riprendo a salire su un sentiero sostenuto da muri a secco, in un ombroso e fresco bosco di abeti rossi. Ad un certo punto è quasi interamente occupato da un gigantesco cumulo di aghi di abete rosso, nido delle formiche rufe. Annoto che è alto due metri: a rileggerlo non mi sembra vero, forse era solo l'impressione del momento, o forse ancora non mi capacito di quello che ho visto. In una foresta vetusta, questi nidi possono arrivare ad avere una massa di una tonnellata per ettaro. Pur essendo una piccola frazione della biomassa totale, rispetto alle parti contenute nel suolo e nella vegetazione, contribuisce in maniera significativa al flusso dei nutrienti, quali fosforo, azoto o calcio. A causa della luce secca e dei forti contrasti tra l'ombra degli aghi e la luce che filtra al suolo, non riesco purtroppo a scattare foto in questo tratto, ma lo ricordo molto piacevole.
Aggirato un costone, raggiungo i prati del maggengo dei Piasci. È un ampio spiazzo erboso, rasato quasi all'inglese, in dolce pendenza e di forma leggermente concava (magari un piccolo circo glaciale), con una chiesa e costellato di casette in pietra sparpagliate, perché qui non si viveva durante il periodo invernale e non c'era quindi il bisogno di collaborazione imposta dalla neve, che invece portava a edificare villaggi invernali compatti. Godo del secondo panorama sulle cime dell'alta valle, che comincio a riconoscere ricordando le foto della guida: un posto davvero romantico e bucolico. Davvero un peccato non aver potuto dormire qui. Molte case sembrano deserte, nonostante sia una domenica di luglio. Mi siedo all'ombra davanti a una di queste, presso una fontana, facendo caso alla gente che arriva alla spicciolata dal parcheggio della strada a pagamento, nel bosco di fronte al prato; quasi nessuno si ferma qui, ma gli escursionisti si dividono tra chi prosegue in quota verso la Bosio e chi sale per la mia via all'alpe Arcoglio. Mentre mi spalmo la crema solare un vecchio del maggengo mi chiede se il mio grosso zaino sia pieno di panini imbottiti; purtroppo non ho la risposta pronta e biascico qualcosa di insulso.
Il maggengo, dove stazionava il bestiame nelle stagioni intermedie della transumanza, giugno e ottobre, aveva una notevole importanza, tanto che vi erano abitazioni ben strutturate. Parte della popolazione vi risiedeva per la maggior parte dell'anno, coltivando patate e le poche verdure possibili, facendo legna per l'inverno e tagliando il fieno una volta mentre le bestie erano all'alpeggio estivo. Quando si sviluppò il turismo, i ragazzi cominciarono anche a raccogliere i frutti di bosco e i funghi a beneficio dei villeggianti. Oggi, venuta meno l'agricoltura di montagna, le funzioni rurali sono andate perdute, più che negli alpeggi estivi, e sono diventati luogo di villeggiatura.
Risalgo i Piasci fino al culmine e entro in un pascolo boscato di rade conifere, soprattutto larici, ma anche qualche abete rosso e qualche cembro, che però dura poco, lasciandomi alla mercé del sole estivo sulla strada dell'alpeggio di Arcoglio. Mi è rimasto il solo cappellino a protezione. Mi mischio a una certa folla di famiglie con bambini e rilassati escursionisti della domenica, di quelli che fanno una breve passeggiata fino alla prima meta utile, senza ambizioni atletiche. All'alpe bestiame e pastori si mostrano indifferenti alla processione. Negli anni ’50 un ingegnere milanese prospettò la costruzione di una funivia diretta a quest'alpeggio, ma la raccolta fondi per finanziarla si arenò e non se ne fece nulla.
Imbocco la pista che passa in mezzo agli edifici, più spartani che al maggengo, e, presso un dosso, noto un segnavia del sentiero che la lascia, portandomi senza traccia univoca per prati un po' fioriti, perché non ancora pascolati. Presso edifici rustici, si erge una chiesetta in pietra su un dosso così panoramico sull'alta valle da meritare una panchina da contemplazione. Le cime sono però ancora lontane e piccoline.
Risalgo altri dossi di erba e pietre fino ad affacciarmi su un laghetto glaciale dallo stesso nome dell'alpeggio, sbarrato a valle da rocce montonate e circondato a monte da una conca verdeggiante, da cui arrivano continui fischi di marmotta: il migliore cliché alpino che potrei sognare. Mi fermo a pranzare, anche se sono appena le 11.30, ma d'altronde ho fatto colazione alle 6. Sono già salito un bel po', perché il contenitore di plastica del farro, confezionato in pianura, è rigonfio per la differenza di pressione con l'esterno. Attorno al lago c'è già una dozzina di persone e molte altre ne arriveranno, spesso con i cani, che si tuffano nel lago. Dalla riva anche io provo a pociare i piedi, rischiando di scivolare sulle pietre coperte di muschio. L'acqua è fresca, ma un bagno è tranquillamente fattibile per gli estimatori, tuttavia assenti.
Dopo pranzo aggiro il lago da est e risalgo il pendio erboso diretto alla cima del Sasso Bianco, ben visibile dal basso. Alla Bosio lo vedrò chiamato monte Arcoglio sulla vecchia carta militare, secondo l'usuale schema dei militari di dare i nomi alle cime, spesso lasciate senza nome dai montanari a cui non interessavano, dai luoghi sottostanti. Dal ciglio del pendio erboso più ripido attorno al lago, ho la migliore visuale dello specchio d'acqua, circondato dalla corona di monti del Pizzo Scalino e del Painale. Da queste parti termina la traccia e occorre arrancare per ripidi prati e rocce, seguendo i segnavia, tra discrete fioriture. Prima di raggiungere la dorsale con la Valtellina c'è un tratto di pietraia, poi in cresta ricompare una traccia che sale a tornantini. Sono in cima.
La vista è eccezionale, dal sottostante fondovalle antropizzato, duemila metri più in basso, fino ai ghiacciai dell'Ortles, a saperlo riconoscere. L'inverso orobico della Valtellina è molto boscoso e ha risicati alpeggi, mentre qui sotto, nel ripido vallone di Caldenno, è tutto prativo, pietraie a parte. La visione più eroica al sopraggiungere in cima, è però il versante sud del Disgrazia con le sue rocce rossastre.
Dato che da qui il cellulare prende, mentre pare che il rifugio sia in un cono d'ombra, ne approfitto per chiamare la fidanzata, che sta per immergersi nell'infuocata fornace urbana per una passeggiata con l'amica del cuore, e mandare gli auguri all'amica di mille escursioni, che oggi compie gli anni. Per l'occasione qualcuno ha imbrattato di pennarello l'ometto di vetta con la data di oggi, per cui lo riprendo con il cellulare e le mando la foto.
Ho letto su varie fonti che di qui l'Alta Via non è molto tracciata né segnalata; decido quindi di seguire il sentiero dal lago di Zana, su cui ottengo rassicurazioni da due escursionisti appena saliti di lì.
Dopo una pausa commisurata alla bellezza del luogo, in compagnia silenziosa di sparuti escursionisti, scendo a un piccolo altopiano erboso di doline di erba e rocce, senza una vera traccia, ma con molti segnavia, per poi passare a una zona più rocciosa e ondulata. Il sentiero taglia a lungo un pendio, tra i primi larici sparsi e rocce montonate, finché mi faccio improvvisamente sulla conca del lago di Zana, da cui quattro ragazzi si stanno allontanando. La conca è chiusa a sud da una parete, aperta a nord sul Disgrazia, Sul basso fondale presso la riva, vegetano quelle alghe che, se viste controluce, fanno apparire ghiacciata la superficie. Ne faccio mezzo giro per fotografare il riflesso della montagna, aspettando fino a quando la brezza cessa di increspare le acque. Se fosse stato più vicino a casa ci sarei certo già venuto a riprendere l'aurora, pernottando con il sacco a pelo.
Proseguo sul sentiero che sembra non voler scendere, e anzi risale, con vista sulle rocciose cime gemelle dei Corni Bruciati, così chiamati per le rocce rossastre. Passo dell'alpe delle Pecore, una baita rivestita di malta, ritrovo l'Alta Via e piego a U verso il rifugio, tra lo stitico fresco e la scarsa ombra di qualche conifera e vari massi erratici.
Fuori dalla Bosio c'è ancora una rappresentanza del pranzo domenicale, così come bagnanti nel placido torrente della piana d'Airale, che scorre limpido tra pittoreschi massi erratici. Vado a fare la doccia e il bucato, che grazie alla brezza asciugherà prima di notte; prendo un gettone che dà diritto a 4 minuti di acqua calda, ma lo restituirò, perché quella fredda va giusto bene. Doccia che peraltro è unica. Le stanze sono piccole e con letti molto bassi: si vede che il rifugio è di vecchia concezione, ma è molto ben tenuto e curato. Mentre poi si svuota, faccio merenda con del tè e della torta di noci. A pernottare siamo in quattro: oltre a me ci sono un italiano sessantenne e due svizzeri tedeschi della stessa età, provenienti dalla val Masino e diretti come me all'alpe Ventina. Io però non ci andrò domani, perché voglio prima fare un anello fino ai laghi di Cassandra.
Purtroppo a cena ci dispongono in tre tavoli separati e non possiamo socializzare. Mangio degli gnocchi al burro, frittata, oltre a un'insalata. Formaggio e un dolce chiudono. Buono e abbondante. Sul tardi arrivano a cenare tre ragazzi su moto da trial; sono del posto e conosciuti dai gestori. L'italiano dello svizzero che lo parla meglio, è ancora più scadente del mio tedesco, per cui chiede la colazione al “mezzo sette”, traducendo letteralmente l'espressione tedesca per sei e mezza, per cui devo spiegarlo alla cameriera, che ha ovviamente capito sette e mezza. Dopo cena leggo il libro, che ho portato nello zaino, dedicato all'osservazione dell'acqua. Mi fa ripensare con occhi nuovi alle increspature, che al lago di Zana aspettavo solo sparissero: in Oceania le loro figure d'interferenza con la barriera corallina consentivano ai naviganti di capire dove fossero gli atolli, altrimenti invisibili.
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Sergio Chiappino
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