Sasso d'Entova-lago Palù
Alpe Sasso Nero
16 luglio
Diario di viaggio
Tappa che si rivelerà molto più impegnativa del preventivato, tanto che rinuncerò a una cima panoramica, per il timore di restare senz'acqua. Attraversa un ambiente molto impervio di media montagna, dove i pascoli erano risicati, per terminare in mezzo alle folle dei pranzi al rifugio. Ci ho impiegato molto di più di quanto preventivato dalla guida.
La mattina punto la sveglia per fotografare l'aurora, perché le foto di ieri sera sono state insoddisfacenti. Per fare il minimo rumore, ho lasciato tutta l'attrezzatura in sala da pranzo, ma sarò delicato come un elefante. Per fortuna i due tedeschi sono signori e non rimarcano. Apparentemente lui continua a dormire anche quando ripasso a prendere la roba per partire. Stavolta il risultato è migliore, anche grazie alla presenza della luna, anche se il giorno ideale per questo sarebbe stato ieri. La colazione dolce prevede una fetta di torta con marmellata di lamponi.
Al risveglio ho avuto un attacco di pigrite e mi è passata la voglia di salire sul Sasso Nero, una cima di fronte al gruppo del Bernina che avrà senz'altro un panorama eccezionale. Sarò immediatamente punito per questa debolezza. Infatti la guida consiglia di tornare indietro e imboccare il sentiero che conduce alla sterrata di servizio ai dismessi impianti per lo sci estivo. Tuttavia dal retro del rifugio un cartello indica un sentiero diretto. La strada transita poco sotto, per cui provo ad andare di lì, senza chiedere indicazioni a Giuliano. Non mi fosse mai venuto in mente! Dopo un tratto tra stentate zolle e pietre, finisco tra pietraie impervie e salti rocciosi, dove sudo subito anche l'anima. Quando mi sembra di essere quasi in salvo, mi tocca un ripido canalino di rocce fradice e fanghiglia scivolosa, dove non trovo di meglio che strisciare sul sedere. Avevo lavato i pantaloni ieri sera e oggi mi toccherà replicare. Poi peraltro l'ambiente è fascinoso, perché transito ai piedi di bellissime pareti di roccia ossidata, che però a malapena noto per la tensione dell'incedere. Allo sbocco sulla strada un cartello indica trenta minuti per raggiungere il rifugio: io ce ne ho messi cinquanta, e sembra appena a un tiro di schioppo. Estiqaatsi.
Proseguo in quota per la strada, sempre sotto le pareti che adesso riesco ad ammirare più da lontano, ma con maggior serenità. Sulla dorsale riesco a scorgere il rifugio costruito negli anni ’80 per lo sci estivo, con un lembo degli impianti. Superfluo dire che non da oggi è completamente inservibile. Quest'estate poi chiuderanno anche gli impianti più consolidati, come lo Stelvio e Plateau Rosa. Già allora al principio ad agosto la neve veniva meno. Negli anni 2000 si era pensato di rilanciarlo, creando uno snow park per ggiovani con tanto di musica e intrattenimento, ma non se ne fece nulla.
Oltre un impluvio, dove scorre un certo flusso di sfasciumi, raggiungo un tornante dove l'Alta Via lascia la strada salire e prosegue diritta in quota. Vedendo da lontano due ciclisti arrivare, mi apposto per fotografarli insieme al paesaggio, ma costoro, giunti all'impluvio precedente si fermano, si fanno un servizio fotografico reciproco e fanno dietrofront, lasciandomi con le pive nel sacco.
Subito affronto un guado, che sulla guida è dato come impegnativo, ma con il secco di quest'anno, lo passo mettendo comodamente i piedi nelle due di dita di acqua, nonostante le pietre siano scivolose. Mi aspetta quindi stentata vegetazione arbustiva, qualche labile traccia qua e là e soprattutto rosse pietraie vergini di grandi massi ad libitum: per la successiva ora e mezza mi calo su e giù da loro, tengo le bacchette con una mano e faccio perno con l'altra, titubo, ritorno sui miei passi, perlustro alla ricerca di segni gialli, sto in precario equilibrio su pietre aguzze, incastro un piede in una buca nascosta, guado rii su rocce scivolose. Essendo tutto in quota, non posso neppure cercare conforto nell'altimetro per capire quando finirà. Nei momenti di quiete faccio voto solenne di non fotografare più il Disgrazia, che mi accompagna per il terzo giorno, anche perché credo di aver esaurito la varietà di primi piani con cui accompagnarlo: fiori, massi, larici pionieri, laghi, vacche, bandiere tibetane, tavoli da pic-nic, sdraio, escursionisti. Per il mio sito ci starebbe bene ancora una Panda, ma qui non ne ho viste. Trovo un sasso piatto e ne approfitto per accomodarmi a bere e mangiare due pesche, per avere le energie per proseguire. Il paesaggio, senza eccezione alcuna, è molto roccioso e selvatico, sia qui attorno, un bosco rado di mughi, larici e cembri tra le rocce, ma ancor di più sulle pareti sovrastanti.
Passato il bivio per l'alpe Entova, dove il paesaggio si addolcisce un tantino, raggiungo dei dossi montonati, da cui mi affaccio al miserrimo alpe Sasso Nero: paradiso delle capre, purgatorio degli asini, inferno delle vacche, dicevano e mi sembra un riassunto efficace di quello che vedo. Non oso immaginare la povertà che spingeva a colonizzare questa distesa di pietre. Le baitine sono molto rudimentali, costruite con pietre molto diseguali, non c'è una sorgente né un rio. Dopo tre ore abbondanti di cammino, mi è rimasto appena mezzo litro d'acqua, nonostante la temperatura non sia elevata, per cui non si ne può neppure fantasticare di salire altri 600 m sotto il sole. Retrospettivamente credo sarebbe stato meglio scendere verso l'alpe Entova e risalire, perché avrei sì dovuto superare un maggior dislivello, ma sarei rimasto su veri sentieri di accesso a un alpeggio, come quello da cui mi allontanerò da qui. Mi fermo invece a pranzare. Dalla mia direzione arrivano tre uomini, portando con sé un grosso tronco secco, che depositano in una baita: avranno bisogno di fare fuoco per trascorrere la notte.
Dopo un po' di riposo, risalgo un dosso montonato e, finalmente su un sentiero vero, inizio la discesa verso il lago Palù, che quasi subito appare, molto sotto il livello abituale. È il maggiore del centinaio di laghi naturali malenchi e si trova in una conca di materiale morenico, chiuso a monte su due lati e aperto a valle sugli opposti. Tutto attorno ci sono boschi di abeti rossi e piste da sci, per cui funge anche da riserva in caso di scarse precipitazioni, come lo scorso inverno. Per protesta contro questi prelievi, dal 1971 ogni anno viene posata sul fondo una copia della statua del Cristo degli Abissi di San Fruttuoso, con funzione apotropaica. Contemporaneamente i sub puliscono il fondale del lago. In origine non aveva un emissario, ma le acque fluivano nelle porosità del terreno morenico, per sgorgare più a valle, ed era ancora più ampio, arrivando anche fino al limite degli alberi, che lo circondano. Successivamente una captazione a scopo idroelettrico ne ha ridotto la superficie. In passato era anche pescoso.
Mentre scendo traversando tra radi mughi, incrocio due ragazzi che in inglese mi chiedono quanto manca al Longoni. Senza essere troppo crudo e dettagliato, cerco di far loro capire che li aspetta una certa sfacchinata, per le successive tre ore, per di più con molto più caldo di quello che ho trovato io. I loro visi ancora senza rughe si tingono di un'ombra di morte.
La discesa si fa più ripida, i mughi più fitti e il caldo più asfissiante. Un signore quasi senza zaino sale di buon passo e mi chiede indicazioni per il Sasso Nero. Gli faccio notare che gli sarebbe convenuto passare per il Buchel del Turn, la via da cui sarei dovuto scendere e lui ammette di non aver preso la via migliore. Gli dico che dall'alpe sono indicate due ore, ma lui, dopo un attimo di scoramento, riparte di buona lena.
Dopo un impluvio di sfasciumi finisco l'acqua, ma entro in un bosco di conifere meno caldo. Un signore in pantaloni corti mi chiede se c'è tanta vegetazione invasiva. Arrivo all'alpe Roggione, gradevoli baite ai piedi del roccioso monte omonimo, da cui scendo al rifugio, incrociando non poca gente in salita, nonostante sia già pomeriggio e faccia abbastanza caldo. Al rifugio, in posizione solatia una cinquantina di metri sopra il lago, c'è la folla del weekend, tanto più che è comodamente raggiungibile con una breve passeggiata da una seggiovia. Vado subito a fare la doccia e il bucato.
Il rifugio è figlio dell'imprenditorialità locale, perché fu fondato da Nino dell'Andrino, guida alpina e medaglia al valor militare nella Grande Guerra, figlio a sua volta di un'altra guida, ma soprattutto leggendario cacciatore di camosci (il figlio rinunciò a una medaglia d'argento per avere in cambio un buon binocolo da donargli). Egli intuì le potenzialità turistiche del lago e acquistò dei terreni, dove, a partire dal 1928 costruì il primo nucleo del rifugio e lo condusse con il supporto della famiglia. Oggi è un modernissimo rifugio di bassa montagna, tirato a lucido, d'estate vocato al quella grande maggioranza di turisti che viene in montagna principalmente per mangiare, accompagnati da successi musicali del momento a tutto volume. Non ci possono arrivare in auto, ma la seggiovia li scarica a un quarto d'ora di passeggiata in piano.
Non presto una particolare attenzione a costoro, quando esco dopo la doccia a rilassarmi su una panca e a consolare la fidanzata. Dovrei forse invece origliare i loro discorsi e farmi un'idea di cosa li interessa quando sono in montagna, se si scambiano le impressioni su questo luogo, o se è solo una un palcoscenico dove recitare la vita quotidiana. Non so poi notare come sono vestiti, particolare che mi direbbe molto sullo strato sociale di appartenenza e di come vivono la montagna; purtroppo vesto comprando vestiti a caso, facendomi infinocchiare dai commessi, o altre volte delegando il compito, né mi preoccupo di cercare abiti adatti alle circostanze, per cui sono del tutto incompetente. Questa gente porta in una singola fine settimana molti più soldi all'economia montana di quanto facciano tutti gli escursionisti simili a me, che troverò nei rifugi la sera.
Leslie Stephen dovette constatare che anche ai suoi tempi costoro erano molto rappresentativi degli italiani, se, dall'alto della sua superiorità, scrisse che «[l'italiano] cammina mezzo miglio, fino alla base della collina e poi sciala al sole» (era alle terme di Santa Caterina Valfurva). Il lago fu visitato da Mrs. Henry Freshfield, alla fine dell'estate del 1861: allora il posto era assai più raccolto, perché c'era un unico semplice rustico, abitato da una famiglia in vacanza. Incontrò poi tre cacciatori, che oziavano sulle rive e si divertivano a sparare a casaccio. Il figlio Douglas, futuro celebre alpinista, esploratore del Caucaso e dell'Himalaya e successore di Stephen alla guida dell'Alpine Journal, salì con la guida fin sul Sasso Nero, da cui vide la catena del Bernina e l'allora impressionante ghiacciaio Scerscen, che doveva scendere per buona parte del vallone, fin quasi alle gole.
Più tardi nella camerata da sei arriva un ciclista francese di Belfort, cittadina dell'est non lontana da Basilea. Si chiama Jean-Charles ma si presenta con il soprannome di Gam Bas, che potrebbe derivare da un linguaggio di programmazione; per un francese, stranamente parla l'inglese molto disinvoltamente. Mi dispiace di non aver portato la maglietta personalizzata di Ford Prefect, lui avrebbe potuto essere il primo escursionista a capirne il significato. Ha preso cinque mesi di aspettativa e si propone di percorrere la Via Alpina in MTB; ci riuscirà talmente bene che, alla fine, preso dall'entusiasmo proseguirà lungo la Via Dinarica fino in Kosovo. Come simbolo di questi mesi sabbatici, sta facendo crescere la barba, che raserà ritualmente al ritorno. Ieri ha pernottato sotto le stelle al lago di Cavloc, sul versante svizzero del Muretto, lo ha risalito portando quasi sempre la bici in spalla ed è sceso a rotta di collo sino a Chiareggio.
Nelle Alpi di casa mia ha dormito nei forti del Toraggio, dove ha dovuto mendicare del cibo dalle persone, perché a fine maggio era ancora tutto chiuso, ed è rimasto impressionato dalla mulattiera tra i laghi del Claus e di Valscura, che mi mostra in foto (come non si potrebbe d'altronde?), oltre che dal canalone di Lorousa, anche se non sa che tutte le lapidi al laghetto sono di gente morta lì. Ha poi attraversato il resto delle Alpi occidentali in Francia, una saggia scelta, visto quanto sono ripide le Alpi piemontesi.
Si dice stupito che la sera il rifugio non sia affollato e io gli devo perciò fare una breve introduzione sugli italiani in montagna, che si guardano bene dal praticare trek a lunga percorrenza, preferendo le comode passeggiate per pranzare al rifugio, o al massimo le gite in giornata sulle cime. L'idea del cammino in montagna come viaggio è assente da questa platea; la si ritrova al massimo tra coloro che percorrono i cammini di ispirazione religiosa, che però si svolgono in collina e pianura su comode sterrate o financo su asfalto, mentre se venissero qui comincerebbero a piangere dopo i primi dieci minuti. Dalle mie esperienze precedenti, ricordo rifugi affollati la sera essenzialmente nelle zone frequentate da stranieri, oppure il sabato sera quando servono ad accedere a cime di richiamo.
Guardando i video che pubblica sui profili Facebook e Youtube, vedo che manifesta un certo autocompiacimento nel filmarsi mentre porta la bici a spalle per terreni impervi, pietraie e passaggi attrezzati: mi sentivo carogna per il mio piacere nel fotografare ciclisti appiedati, ma devo rivedere i miei giudizi. «No pain, no gain», mi dice. Lui è decisamente un supereroe dei tempi moderni: nei video in cui mostra il suo punto di vista, mentre sfreccia in discesa sulla sua bici, si coglie tutto l'aspetto ludico dell'alpinismo fondato dal British Alpine Club, accoppiato alla cronaca quasi in diretta dell'aggiornamento costante del profilo social.
Io invece, per estraneità al mondo impervio delle cime, dei ghiacci e delle gande, come anche del concetto di avventura in generale, assomiglio più ai viaggiatori del Grand Tour dei secoli precedenti, che restavano sui percorsi battuti. Prediligo il versante contemplativo e gnoseologico del viaggio, come gli illuministi, anche se non vado in giro con gli acidi per scoprire la natura delle rocce, come faceva Saussure, né tantomeno mi propongo di portare il lume del progresso nelle terre che visito o in quelle di cui riferisco le mie impressioni. Sono motivato dal fascino della perlustrazione fatta con le mie gambe e la scoperta fatta i miei sensi, da arricchire poi a casa poi con quelli più esperti e competenti di me, che mi hanno preceduto. Mi piace poi condividere tutto ciò con chi fosse interessato a ripassare di qui con il mio stesso spirito: approfondire e scrivere mi dona lo stesso piacere del viaggiare e mi richiede ancora più tempo. Lo faccio però con mesi di ritardo, perché le domande che il viaggio mi fa sorgere richiedono molte letture una volta rientrato a casa.
A me poi piace molto girare una zona omogenea da cima a fondo, come sto facendo ora. Nei viaggi lungo una linea retta, come il suo, invece, si cambia continuamente valle e anche cultura di riferimento, per cui si può vedere come cambiano paesaggio, architettura, cibo a ogni superamento di colle. Già il professore israeliano aveva espresso apprezzamento per questo aspetto.
La sera a cena sono proposti due primi, i pizzocheri e il risotto con la bresaola. Lui prende un mix dei due, che si rivelerà invece essere una doppia porzione, ma si farà onore, forse perché deve compensare le ristrettezze di quando dorme all'addiaccio e consuma due barrette in tutto il giorno. Di seguito spazzola una quantità di carne grigliata commisurata al consumo di oggi, mentre io mangio due uova e raddoppio solo le zucchine grigliate. Ama il cibo italiano: dopo la carestia svizzera, come non potrebbe? Questo è forse la cena migliore del mio viaggio, anche se per accessibilità sono più in un ristorante di montagna che in un rifugio alpino.
Galleria fotografica
❮ ❯
© 2008-2024
Sergio Chiappino
Questo opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.