Lauson - Eau Rousse
Levionaz
14 lulgio
Diario di viaggio
La tappa con più stambecchi, nei prati a monte del rifugio. E anche il punto più alto del trek, un colle a quasi 3300 m. Segue poi una lunga discesa, di 1600 m: «It's a long way down», mi dice una signora danese la mattina. Si snoda però su una mulattiera molto graduale, che non la fa pesare affatto sulle ginocchia.
Faccio colazione con un ragazzo milanese, che staziona a Valnontey e sta facendo qualche gita. Oggi andrà a fotografare gli stambecchi a monte del rifugio. Parto presto, con il fresco. Il sentiero supera un balza risalendo dei prati e arriva in un pianoro ondulato dove vedo i primi stambecchi e il ragazzo milanese poco sopra di me, intento a fotografarli. Altri dossi e altri stambecchi placidi, oltre a marmotte. Vorrei fotografarli con il normale, per ambientarli, ma non riesco nell'intento. Ci sono anche molte piante a cuscinetto, perché qui siamo nel loro ambiente ideale, dove hanno pochi concorrenti. Salgo poi a zig-zag un ripido pendio erboso, dove dei cuccioli di stambecco fischiano e scappano al mio passaggio, mentre gli adulti incontrati prima erano rimasti più indifferenti. Arrivo su un pianoro, dove finiscono l'erba e gli stambecchi e comincia il macereto. Sulla destra del sentiero c'è un masso caduto dall'alto che ha lasciato una scia ben marcata nei detriti. Il primo tratto di sentiero è ben tracciato; c'è quindi un traverso con traccia più sottile. Riesco a capire dove va il sentiero, perché vedo i due danesi, che hanno dormito con me e sono partiti prima, un po' più a monte. C'è un primo traverso esposto attrezzato con corda, da cui poi salgo a una dorsale che occlude la vista e non lascia capire dov'è il colle. Da detta dorsale finalmente lo vedo, con la sua piramide di pietre. Un altro traverso esposto, dove il sentiero è anche allargato con putrelle metalliche, un altro tratto di corda e un altro zig-zag nel macereto, con vista sul Rosa, mi portano al tetto del trek, una manciata di metri sotto i 3300. All'arrivo, la signora danese mi scatta una foto con il cellulare, che poi mi manderà via mail.
Al colle faccio una lunghissima pausa, ammirando il lungo vallone disceso ieri: come'è già lontanissima l'alpe Peradzà, appena un giorno dopo. La desolazione del macereto è compensata solo da un mazzolin di fiori gialli in una fessura e da qualche filo d'erba al riparo dal vento. In che situazione estrema si sono andati a cacciare, questi vegetali. Provo anche a vedere se si può salire alla Pointe du Tuf, cento metri più in alto, ma un primo ometto porta in una zona di pietre senza traccia: con lo zaino pesante non è proprio il caso di rischiare. Penso che sarebbe bello scattare una foto da qui al traverso con il rifugio sullo sfondo, ma mi servirebbe una presenza umana. Proprio mentre inquadro, arrivano due ragazzi con accento toscano che assecondano i miei desideri; al loro arrivo li ringrazio per l'involontaria collaborazione. Mostro poi loro il Rosa, perché né loro, né i danesi, nel frattempo scesi, l'avevano notato. E io che pensavo di essere distratto.
Sull'altro versante del colle c'è un altro esteso macereto. D'altronde a questa quota non ci si può aspettare che pietre o ghiaccio. Ma, come la Grivola che lo sovrasta e dalle cui pendici arriva, ha colori accesi per le rocce che lo formano: il blu scuro delle rocce ofiolitiche e il rossiccio dei calcescisti, forse per la presenza di minerali di ferro. Oltre la valle già s'intravede il vallone del Nampio, da risalire domani. Il sentiero è molto più agevole di quello di salita e scende molto gradualmente con ampi tornanti. Al primo fazzoletto verde mi fermo brevemente per festeggiare e togliermi lo strato, che in cima mi proteggeva dal freddo, ora divenuto superfluo. Anche i due danesi sono fermi al riparo di un masso. Ampie serpentine proseguono nei prati, dove gli stambecchi scappano al mio passaggio e i semprevivi fioriscono. Oggi ho visto meno animali di quanto mi aspettassi e di quanti ne ricordassi nelle mie gite qui da bambino. Non è solo un accidente: la popolazione degli stambecchi sta diminuendo, a causa dell'aumento della mortalità infantile, per cause ancora ignote. Sono invece tornati i gipeti e ne vedo uno volteggiare in basso, sopra dei francesi che stanno salendo.
Il vallone di Levionaz è sul confine tra la falda di calcescisti mista a ofioliti della Grivola e gli gneiss del Gran Paradiso. Sul versante di questi vedo delle rocce montonate, mentre sull'altro non ce ne sono, perché le rocce sono troppo erodibili e hanno perso da tempo l'impronta glaciale, per effetto dell'erosione dell'acqua e dei crolli gravitativi. Scendendo, vedo un roditore che non so capire a che specie appartenga e sento dei versi da galli, forse dei forcelli. Pranzo in un punto panoramico, su un ciglio vallivo.
Il vallone è dominato dalla cima seghettata dell'Herbetet, che significa “piccolo pascolo”: ovviamente in cima non c'è alcun prato, ma solo roccia. Il nome le viene da un pascolo sottostante, perché prima ebbero un nome le zone colonizzate dall'uomo, e solo dopo questi nomi si trasferirono alle cime selvagge. Ancora nel Cinquecento, ad esempio, il Monte Bianco non aveva un nome, nonostante fosse visibile da Ginevra, una della capitali culturali dell'epoca. Solo con gli Illuministi, ma soprattutto i Romantici, la natura selvaggia diventerà un valore e si comincerà ad amare le montagne e a scalarle. Non furono infatti gli alpigiani i primi a scalare le montagne, ma persone giunte da lontano. «Dunque, per quanto possa risultare sconcertante, le montagne si cominciano a scalare, non perché si trovano a portata di mano, ma, come vedremo, proprio perché non lo sono, perché appartengono a un altrove, geografico a culturale che sia.» (F. Brevini).
Quando riparto mi superano due donne in tenuta da corsa, che parlano fittamente, senza guardarsi intorno. Intercetto un «soldi pubblici». Passano accanto a una marmotta, ma senza nemmeno scorgerla. Questa gente potrebbe tranquillamente andare su un tapis roulant, al massimo respirando aria di montagna da una bombola, tanto non farebbe nessuna differenza. Intanto la marmotta si è rifugiata in una fessura di una roccia, dove si sente al sicuro e mi osserva passare. Scendo verso il pianoro successivo, lasciando sulla sinistra il sentiero attrezzato che punta al rifugio Chabod e la mulattiera per un casotto di caccia. Sono intanto affascinato dalle stratificazioni colorate della Grivola, tanto da fotografarle più e più volte. Per farlo, devo tenere la fotocamera quasi orizzontale, da quanto sono verticali e incombenti. Ad Anacleto Verrecchia questa montagna piaceva più del Cervino. Prima del pianoro, c'è una parete calcarea colorata non meno affascinante. Bevo dell'acqua gelida da una sorgente e risalgo verso l'alpe Levionaz, dove c'è anche un casotto dei guardaparco.
Mi fermo per una lunga pausa. Faccio un po' di giri con la fotocamera al collo e poi mi apposto a monte di un'edicola votiva accanto al sentiero, per fotografarla mentre passano degli escursionisti. Costanza premiata, anche stavolta con l'aiuto dei ragazzi toscani. Oltre l'edicola si vede il vallone del Nampio, che dovrò risalire domani. Il posto in cui mi trovo è di notevole interesse geologico. Qui infatti il vallone a U sembra sboccare nel nulla, arrivando sul ciglio con un elevato salto rispetto alla Valsavaranche: una valle sospesa. È una tipica configurazione dell'erosione glaciale: il vallone laterale fu scavato da una lingua più piccola di quella che scavò la valle principale ed era perciò dotato di una minora forza erosiva. È una configurazione che ho già incontrato nei valloni affrontati precedentemente e troverò in quelli successivi.
Mi fermo nei pressi di un casotto con fonte, abitato da una ragazza dell'università di Pavia, che trascorre qui il periodo da maggio a ottobre per studiare gli animali. Beata lei. Dev'essere bello stare fermi in un posto, a analizzare gli impercettibili mutamenti della natura nel corso dell'anno. Ogni tanto mi fermo a osservare e fotografare quelli della luce nel corso di una sera o di un mattino, ma ogni tanto dovrei anche provare a tornare nel medesimo posto a intervalli regolari, a scattare una sequenza di foto che lo ritraggono nel corso dell'anno. Decido di scendere quando mi sembra che stia per partire un folto gruppo di adolescenti, per anticiparli. Qui il vento copriva i loro schiamazzi, ma nel bosco non sarà così, e io voglio sentire i canti degli uccelli.
L'edicola è dedicata a santa Chiara, protettrice della natura, come scopro passandoci davanti. La mulattiera scende in un bosco misto di larici e pini cembri, che diventerà di larici e abeti rossi più in basso. Noto con sorpresa che ci sono dei segnali per le ciaspole, proprio dei pressi di un largo canalone di slavina. Un signore di Pavia, che sta passando le vacanze qui mi dice che effettivamente questa è una classica invernale. Stranezze. Proseguo poi chiacchierando con questo signore, che è molto simpatico e curioso e mi chiede un racco di ragguagli sul mio viaggio, quello già percorso e quello che ancora mi attende.
La mulattiera scende molto gradevolmente, fino ad arrivare a un canalone di frana molto incavato. «Qui con le ciaspole bisogna passare uno per volta», concede il pavese. A valle c'è una vasta zona completamente pelata, con pochi alberelli giovani, forse frutto della nevicata record del dicembre 2008, come quella di Cogne. Qui la mulattiera continua a scendere dolcemente, ma a questo punto vorrei tanto che si desse una mossa, perché ormai vedo Eau Rousse a un tiro di schioppo. Nei prati attorno al paese sono stati condotti colossali lavori di spietramento, che hanno prodotto esagerati muri a secco e giganteschi mucchi di pietre.
In paese arrivo quando il sole se n'è già andato. Oggi e domani passerò la sera nello sprofondo di due valli molto incise, dove il sole è una breve parentesi estiva.
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Sergio Chiappino
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