Alpe Ventina-Cresta Est monte Vazzeda

Val Sissone

14 luglio


Porro
Porro

Diario di viaggio

Per la massiccia grandeur unita alla grazia della forma, il Disgrazia ha pochi rivali nelle Alpi
Douglas Freshfield, Italian Alps: sketches in the mountains of Ticino, Lombardy, the Trentino and Venetia London 1875

La terza tappa dell'Alta Via prevede la salita al rifugio Del Grande-Camerini per la Val Sissone e la discesa su Chiareggio. Ne percorro solo metà, sia per poter passare la notte davanti al Disgrazia e sfruttare il cavalletto che ho portato con me, sia per percorrere prima l'anello dal rifugio al lago Pirola, che passa nei pressi di una larice di 1000 anni.
La tappa così congegnata si rivelerà molto lunga e faticosa, con un'altra salita ripidissima nel pomeriggio.

Faccio una colazione solitaria alle 6, con la sola compagnia della macchinetta delle bevande calde, lasciata accesa la sera prima. Spazzolo tutto quello che posso. Il panino al formaggio mi è stato consegnato la sera. Dal piano tra la Porro e il rifugio Ventina, il sentiero si inerpica abbastanza ripido in una mugheta, con tratti di pietraia sistemata, perché il lariceto soprastante, pur essendo molto roccioso, era pascolato. Il cielo è coperto da uno strato di nuvole alte, che lasciano vedere le cime e hanno alzato la temperatura minima mattutina, ma la manterranno non troppo calda fino a quando resisteranno, ovverosia prima del tratto in cui sarebbero state più utili. Tralascio la puntata alla Sasa dë gaium (vetta del ghiaione), ribattezzato Torrione Porro dagli alpinisti, a cui si può accedere anche da una ferrata.
Superata una china, la pendenza si addolcisce e raggiungo il larice, circondato da altri bòcia secolari, scoperti da uno studio sui lariceti pascolati condotto una quindicina di anni fa. Qui la presenza dei cembri indica che il carico del bestiame sia sempre stato minimo, forse a causa del terreno impervio, anche se non del tutto assente, perché si registra un picco di nuovi nati negli anni ‘50 e ‘60, quando l'abbandono della montagna conobbe un'accelerazione; alberi più giovani non sono stati inclusi nello studio. Del resto nessuno deve essere mai venuto a tagliare legna, perché vi sono molti “morti in piedi”, cosicché tutti questi larici secolari hanno potuto conservarsi intonsi. La conifera non ha una gran chioma: è spelacchiata in cima, ma ancora vitale nei rami centrali, un po' come un vecchio umano, che ha perso i capelli, ma ha conservato saggezza e voglia di vivere. La cosa più interessante è ciò che non si vede: il carotaggio ha mostrato anni di aumentato accrescimento durante l'Optimum basso medievale e poi negli ultimi decenni, seppure sempre su livelli bassi per la specie, per la posizione al limite superiore dell'areale. È incredibile pensare che questo larice sia stato testimone di tutta la colonizzazione recente dell'alta montagna, dalla nascita della transumanza organizzata del Basso Medioevo, con la strutturazione dell'agricoltura in basso e della pastorizia in alto, sopravvivendo agli inverni rigidi dell'Età Moderna, per poi terminare con le frotte di turisti in vibram e goretex.
Proseguo per dossi e pietraie fino al bivio per il Bocchel del Cane, il colle da cui ci si svalica sulla zona dei paesi. Può sembrare strano che il sentiero meritasse la sistemazione delle pietraie, quando ai paesi si può arrivare anche da Chiareggio, ma quando si andava a piedi aveva più senso superare i colli che percorrere le valli, perché era quello il percorso più agevole. Qui mi affaccio nella conca del lago e prendo a sinistra, in traverso per pietraie selvagge, perché invece questa zona non presenta prati adatti al pascolo e non era colonizzata. Traverso restando alto sul lago, a cui mi affaccio. Il livello è bassissimo: l'acqua non arriva neppure alla diga con cui è stato ingrandito a scopi idroelettrici. Sembra essere molto profondo, per cui non dovrebbe essere glaciale, ma dovuto a qualche frattura tettonica della montagna (un'altra fonte di laghi profondi è il vulcanesimo). L'acqua è di un bel colore verde acqua opaco, molto delicato, le sponde sono rocciose e paiono di arduo accesso. La pietraia propone qualche passaggio impegnativo, dove non ho altra scelta che tagliare le tele di ragno, non avendo vie alternative; chiedo scusa a uno di questi che stava appostato mentre la trancio. Devo anche affrontare un saltino esposto poco appigliato, dove me la cavo elegantemente di sedere, contando sul favore degli dèi, affinché lo zaino non urti sbilanciandomi. Quando sono da solo in ambiente difficoltoso, capisco benissimo perché i montanari avessero tante credenze in esseri magici da tenere buoni, perché spesso si ha l'impressione che non basti fare tutto per bene affinché le cose filino lisce, perché l'accidentalità ha un ruolo notevole, per cui il desiderio di poterla controllare con riti è largamente condivisibile.
Scendo a un lembo di prato attorno a un seno del lago, dove le marmotte fischiano e dove oltrepasso un piccolo immissario. Svolto ad U e risalgo ripidamente sulla sponda settentrionale, passando per dei dossi montonati di rocce striate, dove mi fermo per una pausa in un clima ventilato e fresco.
Nolli salì fin qui da Lanzada con due amici e già gli sembrò di aver raggiunto l'acme della montagna selvaggia e ostile, tanto che gli passò la vita davanti, come in punto di morte. Ieri ero rimasto impressionato, ma non ero arrivato a tanto. La sera trovarono quindi ricovero nella baita dell'alpe, dove passerò tra poco, e pur senza i fumi dei vino si diedero al cameratismo goliardico, dedicandosi al body shaming di una villeggiante corpulenta.

Scendo alla diga, che percorro fino alla fine nel tentativo di una foto, che però sarà insoddisfacente, e mi dirigo quindi alla casetta dei guardiani. Il puntino rosso del rifugio Longoni, meta di domani, è chiaramente riconoscibile sotto la Sassa d'Entova. Dopo tante pietraie, arriva finalmente una discesa molto regolare nel bosco di conifere, tra canti di uccellini e un quasi incontro con un camoscio. Questi, intento a pascolare sotto il sentiero, ode i miei passi e si dà alla fuga fischiando, subito prima che possa scorgerlo tra la vegetazione. In questo trek, gli incontri con gli animali si conteranno sulle dita di una mano, ma almeno riuscirò a scattare la miglior foto di stambecchi della mia vita. D'altronde, dal punto di vista fotografico ho operato una scelta estrema, portando un'unica focale con cui mi trovo molto a mio agio, un normale corto molto luminoso, che mi consentirà delle foto notturne, ma è totalmente inadatto per camosci e marmotte.
Prima dell'alpe, ora che non c'è acqua appaiono fuori luogo i cartelli che avvisano di possibili piene, per manovre sulle opere idrauliche della diga. L'alpe Pirola non è più caricata, del resto era abbastanza risicata, giusto per qualche capra o le piccole vacche di una volta. Fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando era condotta dai nonni di Bianco, l'attuale gestore del Marco e Rosa, delle cui imprese ritornerò a parlare a breve, potè campare perché riforniva di latte gli alberghi della sottostante Chiareggio. Il paesaggio, tuttavia, con il vecchio tetto dalla copertura molto rudimentale, la distesa di Rumex alpinus fiorito e le cime con ghiacciaio sullo sfondo è molto idilliaco, degno dei dagherrotipi ottocenteschi. In origine avevo pensato di scattare in bianco e nero, tanto da aver impostato in questa modalità il mirino, perché nella guida c'erano già bellissime foto a colori, spesso scattate in periodi dell'anno più fotogenici dell'estate, e quindi volevo evitare di farne la brutta copia; tuttavia poi mi sono reso conto che rinunciare ai colori tenui di queste montagne non aveva senso e potevo benissimo fare un lavoro sempre a colori, ma totalmente diverso.
Oltre l'alpe, sempre nel bosco, sono fioriti anche il veratro e il cavolaccio alpino, il primo certo verde e poco appariscente, il secondo rosa e più in risalto nel verde cupo delle conifere estive. La discesa continua, in parte interrotta da traversi e risalite. Sbuco infine nei pressi della Porro, sulla stradina per Chiareggio. Poco oculatamente non vado a riempire l'acqua alla fonte, contando di trovarne a Forbesina. In origine avevo pensato di dedicare un giorno al lago Pirola e al ghiacciaio di Ventina, per poi scendere a Forbesina passando dall'alpe Zocche. Accoppiato a questo primo anello invece il giro sarebbe troppo lungo e non mi consentirebbe di godere tutto con calma. Mi dispiace un po', perché la guida di Canetta descrive il percorso come molto interessante dal punto di vista naturalistico.
Vado verso Chiareggio, per poi imboccare il sentiero in discesa più marcata, tra conifere e folto sottobosco di megaforbie. La zona di Chiareggio fu in passato la principale riserva di legname della valle, che era anche esportato a Sondrio. Il taglio non fu sempre oculato, tanto che dovettero anche essere istituite delle bandite, per proteggere i versanti dalle frane e Sondrio dalle alluvioni. Mi porto a costeggiare il torrente di Ventina, con le sue rapide e il suo scroscio. Raggiungo il fondovalle, dove il torrente si è unito al Mallero, proveniente dal ghiacciaio del Disgrazia, e si dilata in distese di ghiaia chiara. Ne supero i due rami su ponti, incrociando un po' di gruppetti di varie età. Per bosco arrivo alle casette di Forbesina, posto al limite della piana alluvionale di Chiareggio. Sui colmi dei tetti e sui camini, noto pietre bianche appuntite, come quelle che si usano sulle Alpi Occidentali per tenere fuori dalle case la masche, le streghe della tradizione piemontese. Le avevo notate su vecchie case anche scendendo in autobus a Chiesa e quindi mi sembra improbabile che siano lì per caso. Incuriosito chiedo lumi a un signore del posto, ma lui nega ogni funzione che non sia puramente meccanica di peso. Mi dice anche che la sorgente è secca, per cui nel resto della giornata dovrò cavarmela con l'acqua che mi è rimasta.

Dopo una pausa, mi accodo a varia gente diretta al rifugio Tartaglione, lungo la stradina di accesso, che comincia a salire. Supero una famiglia. La mamma è affascinata dai semprevivi, mentre due ragazze adolescenti appaiono poco entusiaste. Raggiungo l'alpe Laresin, dove ci sono degli enormi larici attorno alle baite. Purtroppo le vacche sono posizionate a monte del sentiero, per cui non è possibile fotografarle assieme al Disgrazia come speravo. Mi rifarò domani pomeriggio. Lascio la stradina, che svolta con un tornante, e proseguo invece dritto per un sentiero che corre poco a monte del Mallero, inoltrandosi in val Sissone.
La valle è molto stretta e profonda. D'altronde, Charles GuillaumeLoys de Bochat, un dotto settecentesco la cui opera è alla base dello studio della toponomastica dell'Elvezia romana, riteneva che il nome della valle derivasse dalla voce celtica Mal-Eng-a, che significa “testa stretta dell'acqua”, proprio per questa gola in cui si trova la sorgente del Mallero. Attorno al torrente c'è una grande distesa di ghiaia, segno che evidentemente qui le alluvioni non sono merce rara. Ad un certo punto hanno anche mangiato un tratto di sentiero: una tacca sul margine della scarpata è rimasta a indicare la vecchia via, mentre una traccia a monte aggira l'interruzione.
Ben prima dell'alluvione del 1987, quando una morena collassò per le piogge torrenziali e la temperatura elevata, che fuse il ghiaccio che la cementava, un evento localizzato ma incredibilmente intenso aveva interessato questa valle. Il 15 settembre 1950 dei violentissimi temporali innescarono una frana di oltre un milione di metri cubi si riversò per tre chilometri su un fronte di cento metri, distruggendo boschi, prati, ponti, edifici rurali e uccidendo bestiame fino a Chiareggio; gli abitanti di Forbesina si salvarono mettendosi al sicuro sulle alture. La morena frontale del Ghiacciaio del Sissone era da tempo sottoposta a erosione dalle vene d'acqua di scioglimento, ma l'avanzamento verso valle era prima bloccato dalla lingua terminale della vedretta del Disgrazia. La grande portata d'acqua temporalesca, più calda di quella di fusione e assai più copiosa, sfondò definitivamente un budello sotterraneo preesistente, aprendo la via ai detriti che, non più sostenuti, collassarono rovinosamente. Una sequenza davvero apocalittica, che ancora oggi mi fa ammirare un esteso fondovalle puramente detritico, un letto sproporzionato rispetto alla portata attuale dei torrenti. Prima della scoperta delle glaciazioni, gli studiosi ritenevano che la morfologia delle montagne, i massi erratici e e le morene di fondovalle si fossero originate da eventi catastrofici di questa e anche maggiore portata.
Questo tratto non è particolarmente gradevole, perché alterna zone molte invase dalla boscaglia all'attraversamento di colate di sassi. Sicuramente non è un sentiero di montanari, perché di qui non si saliva ad alcun alpeggio, ma solo al ghiacciaio che nell'Ottocento arrivava fin sul fondovalle. Avevo anche pensato di imboccare il sentiero che sale direttamente all'alpe Sissone e di lì al rifugio, evitando il fondovalle, ma lo spettacolo magnifico e terrificante che mi aspetta più avanti tutto sommato bilancia la purga di questa risalita. Tra l'altro le nuvole si sono dissolte e il sole del mezzogiorno si fa sentire. Dove la vegetazione si dirada, appare alta la parete nord del Disgrazia, con il suo ghiacciaio e le cascate che vi fluiscono, tra le rocce montonate sottostanti.
Ad un certo punto il sentiero lascia il fondovalle e prende a salire più ripido che può nell'erba folta. Di sicuro non è molto battuto. Intorno a quota 2150 m, all'altezza degli ultimi larici, raggiungo una valletta erbosa pianeggiante detta Zuccheta, con ontani lungo il rio, dove c'è anche il bivio per il sentiero alpinistico diretto al passo di Mello. Il luogo finalmente mi sembra un po' ameno e ne approfitto per una pausa. Ieri a Chiesa avevo acquistato alcune pesche da centellinare nei giorni successivi, ma le finirò tutte oggi per tamponare la sete e la perdita di sali. Domani a Chiareggio dovrò fare altro shopping.
Il ghiacciaio, che a metà Ottocento raggiungeva il fondovalle, è ora ridotto al solo circo, completamente scarnificato dalla neve, e già a metà luglio è raggrinzito da una rete di crepacci che sembra la pelle di vecchio pescatore. In alto è sovrastato da pareti rocciose cupe e arcigne. Ambrogio stasera mi dirà che, se un elicottero lo lasciasse nel circo in alto, lui si lascerebbe morire lì, tanto gli fa paura la zona sottostante. Devo dire che io, non aspirando neanche lontanamente a passarci sopra, esteticamente lo preferisco così, perché mi trasmette meglio l'orrore e il terrore della natura selvaggia ed estrema, di quanto lo farebbe una distesa bianca e uniforme, come nelle foto dei decenni passati.

Nell'agosto 1862 Kennedy e i suoi compagni, primi salitori del Disgrazia, fecero un tentativo da questa valle spingendosi fino alla cresta con la val Masino. Stephen e la guida svizzera Anderegg fecero un'ulteriore esplorazione fino al monte Pioda, da cui videro che dall'opposto versante la salita sarebbe stata più agevole. Pochi giorni dopo raggiunsero la vetta da lì. Quando ritornarono in albergo a Chiesa, il titolare aveva già mangiato tutta la loro cena, ritenendoli morti. La sera prima aveva espresso l'impossibilità dell'impresa «in cento lingue e con cento toni».
Nel gruppo di alpinisti i più forti erano la guida svizzera Melchior Anderegg e Leslie Stephen, padre di Virginia Woolf. Il secondo fu uno dei principali scalatori inglesi della prima ondata, autore di cinque prime assolute e tre vie nuove sui 4000, tra cui l'evocativo Schreckhorn (lett. picco della paura), una scalata impegnativa anche per la normale. Grande camminatore, pur essendo affascinato dall'aspetto delle montagne (le paragona sovente a cattedrali gotiche), vedeva la sua attività esclusivamente come passatempo sportivo, ricusando il lato scientifico del primo alpinismo. Abbandonato l'alpinismo in seguito al matrimonio, ebbe una prolifica carriera come critico letterario e redattore dell'Alpine Journal. Il suo libro di memorie Playground of Europe creò il titolo per quel periodo storico dell'alpinismo. Stephen era affascinato dalla bellezza delle Alpi, ma senza perdere una buona dose di humor e understatement: ad esempio, a proposito del passaggio più impegnativo dello Schreckhorn, scrisse che «la scena era abbastanza significativa per deboli di cuore». Anderegg, la sua guida prediletta, fu il primo svizzero ad ottenere il brevetto da guida; di lui Stephen scrisse che il suo umore migliorava al crescere delle difficoltà. Si narrano aneddoti leggendari sulla sua capacità di orientarsi nella nebbia in luoghi sconosciuti.
Il primo a salire in cima da questo versante fu uno scozzese, Harold Raeburn, nel 1910, senza guide. Da allora la sua linea di scalata è detta impropriamente Via degli Inglesi: a nord delle Alpi non distinguono tra italiani e spagnoli, per cui noi abbiamo il diritto di confondere inglesi e scozzesi (in italiano il termine britannico esiste ma non è usato). Ai suoi tempi l'accoglienza turistica aveva subito un notevole progresso e l'albergo (Bernina) conteneva addirittura un pianoforte elettrico e ospitava numerosi clienti della buona società. Anche lui si scontrerà con lo scetticismo dei locali, in questo caso il loro portatore, il quale fece un lungo discorso in italiano di cui riuscirono a recepire solo innumerevoli impossibile e brutto. Questi scambi ormai sulle Alpi non succedono più, mentre sull'Appennino discorsi altrettanto stupiti li ho sentiti, anche se andavo per sentieri segnalati. Essi affrontarono il ghiacciaio, ma non restarono sulla parete fino alla vetta, ritenendo inaccessibili le rocce ghiacciate. Trovarono invece una ripida parete (fino oltre i 60°), coperta di sottile ma ottima neve, dove scavarono appoggi con la piccozza, fino alla cresta con la val Masino, da cui raggiunsero la vetta e scesero alla capanna Cecilia (oggi rifugio Ponti), dove trascorsero la notte.
Nel luglio 1980, quando il ghiacciaio ancora era continuo, Giancarlo Lenatti detto Bianco, attuale gestore del Marco e Rosa, scese la via in integrale con gli sci. Su youtube si trova il video dell'impresa. A Marsciana mi hanno raccontato dell'impresa di poche settimane prima, quando scese da un canalone tra il Bernina e il ghiacciaio dello Scerscen (detto la direttissima), che aveva un crepaccio a metà. Il signore mi disse che tentò di saltarlo, ma vi precipitò dentro, ma evidentemente senza danni, se il ricordo è corretto.

A monte della Zuccheta c'è una placca rocciosa, verso cui il sentiero sembra puntare, ma per fortuna poi la aggira. Risalgo invece una sempre più ripida costa erbosa, anche adoperando le mani, non perché ci sia da scalare, ma proprio perché toccano il terreno e sono pertanto più pratiche dei bastoncini: il tornante, questo sconosciuto. Risalito un impluvio, procedo finalmente in traverso, per pendii erbosi. Devo ora superare un rio glaciale nelle ore più calde del giorno, ma per fortuna il sentiero lo attraversa dove si separa in rami, che singolarmente non offrono ostacoli.
Per prati risalgo verso un intaglio roccioso, dove mi affaccio su un pendio dirupato, che termina alla mia quota in una conca erbosa. Le vacche salivano di lì, per poi venire a pascolare tra i prati appena attraversati, per cui ora mi aspetta un sentiero ben sistemato, anche dove attraversa le pietraie. Oltre i prati c'è una costola rocciosa, alla cui sommità già vedo il rifugio. Proseguendo per la cresta, c'è la Cima di Vazzeda, di roccia chiara che sembra tagliata con un'accetta da un maestro d'ascia. Alle mie spalle c'è sempre il ghiacciaio del Disgrazia. Tra l'altro è ora di osservare che il nome della montagna non deriva da sciagure passate, ma è una storpiatura del termine dialettale per sgelare, desgràcia. Come in molti altri casi, fu esteso alla montagna dall'ultimo alpeggio, sotto la cresta nord del Pizzo Ventina, che era esposta alla caduta di massi e seracchi. In questo luogo panoramico mi fermo a mangiare il panino e a bere i sali, anche se sarebbe ormai ora di merenda. Mi sono maledetto tutto il pomeriggio per aver fatto il sentiero lungo, ma ora mi riconcilio con me stesso.
Il sentiero prosegue in quota appunto molto bello e lavorato, sia nella pietraia, sia nei prati con rivoli d'acqua e fioriture. Quando inizia a scendere, temo di aver imboccato distrattamente il sentiero per l'alpe Sissone, ma poi vedo la palina del bivio. Salgo ripidamente per tracce e arrivo ai piedi della cresta rocciosa attrezzata con catene. Stringo lo zaino alla schiena e appendo i bastoncini allo zaino. Il salto non è esposto ed abbondantemente appigliato, per cui credo che con un po' impegno, o uno zaino più piccolo e leggero, potrei tranquillamente risalirlo senza aggrapparmi alla catena.
Raggiunta la cresta, trovo due ventenni, una delle quali con favella di Beatrice commenta «Sono cazzi», mentre si cala dal salto superiore, più semplice del precedente. Al rifugio non c'è acqua calda: bisogna fare la doccia, il mio primo pensiero dopo la sudata, con acqua di nevaio, senza box, ma posizionando i piedi sulle pedane della turca e innaffiandosi con una pistola, di cui non riesco a capire bene il funzionamento, per cui la smonto e vado direttamente di tubo. Neanche tanto fredda, pensavo ben di peggio. Ad ogni modo, come prima di ogni trek mi ero fatto rapare i capelli con la macchinetta impostata a 1 mm, per cui non ho il problema di asciugarli.
Bevo quindi una birra artigianale intitolata al rifugio in compagnia di Ambrogio e Luciano, sui tavoli con vista Disgrazia. Quant'è dritta la discesa dal passo di Ventina, vista da qui! Oltre a noi, in rifugio ci sono un professore universitario israeliano con un suo amico di Boston, che sono partiti dal lago di Garda e sono diretti in Svizzera, per un trek di 5 settimane. Il primo una decina d'anni or sono impiegò tutta l'estate a percorrere le intere Alpi, dall'Adriatico alla Costa Azzurra. All'università nessuno si accorge di nulla se sta via per tre mesi. «A good job», chiosa. Domani andranno al Maloja e li aspetta un periodo di ristrettezze nei rifugi svizzeri, dove il trattamento non è lontanamente paragonabile a quello italiano, come il professore ha ormai ben imparato. L'Italia è un posto fantastico dove trascorrere le vacanze, ma è meglio lavorare in posti più civilizzati. Analogo è il mio rapporto con la montagna, perché preferisco vivere vicino alle biblioteche e dove non sono costretto a salire sull'automobile per ogni incombenza della vita quotidiana.
Ceniamo insieme ai gestori nell'unico tavolo della saletta del rifugio, al caldo della stufa a legna, persino eccessivo per chi è vicino, mentre sarebbe bastato un colpettino per vincere l'umidità della sera (sono anche cadute due gocce di pioggia). È compresa un'abbondante dose di verdura fresca, persino della frutta (!), che qui si conservano bene: dei beni rari nei rifugi riforniti con il solo elicottero. A condurre c'è una famiglia di due genitori con una figlia ventenne da Sovico, paese brianzolo il cui CAI è proprietario del rifugio. Restano qui una settimana e si alternano con altre e dei volontari della sezione. Stasera sono attesi dei ragazzi, che salgono per fare dei lavori alla captazione dell'acqua, perché il nevaio quest'anno si scioglierà presto e bisogna andare a raccoglierla più in alto.

I tre gruppetti dormono separati, per le norme COVID, curiose perché siamo stati due ore allo stesso tavolo. Per me è una fortuna, perché potrò alzarmi di notte e al mattino per foto al Disgrazia e alle altre cime senza molestare alcuno. Stanotte c'è anche la luna pressoché piena, ma transiterà bassa alle sue spalle, senza illuminarlo. Il luogo è incredibilmente panoramico e ben si presta a foto, anche se temo che la bella foto vista sul loro sito, che speravo di replicare in veste notturna, sia stata fatta con il drone. Il tramonto è deludente, perché le nuvole compatte bloccano i raggi dorati del sole. Faccio quindi una prima uscita con il tardo crepuscolo senza luna, quindi, grazie all'impulso di una pipì notturna, replico con la luna attorno all'una.
Questa è la puntata più proficua, perché ogni direzione ha il suo soggetto; mi pare vengano meglio le foto in cui combino elementi del rifugio e del panorama, perché trasmettono l'idea della magnifica posizione in cui si trova la struttura, su una cresta protesa sui precipizi. La ragazza del rifugio, che ama fotografare, sembrava particolarmente stimolata dalla prospettiva di riprendere il Disgrazia e la luna, mentre a me interessa meno, perché il primo sarebbe in ombra a avrebbe quindi una luce piatta, mentre la seconda verrebbe bianca, senza i dettagli dei mari e dei crateri. Non includo mai la luna negli scatti notturni: credo di averla apprezzata unicamente nei notturni nuvolosi di Friedrich. Mi interessa invece come la luce modella i monti, esattamente come per le foto diurne, ma con le stelle e ombre protagoniste al posto del colore. Per questa ragione la mia foto preferita sarà quella alla val Ventina, illuminata da una luce posteriore di tre quarti, con le cime illuminate, profonde valli cupe: una scena più di ombra che di luce. Soggetti diurni e notturni sono differenti, anche se la luce diretta di sole e luna ha le medesime caratteristiche, perché l'essenza notturna è diversa dalla diurna: di notte i margini e i dettagli sono indefiniti, le ombre cupe e indecifrabili. Non sono riuscito ancora a trovare la chiave per decrittare le regole del successo, ma devo ogni volta provare a casaccio le varie inquadrature e capire solo dopo se mi trasmettono le sensazioni che provavo là fuori.
Nella mia prima foto lunare mi feci affascinare dalla visione ultraterrena della fotocamera, completamente diversa da quella umana. Tale alterità tecnologica ha un suo fascino, come le foto agli infrarossi o ai raggi X, per cui non ho smesso di praticarla. Successivamente però cercai piuttosto con molta fatica di riprodurre, se non la visione, almeno l'atmosfera notturna come appare agli umani, perché era quella che mi piaceva. La notte che mi piace è quella senza luci artificiali, candele, violente lune elettriche, croci a led o angeli dell'Annunciazione che siano. Queste mi sembrano più scende da interno, mentre associo la montagna unicamente alla luna e alle stelle e ogni tentativo di portarvi le prime mi sembra un segno di subalternità culturale al mondo della bassa: è semmai una lacerazione della notte, per far sentire a proprio agio gli uomini pervasi di terrore ancestrale delle tenebre. Nel pieno dell'Antropocene, chiedo che mi sia lasciata qualche riserva.
Purtroppo non sono più replicabili le emozioni forti che provai le prime volte in cui vidi formarsi un'immagine inaspettata sullo schermo, ma la sensazione di benessere ed eccitazione, pari al sentirmi pervadere dal penetrante profumo dei cembri o delle ginestre, magari la stessa di un alpinista a pochi passi dalla cima, continua a pervadermi in ogni momento in cui sono fuori, non facendomi affatto rimpiangere le lenzuola. Delle notti che ho trascorso all'aperto, non ricordo le sensazioni di caldo o freddo, agio o disagio, a meno che non l'abbia appuntato, mentre sono vive le sensazioni che provo: sono l'esatto opposto di una tavolata a Natale, sia emotivo che fisico. Poi peraltro questo notte è irrealmente calda, per un posto a 2500 m esposto ai venti e affacciato sui ghiacciai.

I montanari raccontavano storie che diffidavano dall'uscire di notte, perché si potevano incontrare i cortei delle anime purganti, condannate a ripetere le processioni a cui per tiepidezza delle fede avevano mancato, fino al perdono dei peccati. Un episodio del genere ebbe anche una data precisa, in quanto una storia di un secolo posteriore lo ambienta nel 1829 a Lanzada. Il fenomeno si manifestava come scie di luci, allora interpretate come candele, per cui successivamente, nel tardo Ottocento, è stato reinterpretato in chiave spiritista e dal secondo dopoguerra nel contesto del folklore ufologico, tuttora attivo in Valtellina. Purtroppo la sfortuna degli scettici mi ha impedito di assistere a queste meraviglie, in Valmalenco come in tutte le escursioni notturne attorno a casa: al massimo ho visto gli occhi dei caprioli brillare illuminati dalla frontale, oppure satelliti e meteore solcare il cielo. Anche se sulle Alpi l'unica minaccia notturna sono i cani liberi dei pastori, qui assenti, non riesco comunque a liberarmi da un terrore irrazionale, un senso di terribile pericolo incombente, come se oltre al buio ci fossero gli alieni pronti a rapirmi, e non oso allontanarmi dalla luce del rifugio.
La notte non ha quindi solo un lato materiale che, come umidità, mi penetra nelle ossa e disegna scie di ombra come Caravaggio, ma è contemporaneamente sogno e illusione. Nella notte l'inesistente pare incombere e essere reale, i paesaggi reali visti poche ore prima si trasfigurano e divengono onirici, una buona cosa per me, disinteressato alla realtà, se non quando mi fa sognare ad occhi aperti gli stati d'animo, come l'altro ieri al passo di Ventina appunto. La mente non pare in grado di accettare la mancanza di conoscenza e la riempie di interiorità. Analogamente molti non sono in grado di accettare la mancanza di spiegazione della nostra presenza qui e ora, nel buio pesto del senso, del brancolare nella notte del quotidiano e si figurano mirabolanti storie che li rendono signori dell'universo, a volte reperendole tra le offerte del mercato della speranza, a volte inventandone di nuove. Ho provato la loro angoscia, da ragazzino quando ero sonnambulo e mi svegliavo in piedi nel buio pesto, terrorizzato, senza sapere dove fossi, non potendo afferrare che il vuoto. Ciononostante non riesco a compatire chi non sa accettarsi minuscolo e inutile: a me invece piace percepire le mie vere proporzioni sotto il cielo stellato e nel vuoto circostante. Soprattutto non sopporto chi, per vedere confermate dagli altri i propri sogni, vorrebbe fossero certificati dall'autorità. I miei sogni sono introversi, nascono e finiscono dentro di me. Mi basta la riserva indiana in cui coltivarli.
Nella mia notte di montagna anch'io rifuggo dall'illuminare la scena: mi piace l'ombra per quello che è, per l'alterità rispetto alla bassa sempre accesa, come un'immensa Prospettiva Nevskij rilucente e ingannatrice, che mi priva dell'ebrezza del cielo stellato sopra di me. La città è comoda per sopravvivere, ma per vivere vengo qui.

Galleria fotografica

Porro
Porro
Larice millenario
Larice millenario
Larice millenario
Larice millenario
Lago Pirola e Cima di Vazzeda
Lago Pirola e Cima di Vazzeda
Casa dei guardiani e Pizzo Tremogge
Casa dei guardiani e Pizzo Tremogge
Alpe Pirola
Alpe Pirola
Val Sissone
Val Sissone
Val Sissone
Val Sissone
Monte Disgrazia
Monte Disgrazia
Rifugio Del Grande-Camerini
Rifugio Del Grande-Camerini
Val Ventina
Val Ventina
Pizzo Malenco
Pizzo Malenco

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Sergio Chiappino

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