Peradzà - Lauson
Cogne
13 luglio
Diario di viaggio
Tappa lunga, senza eccessivi dislivelli, ma con tutta la salita al pomeriggio. Porta nel Parco del Gran Paradiso, attraverso la sua capitale, Cogne. La discesa avviene in un ambiente molto aperto e successivamente in un bel lariceto, mentre la salita lungo la mulattiera reale di Vittorio Emanuele II. Le cascate di Lillaz sono fuori Alta Via, ma conviene fare una deviazione per ammirarle. A causa della lunghezza, non sono riuscito a fare una visita al giardino botanico di Paradisia.
Dopo un breve tratto sulla sterrata di servizio al rifugio, il percorso lascia lei e i tralicci, inoltrandosi tra dossi prativi. Parte dei prati mostra evidenti segni di soliflusso, un tipo molto lento di movimento gravitativo, che a differenza delle frane, avviene pezzetto per pezzetto. Conferisce ai terreni una caratteristica forma a gobbe e gradini. Nonostante qui le vacche non siano ancora arrivate, ci sono pochi fiori, perché una nevicata tardiva li ha bruciati, come mi ha raccontato il gestore. Costeggio e supero alcuni torrenti trasparenti, quindi un avvallamento che diventa gola. La mia cartina imprecisa mi indica erroneamente di passare dall'alpe Broillot, mentre la guida e i segni sul terreno mi fanno restare sull'altro lato della valle, lungo il sentiero 13. Un suo punto è invaso da una piccola frana di massi, colati da una pietraia, ma è stata approntata una bretella alternativa. Compaiono i primi larici stentati. Questi alberi possono anche essere molto anziani, con anelli di accrescimento microscopici, perché il clima estremo li mantiene al limite della sopravvivenza e permette loro solo una crescita stentata. Spesso sono in nicchie protette dal vento e dal freddo. Il vento ha un effetto deleterio sul bilancio idrico della pianta e la può far seccare, specie d'inverno, quando il suolo gelato non consente il reintegro dell'acqua persa per traspirazione (disseccamento da gelo). Il freddo rallenta l'attività fotosintetica: se non c'è un minimo di giornate con temperature sopra una soglia critica, la pianta non è in grado di rinnovare alcune sue parti, come gli aghi. Per questo non possono fisicamente superare le dimensioni dello spazio in cui c'è un microclima favorevole alla loro sopravvivenza. Al calare della quota le condizioni migliorano e attraverso lariceto più denso, con pini cembri.
Il percorso del sentiero è molto articolato, per evitare balze rocciose e sfruttare gli spazi naturali più accessibili. Nei corsi CAI insegnano a costruirsi da soli i percorsi, con cartina e bussola, dove non ci sono sentieri, ma questo sistema funziona solo in zone con terreno molto regolare. Qui un escursionista non potrebbe mai eguagliare la conoscenza del territorio dei montanari, indispensabile per affrontare queste zone scoscese. In lontananza noto una cima con un versante erboso e piano e l'altro verticale e scosceso, la classica configurazione che i geologi chiamano a franapoggio e reggipoggio, dovuta alla diverso modo di intercettare gli strati rocciosi nei due versanti. In vista di una cascata, passo da un casotto dei guardaparco, dove trovo un'apprezzata fonte d'acqua.
Nei pressi dei due ponti sui torrenti delle Acque Rosse e Bardoney vedo un camoscio, che scappa a gran velocità. Sempre nel lariceto passo sopra a un roccia ofiolitica montonata. La foto che le scatto mi fa pensare a quanto sia difficile leggere foto che presuppongono una appropriata cultura retrostante. Un naturalista dalla natura della roccia e dall'ombra rada dei larici capirebbe subito che è stata scattata sull'arco alpino occidentale a una quota compresa tra 1500 m e 2200 m, mentre un profano potrebbe apprezzare i chiaroscuri del bosco, ma non ne trarrebbe nulla. Esiste una foto di Stephen Shore, del un parcheggio di un mall, che lui ha scattato perché un'insegna conteneva un epiteto razzista: chi non conosce il gergo americano non capirà mai il senso di quello scatto. Il sentiero si avvicina a una gola, da cui si sente salire il rombo del torrente. Incrocio intanto vari escursionisti, che salgono alla spicciolata. Sono soprattutto coppie. Vedo un bel giglio martagone su sfondo scuro e non mi esimo dallo scattargli una foto, anche se c'è luce diretta.
Faccio una pausa in un prato, dove confluisce anche una sterrata. Scendo a un canale di captazione, con uno sbarramento artificiale che crea un bel laghetto verde. Supero il torrente su un ponte e sono a una casetta molto curata. Seguono dei prati assolati appena falciati, dove il numero di escursionisti aumenta e anche quello delle cicale. Passo accanto a una gola di rocce gneissiche e poi da un punto panoramico sulla parte nuova di Lillaz, vicino a cui c'è anche un larice secolare, con tanto di targa. Facendo zig-zag perdo quota costeggiando una strada. Lascio quindi l'Alta Via, che punta dritto su Lillaz, e prendo il sentiero 13L, che passa invece dalle cascate. Qui il numero dei turisti, non più escursionisti, s'impenna, nonostante il sentiero un po' impervio. Le cascate sono molto gradevoli: l'acqua è abbondante, nonostante l'annata sfavorevole, e un salto genera anche un arcobaleno permanente. Tuttavia quelle del Rutor mi impressioneranno assai di più.
Nella parte vecchia di Lillaz stanno rifacendo in cemento una casa vecchia e stanno pure asfaltando. Senza pensarci, cammino sull'asfalto appena steso: secondo il calzolaio, saranno questi quattro passi che mi costeranno la scollatura della punta delle suole, che da qui a breve metterà a rischio il proseguimento del viaggio. Dal piazzale del parcheggio vedo il Bianco e rientro sull'Alta Via, che segue la strada fino alla frazione successiva, Champlong; qui varca il torrente e segue la pista pedonale per Cogne, nel bosco di abeti. A tratti lascio la pista per il sottostante sentiero delle ciaspole, più vicino al torrente, e sono premiato dalla migliore fioritura di epilobi del viaggio. Sbuco a Cogne nei pressi del parcheggio dei camper. Cerco subito un negozio, prima della chiusura del mezzogiorno, dove comprare un po' di frutta e verdura, per integrare i panini dei rifugi. Vado poi in un bar a mangiare un'insalatona.
L'Alta Via continua sul marciapiede a bordo strada, ma voglio fare due passi nel prato di sant'Orso. Sui prati c'è ancora l'erba appena falciata, ma la brezza ne disperde l'odore. Sulle piste pedonali non c'è nessuno, vista l'ora: sono quasi le 14. Al suo centro si erge una grande croce piantata durante una predicazione dell'Ottocento, ma la consuetudine di piantare croci nei prati strappati al bosco è molto più antica, come osservato nell'introduzione. Sul pendio di fronte c'è un bosco con una fascia completamente pelata da una gigantesca slavina, caduta dopo la nevicata eccezionale del dicembre 2008. Nelle vecchie foto del paese si vede che molti anni fa ne era caduta una analoga, fermandosi un poco più in alto. Poi il canalone era stato ricolonizzato dal bosco. Ritorno sulla strada e passo accanto alla colonia salesiana, dove trascorsi due settimane da ragazzo. A guidarci nelle escursioni in montagna c'era un prete di nome don Nino che, come unico genere di conforto, si portava tre litri di vino. Gli avanzi noi ragazzini ce li spartivamo verso fine gita. Quell'estate salimmo sul Pousset e sulla Punta Nera delle Grivola, in giornata. Lascio la strada per la pista delle ciaspole. Al nuovo sbocco sulla strada, un cucciolo di camoscio sta brucando beato sul ciglio, incurante dell'auto che si è fermata per fotografarlo. Quando arrivo io a piedi, però, si allontana di corsa.
A Valnontey vedo parcheggiato una autobus verde, accanto a cui alcuni militari guardano verso l'alto col binocolo. Salto a malincuore la visita a Paradisia, perché arriverei troppo tardi, specie se facessi la visita guidata delle 14,30. La mulattiera reale sale in un bosco di larici, che non fanno troppa ombra. In direzione opposta scende a passo arrembante un'interminabile colonna di militari, un intero corso della Scuola di Applicazione, come mi spiega uno di loro. Scende poi in ordine sparso un'infinità di escursionisti, che ha fatto la gita fino al rifugio. In un tratto fresco, all'ombra del pendio, mi fermo dieci minuti per mangiare una pesca e bere. Di qui si vedono le famose miniere di ferro di Cogne, inizialmente gestite in modo comunitario, per poi passare a una grande azienda quando ci fu necessità di modernizzarle.
Dopo un ponte, lascio la mulattiera storica, interdetta per frane, e seguo il sentiero alternativo, costruito con gran dispendio di energie e materiali. Evito le scorciatoie generate dal passaggio di escursionisti, come peraltro intimano di fare alcuni cartelli in alto, per evitare di contribuire all'erosione del terreno. Alcune fontane mi danno ristoro; anche l'aria si fa facendo più fresca, sia per l'ora che per la quota. In direzione opposta scendono due signori corpulenti, i cui zaini sono trasportati da un mulo. Dopo un ponte mi riallaccio alla mulattiera reale, superando una coppia di ragazzi; lei, in reggiseno, leggins e scarpe da ginnastica sembra parecchio seccata, mentre lui consulta nervosamente la carta. Osservo poi un escursionista con la corda appesa allo zaino, intento a fotografare dei fiori. Passo poco lontano dall'alpe Gran Lauson, non molto grande, dalle costruzioni moderne, con una gran vista sui ghiacciai degli Apostoli. Improvvisamente appare il casotto dei guardaparco, dietro a cui ci sono i due caseggiati del rifugio. Uno è interamente occupato da una colonia estiva e pure l'altro è pieno o quasi. È vecchio stile, con spazi angusti e servizi insufficienti. La gestione è aziendale ed efficiente, come del resto si conviene, visto l'affollamento. Sono tra i pochi italiani. Dopo la doccia e il bucato, ho ancora tempo per un tè. Ceno con due inglesi del Devon, venuti per la prima volta sulle Alpi in estate, dopo diverse esperienze come sciatori. Non sanno pressoché nulla di queste montagne, così posso fare un figurone con le mie conoscenze. Dopo faccio una passeggiata serale fino all'alpeggio per scattare qualche foto al tramonto. Dormo dividendo la stanza con una coppia danese e un fotografo francese.
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Sergio Chiappino
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