Lago Palù-alpe Musella
Monte Motta
17 luglio
Diario di viaggio
La breve tappa di oggi, pensata come riposo dopo il Sasso Nero, ha il suo culmine sul monte Motta, una montagna di 2000 m posta al centro della Valmalenco, da cui riesco ad abbracciare buona parte della valle con uno sguardo. I motivi che mi hanno portato in cima sono principalmente due: vedere l'orrore delle piste da sci e la statua in cima, che ha una storia curiosa alla sua origine.
Al mattino mi faccio la barba senza specchio, non previsto di fronte al lavandino della camerata, incastrato tra la porta e il trave del tetto. Ho dormito profondamente quasi 10 ore, dopo che al Longoni avevo invece avuto un sono disturbato, e mi sono alzato al risveglio naturale, senza puntare nessuna sveglia. La colazione con müsli è soddisfacente; la signora mi chiede anche se voglio le uova con il bacon, ma resto fedele al vegetarianismo; avrò la possibilità di rifarmi abbondantemente. Prevedendo una tappa corta, non prendo un panino.
La fontana esterna è stata chiusa, perché sono a corto di acqua; mi arrangio al lavatoio. Una gattina grigia, che non si lascia toccare, gironzola attorno al rifugio e si fa le unghie su un tronco. L'addetta alle pulizie mi dice che è selvatica: si fa vedere solo quando c'è poca gente e scompare durante il giorno.
Prima di partire, chiedo ragguagli su Caa di Sciuur, una villa signorile affrescata, a cui conto di dare un'occhiata. La barista mi dice che è quell'edificio imbragato proprio di fronte alla terrazza del rifugio. Stava per collassare, per cui la Soprintendenza ha dovuto prevedere dei lavori urgenti per salvarla. Tra ponteggi e teli non riuscirò pertanto a vedere alcunché di persona, ma mi devo accontentare delle foto sul sito dell'ecomuseo. Mi aveva colpito in particolare un dipinto dedicato al Settimo Comandamento, una scelta non certo casuale, per dei sciurass tra montanari poverissimi. La casa fu fatta costruire dalla famiglia Battaglia, ricchi possidenti terrieri di Chiesa, per i soggiorni estivi. La casa era davvero lussuosa per l'epoca e comprendeva anche un piccolo frutteto e un lavatoio privato. Un ragazza della famiglia sposò un medico bresciano, trasferitosi in valle per l'interesse per le erbe alpine; un ramo si trasferì in Argentina, dove ho reperito un libro che ripercorre anche le loro gesta. Nolli non fu favorevolmente impressionato dall'ospitalità dei suoi abitanti, da cui sperava di scroccare qualcosa. Era infatti salito da Lanzada smarrendo il sentiero; dalla descrizione sembra essere passato per il Rovinone, la grande valle di terreno morenico eroso. Un suo compagno era assai provato e lui mise tutta la sua faccia tosta per farsi offrire qualcosa, ma invano.
Scendo a costeggiare il lago, tra attendamenti, per poi entrare nei boschi di abete rosso che lo circondano. Le piste sono molto ampie, ma le ombre sono ancora sufficientemente lunghe da offrire riparo dal caldo. Andando a memoria della cartina, senza segnali vado verso la zona di arrivo della seggiovia, che scarica chi viene a pranzare al lago. Lì trovo delle indicazioni per il passo di Campolungo e comincio a risalire una pista da sci, circondato da impianti di risalita e vari pezzi di risulta, lasciati in giro. Tra il sole sulla testa, da cui non ho riparo, nonostante a pochi metri ci sia il bosco, e la devastazione paesaggistica di questa conca lacustre, inizio a provare un forte senso di irritazione verso il mondo e tutte le persone che potrei incontrare. Quando ne divengo consapevole, scoppio in una risata e mi rendo conto di aver provato le emozioni che cercavo, programmando un passaggio qui.
Risalendo una sterrata sufficiente a tre camion affiancati, raggiungo il passo di Campolungo, prima del quale posso ammirare l'ombrosa parete del Roggione. Proseguendo per un pendio pelato dalle piste, tra materiale edile ammonticchiato, mi dirigo verso il monte Motta, dove gli impianti a fune oggi fermi sfiorano in vetta. Un bar chiuso completa il quadro di desolazione: non c'è nulla di più triste di una stazione sciistica fuori stagione.
La statua del Sacro Cuore di Gesù oggi appare relegata in un angolino, schiacciata tra la stazione della seggiovia, i ripetitori dei cellulari e le reti per impedire agli sciatori sbadati di precipitare a Lanzada. Fu edificata come voto per una grazia ricevuta: una vecchia di nome Candida era gravemente malata e i figli promisero di ringraziare dio tangibilmente se un sacerdote fosse arrivato in tempo per il sacramento dell'estrema unzione. La vecchia non solo ottenne il sacramento, ma si riprese anche, per cui sul sito dell'ecomuseo si vede una foto della signora accanto alla statua. Fu scelto questo luogo per la posizione dominante sulla valle, a beneficio dei cui abitanti è stata incisa una preghiera su una targa in bronzo. Nel 1959 ancora non c'erano gli impianti, per cui statua e materiale per il basamento furono portati a spalle dai figli della signora e dai loro amici.
Al mio arrivo, una coppia di trentenni è seduta di fronte alla statua e si sta baciando. Vari altri turisti in scarpe da ginnastica affluiscono alla spicciolata, restano qualche minuto in cima senza sapere cosa fare, per poi scendere. Il luogo è incredibilmente panoramico: riesco a vedere lunghi tratti del cammino già percorso e altri di quello che seguirà. La valle ha una forma dendritica breve e ramificata, per cui tutto sembra a portata di mano. Al fondo di un salto impressionante vedo i paesi adagiati sui versanti, tra prati e boschi. Attorno conto molte cime, dal Disgrazia, alla catena del Bernina allo Scalino. Va detto che la prima e l'ultima svettano e hanno una forma aguzza ben definita e isolata dal resto; il Bernina, che vedo per la prima volta da vicino, dopo averlo scorto da Marsciana, è invece affiancato da molte cime di pochissimo più basse e fronteggiato a valle da alcune vette di circa 3000 m, per cui la sua sagoma è meno stagliata, anche se si intuiscono i ghiacciai. Sono qui da una settimana e riesco a dare delle indicazioni a un signore, che mi chiede ragguagli sui monti circostanti.
Se non ci fossero gli impianti, il monte Motta via lago Palù sarebbe senz'altro una meta da consigliare a chi non cammina molto, semplice e accessibile, ma con una vista eccezionale. Domani sera in rifugio troverò un escursionista che non ama fare gite dove si vede il paese, mentre a me abbracciare in un solo sguardo tutta la montagna, dalla zona abitata ai ghiacciai, piace molto.
Tentando invano uno scatto al lago da questa prospettiva, scendo per la via di salita fino al colle. Vi trovo una palina che mi indirizza su un sentiero, ma è una fugace illusione. Già su una sterrata, raggiungo l'alpe Campolungo, che sarebbe apprezzabile, se non fosse nel mezzo di una pista da sci. Alla fontana, in coda ad altri escursionisti, con molta pazienza riempio un bicchiere con il filo d'acqua che scende.
Prendo ora a rotolare giù per una pista da sci, lungo la linea di massima pendenza. Prima di ritrovare l'Alta Via proveniente dal Bocchel del Torno, incrocio un signore con un enorme zaino blu con il basto di plastica. Gli chiedo lumi e lui mi racconto di aver risalito la val di Togno o val Painale, fino al rifugio De Dosso, di cui aveva le chiavi dategli dal CAI Valtellina. Era quindi risalito al passo degli Ometti, ma non aveva trovato il percorso segnalato ed era sceso come meglio era potuto: mi mostra dei tagli sui polpacci del tenore di quelli che mi fa il gatto quando gioca agli agguati. Ora è in giro da tre giorni e sta andando ad abbuffarsi al rifugio Palù, dal Beppe dice lui. Mi chiede se c'è una via più breve che salire al passo, ma lo devo deludere. Mi sarebbe piaciuto passare dalla val di Togno, ma la chiusura del rifugio omonimo me l'ha impedito. Era una valle marginale e aspra, in cui i malenchi collocavano una specie di inferno con contrappasso per i golosi, costretti per l'eternità a nutrirsi della sua magra erba. Nolli offre una descrizione molto vivida della leggenda.
Sotto un sole spietato, continuo a rotolare giù per la pista per un bel tratto, facendo caso ai triangoli gialli sparpagliati qua e là ai margini, che mi rassicurano che non sto scendendo a Campomoro. Nonostante sia una lucertola, oggi il sole ha dato fastidio anche a me. Raggiunta la stazione di partenza di una seggiovia, finalmente svolto a sinistra e trovo un sentiero in quota che si insinua nell'ombroso bosco di abeti, una vera benedizione, dopo tutto il sole della mattina. L'ambiente diventa gradevole e alpestre, tra grandi alberi e massi solitari, su uno dei quali è stato scritto un pensiero filosofico sulle emozioni. Mi affaccio dall'alto sulle gole dello Scerscen, il torrente che proviene dai ghiacciai del Bernina. Il colore limaccioso dell'acqua è davvero ripugnante. A monte delle gole, dove corre un sentiero attrezzato, lo supero su un ponte di legno, al termine di un grande pianoro, dove si allarga. Il colore grigiastro, la e portata abbondante mi evocano il livido Acheronte. Per la verità Dante aveva in mente fiumi di pianura, fiumi lenti e impaludati, e non queste acque gorgoglianti, perché non si spinse mai così in alto, né pare aver mai visto ghiacciai, che al suo tempo, dopo tre secoli miti, avranno avuto un'estensione minima. Tuttavia, lui che era un acuto osservatore dei fenomeni naturali, se fosse transitato di qui, non avrebbe mancato di includere questo luogo nell'inferno, perché non trovo altro luogo adatto a questo flusso plumbeo. E ancora non ho visto nulla di ciò che mi aspetta domani.
Per il ponte entro nel pianoro dell'alpe Campascio, molto verde, fiorita e circondata da una chiostra di picchi di roccia, mentre da un angolino arriva da una gola il torrente Scerscen. Nei primi prati, supero un rio di acqua limpidissima, lungo le cui sponde ci sono dei bagnanti. Scendo subito alla confluenza con le acque limacciose, per ammirare i gorghi con cui si mischiano le due acque, che però non sono particolarmente spettacolari: nessun Malestrom. Un aspetto che mi affascina di questo fenomeno è che, sebbene le equazioni del moto del fluidi siano note dall'Ottocento, non è mai stata trovata una soluzione generale: si conoscono solo soluzioni di casi particolari o approssimazioni numeriche. Spesso cerchiamo misteri nelle profondità del cosmo o in fenomeni oscuri, quando basta aprire il rubinetto o versare il latte nel tè, per generare un fenomeno inspiegato.
Al margine superiore del prato, raggiungo una casa dove delle persone stanno pranzando sotto gli ombrelloni. Entro quindi nel bosco e affronto una salita a tornanti abbastanza ripida, dove mi sorpassa un sacco di gente senza zaino, di età variabile tra gli 8 e i 60 anni. Sono in tipico lariceto pascolato, dove il bosco coesiste con l'allevamento grazie alla rada chioma di queste conifere, che permette la crescita dell'erba sotto le fronde. Lo studio già citato a proposito del larice millenario, ha mostrato che qui il pascolamento è stato sì in calo negli ultimi decenni, ma decisamente più intenso, ancora in anni recenti, così come il taglio, tanto che gli individui ultracentenari sono la minoranza, mentre prevalgono quelli novecenteschi, anche qui con un picco nei decenni del grande abbandono postbellico. Nolli conferma ciò affermando di aver ammirato Campascio dall'alpe Musella, cosa oggi impossibile per il bosco. Il paesaggio è caratterizzato da una grande quantità di ambienti in transizione, fatto di boschi fitti, boschi aperti, boschi pascolati e prati.
In questi dintorni sono state anche trovati diversi depositi di scorie, dovute all'estrazione di rame e dai minerali, anche se non è dato sapere dove fossero le miniere o i forni. Confrontando con altri siti alpini e datando al radiocarbonio i resti di carbone vegetale, è stato possibile datarle all'età del Ferro, in una fase in cui lo sviluppo tecnologico permise di migliorare la resa in rame rispetto all'Età del Bronzo. L'impianto non sembra essere stato molto strutturato, ma piuttosto uno sfruttamento disorganizzato di filoni facilmente reperibili. Lo stesso si può dire delle miniere medievali e posteriori, che rimasero piccoli affari disorganizzati, per cui non seppero adattarsi alla Rivoluzione Industriale, in quanto non sarebbe stato possibile trasformarli in grandi impianti moderni per la piccolezza dei filoni.
Raggiungo l'alpe Musella con i due rifugi, dove stanno ancora pranzando. A gestire il mio c'è un signore molto simpatico dal mento di un Capannelle con la barba, coadiuvato dalla figlia, mentre la moglie cucina. Vado a fare la doccia, dove sento il bisogno di acqua calda, perché la tappa più breve del viaggio mi ha sfiancato più della salita di 1700 m del secondo giorno, seguita da un riposo tra le lenzuola. La camera ha il vecchio pavimento ad assi delle case rustiche di montagna.
Vado poi a prendere un tè con una fetta di torta, mentre la folla domenicale tenta di svanire. Quando ho raggiunto il grado di privacy sufficiente, salgo a telefonare alla cappella sul dosso a monte del rifugio, costruita dagli alpigiani nel 1921. Da qui ho una buona visione della conca dell'alpeggio, un tipico laghetto colmato dai coni di deiezione, dove pascolano cavalli, asini, vacche e capre. Intanto, su un campo ondulato che richiede tiri sghembi, degli anziani si attardano in una partita a bocce, «un gioco che nelle vite degli italiani del nord riempie il posto occupato da cricket nei nostri curati e ufficiali», annota Douglas Freshfield assistendo a un torneo in val Cannobina. I vecchi nei loro ritrovi praticano ancora molto questo gioco; non è raro vedere campi accanto ai centri ricreativi o anche nei giardini di case private.
La sala da pranzo interna, dove ceno la sera come unico cliente della mezza pensione, è rivestita in legno ed è adornata da foto panoramiche delle montagne valtellinesi. Ce ne sono alcune più vecchie di un soggiorno di ragazzi di un oratorio sul finire degli anni ‘80, con l'abbigliamento che mi ricorda le foto di classe del liceo, e ad altre più storiche di un accantonamento di escursionisti liguri, quasi esattamente un secolo fa. La cena è con gnocchetti fatti a mano e dei formaggi dell'alpeggio sottostante, dei quali è spettacolare uno molto grasso (il gestore si ricordava del vegetarianismo dalla mail di inizio giugno, nonostante mi fossi dimenticato di ricordarlo nella prenotazione di qualche giorno addietro). Non sono un estimatore del km 0, che non ha nessun senso né ecologico né economico, ma in vacanza mi piace mangiare cibi locali, che a casa non potrei reperire.
Dopo cena socializzo con Sally, una cagna a pelo corto color panna, che dopo il primo approccio si offre immediatamente in posizione ginecologica a pancia in su. L'hanno presa dal canile, dopo che era stata gettata dal finestrino di un'auto, ma non ha conservato il timore delle persone. Davvero un amore. Il gestore mi dice di non avere problemi di acqua con la sua sorgente. Tuttavia è preoccupato lo stesso, perché crede che l'acqua arrivi dallo scioglimento del permafrost dei ghiaioni a monte dell'alpe, per cui, se continueranno gli inverni secchi e le estati calde, crede che prima o poi franerà tutto.
Galleria fotografica
❮ ❯
© 2008-2024
Sergio Chiappino
Questo opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.