Piana d'Airale-Alpe Ventina
Val Sassersa
12 luglio
Diario di viaggio
Probabilmente la tappa più impegnativa di tutto il viaggio, perché presenta una salita spietata, faticosa e tecnicamente probante, da affrontare nel pomeriggio sotto il sole a picco, seguita da un'altrettanto strenua discesa, su terreno molto ripido e infido, da affrontare con i piedi di piombo. A ciò va aggiunto uno spiacevole imprevisto, che ha rischiato di compromettere la prosecuzione del viaggio.
I paesaggi sono molto bucolici nella prima parte, per poi proiettare repentinamente il viaggiatore nel modo ostile dell'alta montagna.
Dal momento che ieri sera ho scoperto la disponibilità di pomodori freschi, chiedo di farcire il panino con pomodoro e cipolla. La vecchia montanara, erede della secolare simbiosi con gli animali d'alpeggio, non si capacita che dei vegetali possano nutrire e di conseguenza lo imbottisce all'inverosimile con strati su strati di companatico, per poi lasciare a me il cruciale compito di condire con olio e pepe secondo i miei gusti.
Oltrepasso nuovamente il ponte, ma stavolta prendo verso valle un comodo sentiero diretto all'alpe Airale, dove mi fermo a fotografare le vacche al pascolo. Nubi stanno risalendo dal vallone. Proseguo su una pista in saliscendi, non riportata sulle carte, che promettono un sentiero. Mi precede un pastore, un tipo robusto con la pelle bruciata dal sole. Quando si fermerà, in una radura dieci minuti più avanti, scoprirò che è andato a vedere dei cervi, soliti pascolare al mattino poco sopra la strada, tra radi mughi; oggi però sono assenti. Mi rassicura che le nubi sono da bel tempo e mi racconta di un signore che era giro da 40 giorni con la tenda, partito da Trieste e diretto a in Germania, felice come una Pasqua. Con le vacche lui fa la spola tra gli alpeggi uniti da questa pista; non penso a chiedergli come sono riusciti a mettere a norma tutte le stalle e tutti i locali di cottura dei formaggi, perché uno solo costa già una fortuna.
Proseguo nel bosco di conifere, tagliando un ripido pendio. Mi supera un fuoristrada giapponese guidato da un signore dall'aria arcigna. Il pendio si addolcisce, il bosco si dirada e mi trovo nei pianori dell'alpe Mastabbia. La pista termina qui: ancora si vede la ruspa che l'ha scavata, per giungere a una casetta in corso di ristrutturazione, a beneficio di un villeggiante. Ghermisco tutte queste informazioni dalle laconiche risposte del signore sul fuoristrada, che è il muratore addetto alla costruzione. I lavori hanno accatastato materiali di risulta all'imbocco del sentiero, che risulta così ostruito, costringendomi a un aggiramento.
Proseguo ora per un bel sentiero in quota tra le conifere, fino a raggiungere un impluvio più spoglio, dove ci sono i resti di una miniera di talco. A valle si vedono ancora gli scarti di lavorazione, mentre più sotto tra le nubi fa capolino l'ampia radura dell'alpe Lago, che vedrò solo da qui, in quanto l'Alta Via passa più a monte. È un pianoro paludoso che prende il nome da un antico lago, ridotto a una pozzanghera a fine Ottocento e ora completamente interrato. Poco oltre, nuovamente nel fitto bosco, mi imbatto in un relitto industriale, con il grande motore della teleferica dell'area mineraria ancora in loco arrugginito. Di fianco c'è un capanno, subito oltre una costruzione in cemento quasi vuota all'interno, non fosse che per poche suppellettili residue.
Il sentiero prende a scendere in maniera decisa, tanto da farmi credere di aver imboccato per sbaglio una discesa verso valle, nonostante ci siano i triangoli gialli. Dove la pendenza cala e comincio a traversare diretto all'alpe Giumellini, che già vedo, faccio caso a uno sciaf-sciaf. Mi volto e noto che il tallone della suola destra è completamente staccato. Mi fermo e estraggo l'Attack che tengo in serbo, da quando queste medesime suole cominciarono a staccarsi durante un trek, per le reazioni chimiche indotte dal passaggio sull'asfalto appena steso. Tuttavia so benissimo che il rimedio è solo temporaneo, perché solo le colle a caldo sono efficaci con il vibram. Certo il rattoppo non durerà più di oggi: inizio a temere seriamente di dover interrompere il viaggio. Mando a casa messaggi di disperazione e mi rispondono di arrangiarmi in qualche modo, perché giù si muore di caldo. Lascio una mezz'ora una pietra a fare da peso contro il tacco e la pezza sembra efficace.
Quando riparto, mi volto continuamente a controllare che la colla tenga, fino a quando mi sento rassicurato e smetto. Attraverso delle pietraie, dai massi davvero ciclopici, dove il fondo del sentiero è molto ben lisciato. Raggiungo l'alpe, tra baite ben tenute e nessun animale, dove bevo alla fontana. Continuo a scendere gradualmente in un bosco di mughi anche selvaggio, fino a quando sbuco su un'ampia carrareccia. La lascio ben presto per un sentiero diretto al maggengo del Pirlo, che costeggia prima un laghetto verde alto un palmo. Il maggengo è curatissimo, quasi svizzero, e circondato da cartelli minatori che diffidano dall'impiegarlo per svaccare.
L'Alta Via prosegue a monte, ma voglio prima scendere a vedere, almeno dall'esterno, l'unico tornio idraulico per la pietra ollare ancora funzionante, seppure solo per i turisti. Seguo i cartelli e scendo nella valletta di un rio, che forniva la forza motrice e persino adesso sembra avere non poca acqua, tra i resti dei numerosi torni una volta operanti. Trovo finalmente il mio, che può essere osservato almeno da fermo da una finestra senza vetri. È di proprietà di Silvio Gaggi, classe 1939, ultimo erede di una stirpe di estrattori e tornitori; per impulso della madre, a cui è molto devoto, ha anche studiato le tecniche artistiche connesse alla pietra ollare e tutt'ora produce sculture, incisioni e bassorilievi.
La pietra ollare designa un insieme di rocce ricche di talco, che le fornisce le due proprietà per cui è apprezzata: la prima è la resistenza al calore e la seconda la morbidezza, che la rende facilmente modellabile. Prima che l'acciaio divenisse merce comune, queste proprietà l'hanno resa un materiale adatto alla fabbricazione pentole e di altri recipienti da cucina (ollare deriva da volla, un termine latino per bollore), che è la destinazione di quella malenca. La pietra ollare delle Alpi era già nota ai Romani, che in età imperiale sfruttavano cave nella vicina val Chiavenna, ma è soprattutto dall'Alto Medioevo che si diffonde, quando vengono meno i rifornimenti di ceramiche di importazione e, per contro, si infittiscono i legami con il mondo germanico attraverso le Alpi. Moltissimi scavi archeologici in tutta Italia hanno rinvenuto abbondanti quantità di reperti in questo materiale negli strati altomedievali, sia in contesti abitativi, in qualità di recipienti e pentole, che produttivi, ad esempio per l'industria vetraia. L'estrazione di pietre ollari di origine malenca è documentata fino da allora e si sviluppa ulteriormente sotto il governo grigione nel Basso Medioevo e in Età Moderna.
L'attività doveva già da tempo fruttare molto bene, come rivela un episodio legato alla morte di Nicolò Rusca. La leggenda, diffusa dalla storiografia cattolica conservatrice, vuole che proprio quel giorno, come monito divino, una frana distrusse un paese che si era arricchito con questa attività. La causa sembrano essere stati gli scavi per estrarre la pietra, i disboscamenti bassomedievali e i fenomeni meteorologici estremi della Piccola era Glaciale, nella forma di prolungate piogge estive, ma l'evento fu interpretato secondo gli schemi dell'epoca, che vedevano nei fenomeni metereologici avversi o l'intervento del demonio (come nel caso del processo alle streghe di Triora in seguito a una siccità) o come punizione divina per i peccati. Cantù si dilunga nel descrivere le lussuose abitazioni e l'abbigliamento sfarzoso degli sfortunati, oltre che degli eventi prodigiosi che l'avrebbero accompagnata, da una cometa ai «demonj che infierivano la procella». A metà Ottocento solo qui si contava una trentina di torni, scesi a 10 un secolo dopo. Vi era un'attività analoga in val Brutta, presso Lanzada. Oggi è attivo solo questo, mantenuto vivo a scopi dimostrativi dalla passione del suo proprietario, che però non pare avere eredi. La lavorazione è comunque ancora attiva in valle, in laboratori moderni, per oggetti di pregio.
Il lavoro del laveggiaio (da lavec, il termine dialettale per i recipienti), era molto fisico e si svolgeva in un ambiente umido e buio a causa della collocazione nelle gole dei torrenti, per sfruttare il salto dell'acqua come forza motrice del tornio. Inoltre i lavoratori erano immersi in un mare di polvere, che sul lungo periodo danneggiava i polmoni, pur essendo più tenera di quella silicea. La scena doveva essere davvero infernale, tanto che Nolli si lasciò andare all'immaginazione e paragonò uno di loro a Farinata degli Uberti, mentre si ergeva dalla fossa in cui era il tornio e a un resuscitato che rompe pietra del sepolcro e si leva. La tecnica a cipolla impiegata tutt'oggi, che consente di ricavare multiple pentole da un unico blocco, scavandole dalla più grande alla più piccola, risale già all'Alto Medioevo. L'operazione più delicata e rischiosa, l'estrazione della pentola scavando una sottile fessura sul il fondo tra il margine e il centro del pezzo, era fatta con uno strumento detto südün, da sudare (freddo).
Prima il tronco di cono in pietra doveva essere estratto dalla cava, tramite un lavoro a mano con un piccone apposito, in una mezza giornata di lavoro. Il guadagno era salomonicamente ripartito tra minatore e tornitore. Dopo la lavorazione al tornio, la pentola era cerchiata con una struttura di metallo dotata di manico, per poterla appendere al camino e manipolare. Almeno dall'Ottocento quest'ultima fase e il commercio dei lavezzi erano in mano agli uomini di Lanzada, che trascorrevano autunno e primavera come venditori ambulanti per Svizzera a Nord Italia e per questo erano anche denotati con il nome del mestiere, magnan.
Risalgo ripidamente, ma almeno all'ombra, e dal Pirlo imbocco il sentiero per Pradaccio, tra radi boschi di conifere e cespugli di mugo. Più avanti costeggio una pista molto ampia. Supero una baita e più avanti raggiungo la nuova alpe, che adesso sembra disabitata. La fontana è un dono benedetto: rabbocco la borraccia e bevo quanto riesco. È la mia ultima occasione per scendere a Primolo: da qui in poi, non ho altra alternativa che affrontare il passo fino allo scollinamento: controllo un'ultima volta che il rattoppo tenga e poi mi lancio. Per cespuglieti di mugo, arrivo a un grande masso triangolare, su cui a vernice è scritto ”Forza!”, ma visto retrospettivamente, ci sarebbe stato meglio un verso dei Creedence Clearwater Revival: ”Hope you got your things together. Hope you are quite prepared to die”.
Infatti il sentiero s'impenna per quanto è possibile, giusto un pelo prima di trasformarsi in arrampicata terrosa a suon di unghie, senza contare che l'ambiente di cespuglieti di mugo non è particolarmente ameno. Avrei scommesso qualche parte fondamentale della mia mascolinità che si tratta di un sentiero moderno di escursionisti, ma compare invece nella carta militare del 1890. Raggiungo un riparo sotto roccia con incisioni degli anni ‘30 del Novecento, traverso in piano per una pietraia informe, fino a raggiungere il sentiero proveniente dall'alpe Giumellini. Qui il fondo migliora un pochetto, se non altro perché le pietraie sono un minimo sistemate. Questo era infatti il sentiero di accesso a delle miniere di rame, poste tra i laghi di Sassersa, la prima meta di questa salita. Frattanto essendo sbucato su terreno aperto, il panorama alle mie spalle si è ampliato e riesco a vedere la zona che percorrerò l'ultimo giorno. Vedo inoltre della capre sul lato opposto del vallone: qui è magro anche per loro. Non c'è molto altro da raccontare sulla salita, se non che attraverso pietraie rossastre e che, quando calpesto brevemente una zolla erbosa, mi sembra un angolo di paradiso.
Mi impongo di non adocchiare mai l'altimetro, per non finire nel circolo vizioso del quanto manca. Salendo, la temperatura diventa più gradevole, ma, non appena trovo l'ombra di un grande masso, mi fermo con l'intenzione di bere. A questo punto però non posso fare a meno di consultare l'altimetro. Scoperto che mancano appena 70 m ai laghi, proseguo senza indugio a raggiungo la barra di rocce montonate, che delimita il lago inferiore a valle.
Mi fermo per il pranzo su un masso meno scomodo degli altri e mi rendo conto che la suola sta cominciando nuovamente a staccarsi. Ripeto pertanto l'operazione del mattino. Senza uno scarpone non posso nemmeno cercare un buon punto di vista da cui riprendere il lago. Gli autori della guida erano saliti a monte per riprenderlo con il Pizzo Scalino, come avevo fatto anch'io per il lago d'Arcoglio, ma tutto ciò è fuori discussione. Sconsolato, sono deciso a terminare domani la mia avventura.
I laghi sono al limite superiore dell'ultima magra erba, che per quanto possa sembrare incredibile era sfruttata fino alla metà degli anni ’50; più in alto non c'è che roccia nuda, sconfinate distese di sfasciumi sovrastati da picchi rossastri. La montagna selvaggia e per me inavvicinabile, desolata e vivace. Tuttavia i montanari ci salivano, stavolta in qualità di minatori, per succhiare reddito anche da questo vastità senza vita. Il Besta così descrive i minatori: «Costoro vivono gran parte dell'anno col martello alla mano nelle gallerie delle miniere, battendo dalla rocca, al chiarore di una fiaccola mezzo spenta la rozza pietra[…] Segregati dal consorzio sociale, allevati in tenebrose catacombe, schiavi della fatica». Le miniere qui erano di rame e ferro, ma una tradizione vuole che fossero d'oro.
Al di là dello scoramento, provo sensazioni contrastanti osservando questi massi, quasi tutti mai pestati da piede umano, inutili anche per i conquistatori dell'inutile. Di qui al passo mi aspetta all'inizio e negli ultimi metri una labile traccia su pietrisco, con in mezzo salti da un masso all'altro, tutto con lo zaino da 13kg sulle spalle e sotto il sole zenitale di luglio: estenuante. Nei rari momenti in cui mi ridesto dall'esercizio totalizzante di salto, atterraggio, programmazione del prossimo salto, valutazione delle mie capacità, salto, e ho la forza di voltarmi, per ammirare quanto ho attraversato, ne resto impressionato per la ruvidezza e la nudità, oltre che per la vastità della distesa; il colore rossastro delle pietre, per l'ossidazione del ferro in esse contenute, rende quasi alieno il terreno, almeno per me, abituato piuttosto alla montagna verde. Il laghetto, oramai minuscolo, è una goccia di dolcezza in questo paesaggio vivacemente abraso di vita: una leggenda romantica vuole che sia nato dalle lacrime di una fanciulla, pentita di aver mandato a morire due pretendenti su questi monti, per un capriccio. Il transito dal colle Ventina sarà uno dei passaggi più emotivamente intensi del viaggio, per la fusione simbiotica tra ambiente ostile ma intrigante e impegno fisico. Il percorso è molto ben segnato con tacche biancorosse e piastrine catarifrangenti, perché ci passa la ∇UT.
Al colle mi fermo per recuperare energie e, per prima cosa, risalgo la sponda alla mia destra per ammirare il Disgrazia, istigato dalla guida. Tuttavia i panorami più sconvolgenti sono quelli che ho calpestato e che calpesterò a breve. Non sto infatti facendo alpinismo, per cui la salita non esaurisce l'impresa, ma altrettanto mi aspetta: non ho ancora raggiunto il punto da cui contemplare il glabro paesaggio da una postazione sicura, perché questo sarà solo sulla morena. Ai miei piedi si prospetta un ripidissimo ghiaione, che termina appunto contro la morena laterale del ghiacciaio di Ventina. Il rifugio è un puntino rosso oltre la speranza di terreno agevole. Oltre la valle vedo l'intaglio del Muretto, storica via di collegamento con l'Engadina, iato tra due falde di roccia distinte: a sinistra riconosco le chiare rocce oceaniche del monte del Forno e della Cima di Vazzeda, ma non riesco a individuare il rifugio Del Gramnde-Camerini, che è un puntino ancora più piccolo e lontano della Porro; a destra la bastionata del continente paleo-africano del Monte Muretto. Alle spalle il paesaggio è invece più chiuso, perché oltre il circo glaciale con laghetto la valle precipita e resta invisibile; sullo sfondo si vedono solo le cime della val di Togno ormai blu.
Non è ancora finita, ma per ora la suola collabora.
Devo percorrere il primo tratto di discesa, sulla ripida ghiaietta scivolosissima, mezzo passo alla volta. Se riesco a immaginare superuomini e superdonne che corrono sulla salita, perché basta essere agili e senza zaino, qui mi sembra davvero inconcepibile, perché basta perdere un attimo aderenza e si è 500 m più in basso, alla meglio completamente scorticati. E per di più passano qui di notte! Non mi restano molti ricordi né appunti di questa discesa, in cui mi sento un po' ipnotizzato dall'azione ripetitiva e ansiogena, solo che un po' alla volta la discesa si addolcisce. Alla fine, attraversato una conca pietrosa con una residua chiazza di neve, sono sul filo della morena, dove ritrovo un sentiero agevole. Non sono solito invocare a sproposito santi, madonne e altri dèi assortiti, ma non me la sento di biasimare chi lo facesse su questi percorsi.
Sulla morena mi fermo a bere e ritrovo la voglia di scattare qualche foto. Il paesaggio di alta montagna qui migliora sensibilmente, perché ci sono i larici pionieri a fare da contrasto con rocce e ghiaccio. Ne approfitto per una foto all'ultima sentinella arborea di fronte alla lingua del ghiacciaio di Ventina, uno scatto che riproverò, ma invano, di fronte al ben più orrido ghiacciaio del Disgrazia. Sotto di me fluisce il torrente, in un'ampia valle che mi separa dall'altra morena, dove corre il sentiero di accesso al ghiacciaio, che tra l'altro si presenta quasi privo di neve. Dove le morene raggiungono il piano, c'è il rifugio, che non sembra più un miraggio, ma una concreta possibilità. Riacquistato un po' di spirito, comincio e elaborare l'idea di interrompe il viaggio, spostando le prenotazioni avanti di un giorno, per scendere domani in paese ad acquistare un paio di scarponi nuovi, anche se buttare questi ancora in ottimo stato sarebbe una follia. Mi calzano bene marche abbastanza diffuse, per cui dovrei riuscire a trovare qualcosa che possa andare.
Seguo il filo della morena, fermandomi a fotografare larici pionieri e massi erratici. La presenza dei massi erratici lungo le morene fu proprio una delle prove portate a favore della loro origine glaciale da de Charpentier, il primo a organizzare scientificamente un'idea che circolava da tempo. Dove il filo della morena plana sul fondo del piano, mi tocca ancora della pietraia, per stare all'asciutto dal torrente, che ne lambisce il margine. Ancora sul finire dell'Ottocento, quasi un secolo dopo il culmine dell'espansione napoleonica, il ghiacciaio di Ventina arrivava fin qui, dove ora c'è un letto di ghiaia tra cui serpeggia il torrente. Quando tocco i prati, vorrei baciare la terra come faceva il vecchio papa scendendo dall'aereo.
Alle 18 arrivo in rifugio, dove aspettano solo me, perché la sera sarò l'unico cliente. Hanno approfittato della giornata tranquilla per dare una ripulita generale. Annuncio che dovrò stare due giorni. La gestrice mi conferma che non c'è modo di riparare gli scarponi, perché anche loro le hanno provate tutte senza successo. Anche se non c'è il gettone, rispetto la tradizione delle docce fredde. La zona delle camerate è talmente nuova, che i bagni hanno il bidet, un lusso visto finora solo in un rifugio privato di recente costruzione, in Valle d'Aosta. Mi aspetta poi un'eccellente cena, con l'unica zuppa di legumi che vedrò in tutto il soggiorno.
Annuncio i miei progetti trionfali a casa, dove non va così bene, perché un collega della fidanzata, che convive con una positiva al COVID, è venuto al lavoro senza protezioni. Lei è terrorizzata dalla prospettiva di attaccarlo ai genitori, a pieno titolo inseriti nelle categorie a rischio. Riesco a spostare di un giorno la prenotazione al prossimo rifugio, ma non al successivo, che non ha disponibilità. Prevedevo di fare degli zig-zag, mentre mi toccherà fare un percorso diretto saltando un pernottamento. Dato che riesco a telefonare, ma non a navigare, mmi faccio scaricare dalla rifugista l'orario dell'autobus dall'ultima frazione della valle, Chiareggio, al centro maggiore, Chiesa, dove lei mi ha indicato un grande negozio di articoli sportivi.
La mattina, prima di colazione, faccio una puntata verso la chiesetta e mi affaccio sulla valle di Ventina per tentare qualche scatto, ma l'intento è vanificato dalla profondità della valle, che permette al sole di illuminare solo le punte. Faccio un'ottima colazione di yogurt e müsli con molto comodo, tanto il primo autobus è alle 10. Scendo a Chiareggio nel fresco dell'ombra, tra varia gente che sale.
Lungo il tragitto in autobus, non posso fare a meno di notare le grandi cave di serpentino. È una delle rocce ofiolitiche, un silicato di ferro e magnesio, scistoso e quindi adatto a essere lavorato in lastre. Per il suo bel colore verde scuro e per la sua resistenza all'aggressione chimica, trova impiego in edilizia nel rivestimento di pregio ed è quindi ben remunerato. L'attività genera anche un certo traffico di camion. Un'altra pietra ad uso edile estratta in valle era l'ardesia, impiegata per le tegole, qui dette piode. Le cave principali si trovavano in questo tratto di valle, presso contrada Costa. I lavoratori, detti giuelè, avevano un forte spirito corporativo, che si manifestava in particolare nel past di mort, un banchetto di raccolta fondi tra i notabili di Chiesa a beneficio delle famiglie dei lavoratori morti o rimasti invalidi.
Il paese dove sono diretto è una stazione sciistica, quindi è il mio ambiente naturale più meno come l'olio d'oliva per il tonno, ma ne ho viste ben di peggiori: quasi tutti i condomini hanno conservato un minimo sindacale di stile montano e non sono troppo cresciuti di cubatura. Il negoziante è di poche parole e molto meno meticoloso che i montanari valdesi da cui acquisto di solito gli scarponi. Con lui trovo subito la quadra, perché ha in liquidazione gli ultimi numeri della stessa marca e della stessa classe di scarponi con cui sono partito. Pertanto, anche se non dedico la solita ora a provare tutte le possibili marche, per capire quale mi calza meglio, trovo così subito un paio che andrà bene e non mi rovinerà i piedi nella prossima settimana di cammino. L'unica differenza è che i miei erano di un colore panna dimesso, mentre quelli nuovi sono blu elettrico con stringhe gialle. Il loro principale pregio rispetto ai vecchi è che non puzzano di roquefort putrefatto dopo un giorno di sudore. Compro della frutta, che finirò immediatamente il giorno dopo, per il caldo ardente accoppiato alla salita ripida come quella del passo di Ventina, e beneficio infine della temporanea civiltà turistica nella forma di un gelato con la panna e i frutti di bosco.
Torno infine a Chiareggio e mi accomodo in un ristorante che vanta ascendenze del XVII secolo, a mangiare le manfrigole, crespelle con formaggio e bresaola, innaffiate da vino valtellinese, molto forte e godibile. La fidanzata è sempre più preoccupata dal COVID e mi chiede di accenderle un cero. Purtroppo trovo solo una chiesa di sant'Anna, protettrice della famiglia, e non di san Rocco, il santo per antonomasia delle frequenti ondate di peste, che dal Medioevo all'Età Moderna colpirono ripetutamente la Valtellina: è ampiamente documentato dai continui aggiornamenti alla legislazione, colma di misure estemporanee per porvi argine. Riuscirò pertanto a preservare i genitori ma non lei (o almeno questa è la spiegazione razionalista): le toccheranno dieci giorni di isolamento, nel pieno dell'anticiclone africano, in cui la sua sanità mentale sarà messa a dura prova molto più della fisica.
Stasera c'è un po' di gente al rifugio: due del CAI di Lodi, Ambrogio e Luciano, che ritroverò domani, un gruppetto di supereroi delle valli bergamasche, che ha percorso la mia stessa tappa, partendo però da Chiesa, e infine un famiglia di Firenze con figli piccoli. Tutti sembrano interessati soprattutto alla montagna dagli sfasciumi in su, e tutti sembrano ignorare il Piemonte in toto, per cui resto al margine dei discorsi. I due di Lodi conoscono consorte della gestrice, che ha in carico anche la Marinelli, ai piedi del Bernina. Mi spiegano che lui ormai sconsiglia di proseguire oltre, perché il ghiacciaio in basso è pericolosissimo e pure in alto sulla cresta si sprofonda fino alla vita, con precipizi di centinaia di metri ai lati. Il collegio delle guide della valle, pochi giorni dopo il mio rientro, diramerà un comunicato analogo. Credo che negli anni a venire la stagione dei ghiacciai sarà anticipata alla primavera e i rifugi dovranno adeguarsi.
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Sergio Chiappino
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