Laghi di Cassandra
Val Torreggio
11 luglio
Diario di viaggio
Qui siamo nel dominio della gandaG. Nangeroni, La testata della val Torrreggio, 1928
Questi laghetti in una vallone sperduto mi avevano affascinato semplicemente osservando la cartina. Avevo pertanto cercato informazioni sul web e avevo visto che l'anello dalla Bosio era impegnativo, ma fattibile. Tre sentieri segnalati li raggiungono: curiosamente, due sono riportati sulle cartine cartacee e il terzo su openstreetmap.
Il nome non ha nulla di omerico, perché indica semplicemente un luogo incassato, ma gli ambienti e le vie di accesso hanno un che di epico e di avventuroso, se non altro perché sono molto remote e poco segnalate. È quasi assente la presenza pastorale, limitata anche in passato a un miserrimo avamposto in un antico lago interrato a quota 2300 m, perché la roccia serpentinica si frattura in grandi massi poco sfaldabili, che non generano terreno adatto alla crescita dell'erba.
Riprendendo il filo della citazione di Nangeroni, ecco infatti ciò che troverò: «mastodontici massi più o meno squadrati di serpentini compatti, piastrelle lenticolari argentee di clorite-scisti, lamelle isolate di bianco e compatto amianto fibroso, lastre e anfiboliti nere quasi ardesie (piode), foglietti o pacchetti sfogliettati di scisti talcosi». Tante tante pietre, insomma.
Faccio un'ottima colazione con müsli, una volta impensabile nei rifugi alpini italiani, che servivano unicamente pane, burro e marmellata. Me la serve una vecchia montanara, suppongo la madre del gestore, che già alle 6.30 è all'opera per stendere il bucato.
Dal dosso roccioso, su cui sorge il rifugio, scendo nel pianoro, oltrepasso il torrente e seguo il vallone verso monte, per il sentiero diretto al passo di Corna Rossa e alla val Masino, ultima tappa del Sentiero Roma. Il sentiero percorre il lungo piano di prato, brughiera a ginepro, massi erratici e radi larici, ma Soprattutto destreggiandosi tra pietre. Penso subito che mi piacerebbe tornare a fotografarlo nel periodo autunnale, con aghi dorati e nebbia, quando i grandi massi, perdono le loro forme definite e possono essere scambiati per giganti. Già ieri sera, prima di cena, avevo fatto una perlustrazione attorno al ponte in sandali, rimediando con una scivolata una botta al collo del piede destro, che mi rimarrà lievemente indolenzito fino a Sondrio. Mi colpisce in particolare un masso fratturato dal crioclastismo in due blocchi, separati da tre piani ad angoli retti, come se ci avesse saettato un fulmine di Zeus. La forma è talmente singolare, da meritare effettivamente un evento mitico all'origine, un po' come quel masso erratico spezzato dai diavoli addetti al tempio di Salomone, non lontano da casa mia. Ancor più fantasmagorica è la piana realtà, ovvero che insignificanti gocce di pioggia o rugiada, gelando abbiano avuto tutta questa forza ciclopica per fratturarlo. Poiché adesso è in ombra, mi riprometto di fotografarlo al rientro.
Il sentiero prende quindi a salire il pendio sulla sinistra orografica del piano, così scomodo che ogni tanto ho la netta impressione di aver imboccato un rio. Supero così un saltino vallivo, raggiungendo un altro piano, ora più roccioso. Dalle concrezioni sul fondo pietroso del torrente, appare molto evidente come il livello dell'acqua sia nettamente sotto l'abituale. Le pietraie attraversate dal sentiero sono sistemate per rendere il passaggio agevole, per cui qui qualche pastore saliva. Al bivio, ai piedi di una cascata, ho intenzione di puntare al passo di Corna Rossa, ma quando mi trovo ad attraversare subito una pietraia vergine, dove peno e sudo sette camicie, mi demoralizzo un po', avendo letto di morene “scorbutiche” nel prosieguo: ho paura di esaurire le forze e l'acqua troppo presto. Un limitatezza più psicologica che altro, perché nel breve tratto percorso riesco a districarmi senza rischiare di farmi male (e poi a breve affronterò difficoltà analoghe), ma che in fondo non dovrebbe dispiacermi: se infatti potessi affrontare tutti i monti, credo che questi terreni impervi mi verrebbero ben presto a noia, non offrendo nulla di più intenso di un comodo sentiero nel prato.
D'altronde, quando i primi alpinisti ci passarono, sorpresero i malenchi, che le ritenevano impenetrabili. Decido pertanto di tornare sui miei passi e prendere per i laghi, dove il terreno mi sembra più agevole. Se valicando il Sasso Bianco avevo lasciato gli ampi spazi della Valtellina per le più strette valli malenche, ora sono passato dalla media all'alta montagna, almeno per come è qui, e sono stato respinto. Vorrei tanto poter evocare lo spirito di Nangeroni per farmi spiegare il senso di queste distese, per leggere la natura e storia dei massi nelle striature e nelle fessure. Purtroppo le posso apprezzare solamente come espressione sublime dell'alta montagna ostile, afferrandole al massimo da un punto di vista tattile aggrappandomi alle sporgenze, posando il piede sulle punte acuminate, ma senza comprendere le ragioni per cui si presentano così. Leggere il suo scritto così concreto e inafferrabile mi trasmette la sensazione di una danza frenetica dalle note fittissime e dai continui cambi di ritmo, come “Don't you ever wash tha thing” di Franz Zappa. Più avanti mi impegnerò brevemente a cercare delle strie glaciali su qualche masso, ma senza convinzione, né peraltro grandi possibilità di trovarle, perché la superficie del serpentino è molto alterabile chimicamente dagli agenti atmosferici.
Dopo una pausa ristoratrice all'ombra di un masso, imbocco una traccia in ripida salita, tra stentate zolle erbose in mezzo alle pietre, con vista su una grande placca montonata e cime di pura roccia. Non noto l'indicazione su un masso per il passo di Cassandra, ma, seguendo i segnavia, risalgo un canalino e sbuco su un dosso, che chiude a valle una grande conca con un po' d'erba e molte pietre. Poco sotto di me c'è una rudimentale baitina, dove si può entrare solo chinandosi, costruita in pietra a secco a presidiare questo ultimo pascolo, al confine della sterile roccia: un vero alpe al termine dell'universo.
Ricordando dalla descrizione che ora dovrei scendere nella conca, ma vedendo che i segnavia puntano in alto, consulto sia la cartina che il GPS, concludendo che sono sul sentiero sulla diretta per il lago superiore. A questo punto decido di restare su questa traccia e di scendere da quella che fa invece il giro largo, passando per il lago inferiore. Risalgo dei prati seguendo i segnavia, senza traccia sul terreno, sempre per la massima pendenza. I bolli si fanno quindi più radi, alternandosi a ometti, costringendomi ogni tanto a vagare nel vuoto alla ricerca del successivo.
Molto più in alto finisco su un pianoro, sbarrato da un lingua morenica di enormi massi rossastri, tra cui mi devo infilare, balzellando tra uno e l'altro. Su un masso trovo le indicazioni per la Desio, oggi pericolante e inagibile, presso il passo di Corna Rossa, e un'altra per Cassandra, che devo seguire. La posizione del lago appare evidente già da qui. Una volta che mi sono avvicinato alla conca, lascio i segnavia e vi punto direttamente. Il lago giace ai piedi di un alto pendio di sfasciumi, che culmina con una piccola vedretta e cime rocciose, a valle è invece chiuso di uno sbarramento roccioso, alto una cinquantina di metri, che cala quasi verticale. Mi infilo con circospezione su un suo conoide, per scattare una foto al lago con lo sfondo delle cime. Il suo colore turchese contrasta con l'arancio delle rocce ossidate e il blu dei detriti di recente frattura dei conoidi di deiezione, che arrivano sulle sue sponde; analogamente la sua superficie perfettamente liscia, senza neppure un'increspatura da brezza, con il movimentato e ruvido versante di rocce e frane. Sulle vecchie cartine militari non è riportato, né ha nome su quelle recenti, perché fino a 25 anni fa la conca restava gelata tutta l'estate, mi dirà stasera il gestore. Nella cartina del 1890 qui non c'è altro che una lingua ghiacciata.
Essendo a quasi 2800 m, di erba sulle sue sponde non c'è traccia, ma qualche pianta a cuscinetto che fa dei fiori bianchi riesce a sopravvivere. Sono vegetali adattatisi all'alta quota, sviluppandosi in orizzontale, perché l'aria non è scaldata dai raggi del sole, come si potrebbe pensare, in quanto l'atmosfera è trasparente alla luce visibile e al vicino infrarosso, che costituiscono la maggior parte della radiazione solare. Questa è assorbita dal terreno, che si scalda ed emette raggi infrarossi a lunghezza d'onda maggiore, questi sì assorbiti dall'aria. Pertanto la fonte di calore viene dal basso e rasoterra è quindi più calda. Secondo l'oracolo digitale si tratta di Cerastium uniflorum, in italiano peverina dei ghiaioni, nome che dice tutto: è una pianta centroeuropea del piano alpino e nivale. Nel secolo da quando il ghiacciaio è scomparso, sembra essere l'unica riuscita a insediarsi.
Mi siedo su una pietra della riva e mi copro, perché l'aria è frizzante. Consulto la carta e capisco di dover poi rimontare la bastionata e percorrerla interamente.
Terminato il momento contemplativo, torno perciò sui miei passi a intercettare i bolli lasciati in precedenza. Il terreno è impegnativo, perché sono su roccia e devo adoperare le mani. Inoltre i bolli sono raminghi e pellegrini, per cui assai di frequente devo mettermi alla ricerca del successivo ispezionando tutte le possibili vie di passaggio, fino a trovare l'unica possibile, dove più avanti li ritrovo. Non credo che ci arrivi il flusso del turismo domenicale. Proseguo per tutta la lunghezza del lago, fino a trovare dei segnavia, ora più frequenti, che mi indicano di scendere per sfasciumi dalla bastionata, restando sempre dal lato del lago, verso monte, puntando a dei laghetti circolari del medesimo colore turchese, chiusi tra cordoni morenici di detriti nudi.
Giunto alla quota dei laghi, il terreno si fa più agevole, perché mi trovo in una zona quasi pianeggiante, su detriti fini tra massi erratici, che hanno anche inghiottito il torrente glaciale. Scaturisce dalla vedretta ormai ritirata in alto e che qui sotto ha lasciato l'imponente morena laterale della Piccola Era Glaciale, a malapena vegetata. Procedendo, mi imbatto in notevole fioriture, sempre della peverina. Giungo così dove la valle svolta ad angolo retto e perde bruscamente quota con un salto vallivo. Il ghiacciaio si arrestò qui e la sua presenza è ancora visibile dal repentino mutamento del paesaggio: finora ho seguito una valle a U quasi glabra, con un fondo piatto di detriti fini grigi. Invece oltre la curva il fondo si fa più ruvido e vegetato. Vi arrivano a sorpresa dei fischi di marmotta: non avranno molto da mangiare, ma non saranno neppure molto disturbate, in questo angolo solitario, dove anche la mia singola presenza mi sembra un'intrusione. Proseguendo invece dritto, potrei forse raggiungere degli altri laghi, ma solo dopo aver attraversato una sterminata distesa di sfasciumi, per nulla invitante; sempre concesso che riuscissi a individuarli, tra quel mare di massi informi e repellenti. Furono visitati da Marson, il glaciologo a cui è intitolato il sentiero ai piedi del ghiacciaio di Fellaria, e successivamente da Nangeroni.
Dopo una pausa per contemplare questo paesaggio quasi sterile, ma che tuttavia mi affascina, se ho la certezza di non dovermi ficcare dentro, scendo su pietrisco e un po' d'erba con fioriture, arrivando ad affacciarmi dall'alto sul lago di Cassandra propriamente detto. Certo il paesaggio non vale quello del superiore: il laghetto, oltre ad avere un livello sensibilmente sotto il normale, è ormai quasi interrato e non credo che manchino molti anni, prima che scompaia del tutto, colmato dai detriti. Come suggerisce la già citata etimologia, si trova al fondo di una conca parecchio profonda, tra placche e sfasciumi. Nangeroni fa riferimento a immissari rumorosi e spumeggianti, provenienti dal ghiacciaio soprastante, ma oggi non ve n'è alcuna traccia. Senza scendere alle sponde, traverso molto in alto, attraversando una fascia di grandi massi, che trovo davvero estenuante: nonostante ci impieghi tre quarti d'ora dalla svolta della valle, mi sembrano due ore. Devo continuamente salire e scendere tra grandi massi e crepacci, prestando maniacale attenzione a ogni passo, adoperando le mani, per fortuna guidato dai segnavia qui sufficienti. Il sito da cui ho reperito la descrizione si rivela accurato nelle indicazioni, ma molto reticente nella descrizione di questi passaggi, limitandosi a un breve cenno.
Quando ho superato la pietraia, sono esausto e prosciugato, ma a giudicare dalla cartina, non dovrebbe mancare molto al pianoro con l'alpeggio. Cerco un appoggio non eccessivamente scomodo e mi fermo a riguadagnare le forze, a mangiare un boccone e assumere i sali. Ho portato una bustina per ogni giorno di cammino e le consumerò quasi tutte. Il sole è a tratti nascosto da nuvole alte.
Passo quindi per una gola, tra altre pietraie, ma di massi molto più piccoli e pertanto decisamente più agevoli da superare, perché basta camminarci sopra. Sceso da un canalino, sono in vista del pianoro erboso con l'alpeggio, a cui mi dirigo, oltrepassando il torrente, dove si dilata ed è profondo neanche un palmo. Vado a fotografare l'alpeggio, ma non riesco ad avvicinarmi, perché le piantine di Adenostyles alpina di fronte all'ingresso sono piene di api. L'alpe è talmente marginale da non meritare neppure un nome, nemmeno sulle cartine storiche: un anello di luoghi senza nome, senza sentiero, senza nessuno in giro, dimenticati al termine dell'universo. Fino a un secolo fa, ci salivano per i pochi giorni più caldi gli alpigiani dell'alpe Airale.
Risalgo il dosso da cui mi ero affacciato stamane, ritrovo i segnavia e scendo per la stessa via di salita, senza storia. Non mi fermo a fotografare la cascata presso il bivio, come avevo preventivato, nemmeno mi accorgo del bivio per la Desio, e mi sembra persino di aver passato in cavalleria il masso spezzato, salvo poi trovarlo subito prima del rifugio. Mi accorgo però di quanto è salita la temperatura, al rientro nella piana d'Airale, quando invece ai laghi bastava un refolo o una nuvoletta sul sole, per spingermi a coprirmi. Farò un'altra doccia fredda, seguita da una merenda stavolta meno salutista che ieri, con birra e patatine.
Al rifugio ci sono un pizzaiolo della zona nel riposo del lunedì, con dei bambini piccoli e alcune donne, una delle quali è un'alpinista esperta. Sono adusi a fare giri del genere tra i rifugi. Prima di cena vanno tutti a vedere la mungitura dell'alpeggio vicino, mentre io ci vado perché mi hanno detto che da lì il cellulare prende, ma molto erraticamente in questi giorni, per cui riesco solo a inviare dei messaggi. Leggo il registro del rifugio e scopro che l'Alta Via è scarsamente frequentata, più che altro da stranieri. Gironzolando per le sale, noto un recipiente in pietra ollare cerchiato di rame tipico della valle, per la cui produzione domani vedrò un tornio ancora funzionante a scopo dimostrativo. Lo sposto in posizione consona e lo fotografo.
Arriva da Chiesa un ragazzo atletico in canottiera, con muscoli definiti e senza un filo di grasso. Chiede una Weiss. Dice ai gestori di averci impiegato 2.08 ore, quando i cartelli per gli umani parlano di 3.40. Conta di correre la ∇UT in 18 ore, che sembra essere il tempo minimo per gli sportivi non monacali. Per cena mangio pasta con il pomodoro fresco e una quintalata di formaggi.
Galleria fotografica
❮ ❯
© 2008-2024
Sergio Chiappino
Questo opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.