Eau Rousse - Rhêmes-Notre-Dame
Entrelor
15 luglio
Diario di viaggio
Probabilmente la tappa esteticamente più bella dell'intero viaggio, con una gran quantità e varietà di punti notevoli, di interesse alpinistico, geologico, botanico, faunistico, antropico.
Alla partenza l'albergatore mi regala un foglietto con le foto delle montagne che vedrò e i loro nomi. «Oh, grazie. Furbescamente ho dimenticato la bussola a casa e non posso traguardare le cime.» «Lei è geometra o ingegnere?» «Eh, eh, no, escursionista.» Queste cose le insegnano nei corsi CAI.
Quando mi allaccio gli scarponi, ho un'amara sorpresa: mi accorgo che la punta della suola destra si sta lievemente scollando. Sono appena a metà del trek. Queste seconde suole hanno avuto una gestazione tribolata, perché il calzolaio non riusciva proprio a incollarle alla tomaia. Dopo vari tentativi, mi aveva consegnato gli scarponi giusto in tempo per la Via degli Abati, ma lungo la strada la suola destra aveva preso a scollarsi, anche se mi aveva permesso di arrivare in fondo. Ora il problema si ripresenta. Ho del nastro isolante e provo a improvvisare una riparazione di fortuna, se non altro per proteggere la punta ed evitare che si incastri in qualche masso e venga via lungo il sentiero. A parte questo, oggi rischio anche di finire contromano a un trail.
Subito sopra l'albergo c'è una parete con una striscia rossa, di qualche minerale di ferro: il nome stesso del paese viene da una sorgente ferruginosa nei suoi pressi. Il primo tratto è in un bosco misto di abeti rossi e larici, ormai una costante del viaggio. Al suolo ci sono varie fioriture, tra cui dei lunghi steli pieni di campanule viola e delle vulnerarie. Vedo anche due farfalle nere a pois rossi che si accoppiano. Ci sono terrazzamenti fin quasi a quota 1900, dove suppongo fosse coltivata la segale, il cereale che meglio si adatta al freddo della montagna. Sento poi camminare su un tronco, mi fermo e mi guardo intorno, finché scorgo uno scoiattolo rosso che si sta arrampicando. Lo osservo fino a quando scompare tra i rami. Più avanti, poco lontano da me plana un gheppio. Il sentiero sale regolare fino a un alpeggio diroccato, quindi attraversa un alneto, al solito impenetrabile, se non ci fosse la traccia. Poi il bosco di dirada e vedo l'alpe Djouan, dove arriverò fra un po', con le mucche al pascolo. La mulattiera sale graduale a tornanti, ma ci sono anche piste per accorciare il percorso.
Sbuco fuori dal bosco in corrispondenza della casa di caccia di Orvieille, ora casotto dei guardaparco, accolto da una marmotta. Marcata con una clip all'orecchio, non mostra alcun timore di me. Qui il panorama spazia dal Gran Combin alle cime che chiudono a est i Piani del Nivolet, dalla Tresenta all'Herbetet. Significative porzioni dei ghiacciai sono prive di neve già a metà luglio, a causa della ferale combinazione di un inverno siccitoso e un'estate rovente. Bevo alla fonte del casotto. Proseguo poi passando per l'alpe Djouan, che ha una stalla di notevoli dimensioni. Attraverso una distesa di Gentiana lutea fiorita, seguita dagli anemoni già in fase di fruttificazione. Un traverso mi porta a incunearmi nel vallone del Nampio, che in questa zona è profondamente inciso dal torrente.
Vedo quello che sembra un escremento di lupo, sicuramente di un grosso canide, pieno di pelo chiaro. Purtroppo è già secco e non posso annusarlo: i lupi hanno delle ghiandole anali, atrofizzate nei cani, che conferiscono alle feci una caratteristico odore. Una volta annusatolo, non lo si dimentica più.
Arrivo al lago Djouan proprio mentre giunge anche il primo concorrente del trail. Sono stato fortunato, perché da qui i nostri percorsi si dividono (loro arrivano dal Nivolet) e non rischio più di trovarmeli di fronte, lanciati a tutta velocità. Mi fermo in riva al lago, mentre altri corridori passano alla spicciolata. Scatto qualche foto alla Grivola e agli eriofori all'inizio della fioritura, anche con il cellulare, da mandare la sera a mo' di cartolina. Una marmotta mi ignora del tutto, mentre le passo vicino. Ripristino la riparazione agli scarponi, che si era staccata. Provo a farla in un altro modo, sperando che duri di più.
Da qui la salita prosegue prima per prati e quindi per macereti e pietraie sistemate. C'è un altro lago, chiamato Nero, anche se è di un blu più profondo del cielo. Incrocio francesi che scendono con zaini grossi, italiani con zaini piccoli. Oggi è sabato e ci sono più escursionisti di giornata.
Al col Entrelor c'è un gruppetto di uomini saliti dal versante opposto, che parlano di tempi di salita e altre prestazioni. Non salgo alla Punta Pertchà, con gli scarponi in queste condizioni; la riparazione ha di nuovo ceduto e devo nuovamente ripristinarla. Per fortuna per oggi sarà l'ultima volta.
Dopo una consistente pausa, in cui resto ad ammirare il panorama che sto per abbandonare, prendo a scendere. Il primo tratto è su macereto, poi c'è un breve salto su gradini di metallo, con corda. Lo scendo girato, con le bacchette appese ai polsi che si incastrano mentre vado all'indietro. Mi sento un impiastro, e lo percepisce pure un signore che scende veloce e evita la coda dietro di me, passando per la pietraia. Ancora un tratto ripido, dove vedo un masso franato, che si è scavato una pista nel macereto, e poi sono su prato, tra fioriture e un esemplare di Parnassius apollo, l'unica farfalla che ho imparato a riconoscere, perché la mia preferita. Mi fermo a bere da una sorgente ghiacciata. Faccio una pausa a Plan di Feye, per ammirare delle stalle, oggi abbandonate, costruite con una volta di pietre a secco. Non avendo maestranze specializzate, le costruivano usando la terra come centina, per poi rimuoverla. Mangio una mela che mi avevano dato a Crest e ammiro una farfalla verde passeggiare sulla mia maglietta. Mi accorgo che, sulla cima di fronte, la Gran Rousse, c'è una gigantesca nicchia di distacco strapiombante, da cui è caduto del materiale a valle, spezzando un bosco in due parti, separate dal canalone di frana.
Scendo quindi verso il piano di Entrelor, l'ultimo pianoro glaciale del vallone sospeso, prima del salto nella valle principale. A cavallo del torrente trovo un gregge di pecore, non molto comune in Valle d'Aosta, che sin dalla fine del Medioevo ha puntato soprattutto sulle vacche, anche scrivendo regolamenti appositi che penalizzavano le greggi. Mi chiedo se il pelo chiaro che ho visto stamattina nell'escremento arrivi di qui, o se abbia invece commesso un errore di valutazione, confondendo delle feci di volpe o di randagio, che ha mangiato una marmotta. Proseguo nel piano lungo il torrente sassoso, fino ad arrivare al limite del pianoro, dove stanno pascolando delle mucche e dove c'è una croce, analoga ad altre che avevo visto in salita sui poggi panoramici.
Su pendio ripido, scendo per un lariceto a rododendro, con ontani, sorbi e pini, dapprima rado, poi sempre più fitto. Supero vari bivi e proseguo lungo un sentiero in traverso, bordeggiato da un ru, detto Grand Ru, che serve a irrigare i prati di Rhêmes-Notre-Dame. Questi ru datano quasi tutti alla fine del Medioevo, quando appunto si decise di privilegiare l'allevamento bovino, che abbisogna di più prati. Le pecore, invece, sono più adattabili e possono anche mangiare foglie o l'erba dei boschi, che invece fa produrre alle vacche un latte di qualità inferiore. Passo poi per un prato con due ville e una pista sterrata mi conduce al paese.
Rhêmes è un piccolo paese in stile, molto curato, sul fondo pianeggiante di una valle a U. Una volta d'inverno era spesso isolato, perché la valle è di difficile accesso dal basso. È infatti una valle sospesa sulla valle centrale, che nella parte inferiore è profondamente incisa dal torrente, che ha sovrapposto la propria erosione a quella glaciale. Ciò ha prodotto una bassa valle molto impervia. L'isolamento ha spinto la comunità a essere autosufficiente, anche grazie a dei terrazzamenti a segale analoghi a quelli visti a Eau Rousse. La sera, pertanto, per motivi culturali provo la birra di segale (blou in patois), che è molto aromatica. Come primo piatto scelgo la zuppa valdostana, che la padrona mi descrive come una zuppa con cavolo e fontina. Ne deduco che sia una zuppa liquida con della fontina, mentre scoprirò che è un enorme blocco di fontina fusa e risolidificata, che cela al suo interno delle foglie di cavolo e dei pezzi di pane. La cameriera me ne dà fino quasi a far traboccare il piatto e mi chiede stupita perché non ne voglia ancora. Tra l'altro, la fontina è un formaggio molto più grasso del solito: la si produce infatti senza prima raschiare via il grasso che risale, quando si lascia il latte una notte al fresco, ed è normalmente destinato a diventare panna o burro. A fine pasto mi ci vuole una passeggiata.
Approfondimenti
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Sergio Chiappino
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