Alpe Musella-Cresta Aguzza
Scerscen
18 luglio
Diario di viaggio
La risalita del vallone di Scerscen dalle strettoie di quota 2000 m a punta Marinelli è probabilmente la tappa migliore del viaggio, per la varietà degli ambienti attraversati. Sicuramente condensa in un singolo giorno molte delle atmosfere della valle: dormo in un alpeggio bucolico incastonato tra cime rocciose, parto da boschi di conifere, dove mi aspetto di veder saltar fuori uno gnomo, per terminare tra i ghiacciai del Bernina, passando per miniere, alpeggi al termine dell'universo, rombanti fiumi glaciali e pietraie sterminate, per concludere in un avamposto di frontiera. Altre tappe potranno avere singoli elementi migliori di questi, ma nessuna ne ha così tanti insieme.
Il curioso nome del vallone, pronunciato con accento piano, sembrerebbe derivare da qualche termine per cerchio: o dal recinto del bestiame (circinus in latino), oppure dal cerchio dove si mette la cagliata del formaggio (scersc in dialetto malenco).
La colazione è semplice e nutriente, come nello stile del rifugio. Gratto ancora un po' Sally sulla pancia, sotto lo sguardo condiscendente del padrone, e poi parto. Resto sul margine vallivo dell'alpeggio, ancora in ombra, perché il sole ha appena raggiunto i picchi sovrastanti, sotto cui transiterò domani senza vederli, per le nuvole basse. Passo accanto al nucleo principale dell'alpe, dove ci sono casette di pietra ristrutturante di recente, conservando lo stile. Oltrepasso il margine della conca e prendo a tagliare un ripido pendio boscoso, diretto verso la strettoia del vallone Scerscen, passando a monte dell'alpe Campascio. Il bosco di larici e altre conifere, con sottobosco di mirtilli, gronda umidità. Ancora sospeso tra notte e giorno, prima che arrivi il sole appare fatato per la sovrabbondanza di verde, i massi erratici e i dossi montonati viola, che preannunciano sin d'ora l'ambiente glaciale del vallone superiore.
Dove mi insinuo nella strettoia, il bosco si dirada e comincia a comparire il lontananza la testata del vallone, già al sole. Passo sotto una meravigliosa parete levigata strapiombante, dalle striature colorate mai viste; mi fermo lungamente per capire come posso estrarne una foto che riproduca un minimo l'impressione, che viene dalla tridimensionalità da torcicollo della scena e non è facile catturare in due dimensioni.
Dove la valle si restringe tra il Sasso Nero mancato l'altro ieri e il Monte delle Forbici, mi dirigo verso il limaccioso torrente. La mente è distratta da pensieri sull'opportunità di salire il Pizzo Scalino, nel giorno di sosta all'alpe Prabello, per pietraie ancora più inospitali di quelle affrontate sinora. Se invece fossi vigile e se pure leggessi le guide prima di partire, anziché dopo per saziare le curiosità che mi vengono strada facendo, non potrei non notare la “poltrona del diavolo”, un cilindro che si stacca dalla parete, modellato dall'erosione fluviale, come anche le marmitte dei giganti sul fondo del vallone. A essere sincero, cerco di non leggere troppo prima di partire, per non essere eccessivamente influenzato dai paesaggi di carta e per potermi invece fare un'idea personale, per quanto soggettiva e sbagliata. Anche Nolli descrive la delusione di una cascata, dopo che ne aveva costruito un'immagine mentale grandiosa e poetica.
Al proposito riporto per intero le parole di Guglielmo Scaramellini, docente di geografia a Milano: «Proprio questi caratteri possono spiegare il “paradosso del viaggiatore” di cui si diceva poc'anzi: il contatto diretto di questi con una realtà geografica a lui non consueta non costituisce percezione neutra di un oggetto, immediata e libera da ogni condizionamento (come solitamente pretendono per sé gli autori di resoconti di viaggio) ma è piuttosto un'applicazione alla realtà concreta di immagini mentali codificate, preesistenti nella mente del soggetto al contatto diretto: la cosiddetta percezione, quindi, non è altro che la messa a confronto delle proprie credenze e atteggiamenti (la memoria non vissuta) con la realtà esterna. Confronto che spesso consiste - nel caso non infrequente di mancata corrispondenza fra immagine e realtà - più in un adattamento della realtà all'immagine che non nell'operazione contraria, e dunque nell'esposizione delle idee del viaggiatore, nella descrizione, per così dire, di territori mentali, immaginari: le immagini codificate - proprie della sua cultura - sono - in effetti - lo strumento col quale ogni individuo si accosta al mondo e lo interpreta» (Paesaggi di carta, paesaggi di parole, 2008)
È un atteggiamento che si manifesta fin dai primi viaggiatori illuministi del Settecento: questi sembrano transitare solo da luoghi già codificati e notare esclusivamente dettagli riportati nei precedenti. Emblematico il caso del cretinismo di Villneuve (Valle d'Aosta), notato la prima volta da Saussure: «osservazioni sullo stesso oggetto si ritrovano anche nei diari di viaggio di Spallanzani, Pini, Andreani, Amoretti e, ancora nel XIX secolo, nelle osservazioni degli alpinisti inglesi William Brockedon e Edward Whymper» (M. Ferrazza, Il Grand Tour alla rovescia. Illuministi italiani alla scoperta delle Alpi, Torino 2003). Non era certo una novità, perché già i viaggiatori arabi che nel Medioevo visitavano Roma, facevano a gara per riportare eventi mirabolanti, che si sarebbero verificati in quella città, che per loro aveva un valore mitico a causa del suo passato.
Subito prima di scendere al torrente, transito per una pietraia di piccoli sassi, sotto una parete rocciosa. Alla sua base la facciata di una casa edificata sul filo della parete era l'ingresso di una miniera di amianto. L'estensore della guida dev'essere di estrazione geologica, perché si illumina nell'esaltare la qualità della fibra qui estratta e perché nei dintorni se ne può trovare nelle discariche. Naturalmente oggi, essendo fuorilegge, non è più estratto, ma in valle ci sono cave di serpentino che contengono filoni di crisotilo. In particolare il taglio delle rocce più ricche di questo minerale, che avviene in ambienti chiusi, genera concentrazioni pericolose, ma per fortuna il processo è automatizzato e non richiede la presenza di operai, per cui per evitare esposizioni dannose alla salute è sufficiente ventilare prima del loro ingresso e lavare macchinari e vestiti.
L'aspetto che mi affascina dell'amianto è la sua lunga storia magica, curiosamente legata a un simpatico animale che di certo non vedrò certo in questo viaggio, a causa della siccità, ovvero la salamandra. Plinio il Vecchio conosceva il minerale ed era stato impressionato dalla vista di tovaglioli di amianto gettati nel fuoco, da cui erano usciti intonsi e lavati (Storia Natutale, XIX, 4). Non sapeva però da dove arrivasse davvero, ritenendolo ricavato da una pianta indiana del deserto. La sua origine era invece nota a Dioscoride, medico del tempo di Nerone autore del De materia medica, un'opera molto influente fino al Rinascimento, che ne collocava l'origine nelle miniere di Cipro. Plinio ne documenta l'uso cerimoniale, per separare le ceneri dei sovrani dalla pira durante la cremazione, e vi attribuisce anche poteri magici, dove consiglia indumenti di amianto come protezione dalle maledizioni, in particolare quelle dei Magi (XXXVI, 31), i sacerdoti persiani citati nel vangelo di Luca. Il legame con le salamandre è che anch'esse erano ritenute invulnerabili al fuoco, anzi capaci di estinguerlo al solo contatto (II, 86). La nozione arriva da Aristotele. Dioscoride invece negava questa proprietà (II, 67), ma, nonostante la sua autorità, non fu seguito su questo punto.
Questa idea sulle salamandre passò alla cultura cristiana, che, già a partire dalla tarda antichità e per tutto il Medioevo, elaborò ulteriormente le informazioni di Plinio. Lo scopo degli autori cristiani non era scoprire come andassero davvero le cose in natura, ma di comprendere la realtà ultraterrena attraverso i simboli che il loro dio avrebbe disseminato nella creazione. Questa letteratura aveva dei predecessori nella cultura ellenistica, a cui i cristiani trovarono il fondamento teologico in plurime citazioni bibliche, da «Va' alla formica, o pigro, guarda le sue abitudini e diventa saggio» (Pr 6,6) a «Ciò che Dio ha di invisibile fin dalla creazione del mondo, si rende visibile all'intelletto attraverso le sue opere» (Rm 1,20), oltre che in idee espresse dai padri della Chiesa. Nacque così il filone letterario dei bestiari, a cui attinse anche Dante per la scena della lonza, del leone e della lupa, incontrati all'inizio della sua avventura nell'oltretomba.
Il capostipite cristiano è il Fisiologo, un testo composto in ambiente egizio nel II-IV secolo, a cui ne sono seguiti infiniti altri. Per quanto riguarda la salamandra, questo adopera la sua capacità pliniana di estinguere il fuoco per spiegare un passo del libro del profeta Daniele, in cui Anania, Misaele e Azaria escono illesi da una fornace per aver confidato nel dio dei Guidei. Nel bestiario di Philippe de Thaün il fuoco diviene simbolo dell'inferno, che non brucerà il giusto, per Guillame le Clerc sono le passioni da cui è immune il saggio. Altrove è il simbolo degli apostoli, su cui lo spirito divino scese sotto forma di lingue di fuoco.
Tuttavia è con la leggenda del prete Gianni, che si fa il salto all'amianto. A metà del XII secolo, all'imperatore bizantino e, in forma lievemente diversa ai sovrani europei, arrivò una lettera, nella quale il sovrano di una fantastico regno nestoriano dell'Asia si presentava e offriva il suo aiuto contro i turchi. In questo regno sarebbe stato pane quotidiano un'incredibile quantità di meraviglie. Tra queste, si raccontava di vermi, detti salamandre (concetto di derivazione aristotelica), che vivevano nel fuoco e si costruivano attorno un bozzolo, che era svolto e trasformato in un tessuto, che era lavato gettandolo nel fuoco: esattamente l'amianto descritto da Plinio.
La storia passò al Parzival, il celebre poema cavalleresco: nel libro XV, l'avversario pagano, che si rivelerà essere fratello del protagonista, indossa una veste forgiata dalle salamandre nei fuoco (734, 24-26 e 757, 4-5), che purtuttavia sembra essere di un materiale diverso dall'amianto, definito altrove «legno strano e sempre intatto». Venne anche ripresa da bestiari posteriori, come quello di Richard de Fournival, circa un secolo dopo, che ebbe grande successo. Questo rinnovò la formula del genere letterario, eliminando la prospettiva religiosa e limitandosi a quella simbolica, con la passione amorosa come fulcro. In esso il poeta è paragonato alla salamandra, perché vive nel fuoco della passione senza consumarsi. Petrarca riprenderà pari pari questa metafora nel sonetto 207 del Canzoniere.
Marco Polo all'inizio del XIV secolo (ri)scoprì l'origine dell'amianto, parlando con un turcomanno al servizio del Khan. Quegli gli riferì che nel Chienchitalas (l'attuale Xinjiang della Repubblica Popolare), l'amianto era estratto dalla terra e gli descrisse il processo di lavorazione e filatura. Infine, la prima opera scientifica sulla mineralogia, il De natura fossilium di Georg Bauer (latinizzato in Georgicus Agricola), pubblicato nel 1546, mostra di aver completamente compreso la natura minerale della fibra, seppure le sue proprietà ignifughe sono ancora categorizzate all'interno della concezione classica degli umori.
Quanto alla salamandra, Alberto Magno, nella seconda metà del XIII secolo, il primo a indagare il mondo animale in maniera empirica, smentì le credenze sulla sua resistenza al fuoco, osservando che resisteva solo a fiamme molto piccole, a causa della sua freddezza. Il suo trattato afferma anche che i venditori ambulanti chiamano lana della salamandra la lana di ferro, uno scarto della lavorazione del metallo, mostrando che la credenza era diffusa anche a livello popolare e faceva parte del comune sentito dire.
L'amianto non ha affascinato solo gli occidentali: una leggenda ebraica, riportata anche nel Corano, vuole che anche Abramo sia passato indenne tra le fiamme. Secondo un'agiografia di un missionario cristiano in terra islamica, quando egli restò indenne alle fiamme in cui era stato gettato, il giudice affermò che indossava la lana della terra di Abramo. Alcuni autori cinesi erano convinti che l'origine della fibra fossero invece i peli di un roditore; la nozione passò anche nella più antica opera letteraria giapponese pervenutaci, Taketori Monogatari (La storia del tagliatore di bambù).
I motivi d'interesse sono stati già così numerosi, che mi devo fermare a prendere appunti, prima di varcare il ponte, nonostante sia appena partito. Passo quindi sull'altra riva per un ponte commisurato alle piene che può scaricare questo torrente. Mi inoltro in un sassoso piano glaciale, chiuso a monte da uno sbarramento roccioso. Durante la piena pomeridiana sembra invaso dal torrente, a giudicare dall'estensione del limo umidiccio. Attraverso un pietraia sistemata, guadagnando quota sul fianco, per superare la bastionata rocciosa, ai cui piedi noto delle opere di regimentazione o captazione. Nel 1908 questi dossi montonati si presentarono nudi a Marson, a indicare che il ghiacciaio li aveva lasciati da poco.
Raggiungo così la minuscola baita dell'alpe Scerscen, costruita a mo' di balma addosso a una parete, in una zona di sorgenti, attive persino oggi, che mi fanno ritrovare il prato, dopo il piano roccioso. Tento di incunearmi dentro, ma è impossibile senza urtare qualche muro e poi non c'è davvero nulla da vedere. Rimonto il dosso erboso retrostante e noto che i pascoli erano stati distrutti dall'espansione glaciale napoleonica, perché la morena frontale è subito sopra l'edificio; solo più in alto si erano preservati grazie alla protezione della spalla rocciosa, che scende dalla Sassa d'Entova. Ancora la carta svizzera di fine secolo lo mostra attorniarla. Inoltre questa mostra un'alpe Scerscen molto più in quota, ma più soleggiata, a 2600 m su un terrazzo lungo il sentiero che scende dalla Forcella d'Entova alla spalla, dove ora sorge il Cimitero degli Alpini, a cui arriverò tra poco. Già tra le due guerre si erano riformati e una foto sul De Bernardi mostra un gregge di pecore su questi prati, ma ora, senza servizi né strade, che devasterebbero il paesaggio delle gole, non è più proponibile portare armenti fin qui. Risalgo i novelli prati, dove c'è anche qualche larice pioniere, in una valle che si è allargata sensibilmente. Sarà anche il sole nel frattempo arrivato, ma l'amenità di questa oasi di prato fiorito, cinta a valle da gole selvagge, sbarrata a monte dal mondo delle pietre e dei ghiacci, ne fa quasi un luogo mitologico, una Thule isolata e felice in un oceano di solitudine.
Raggiungo la sommità dei prati, su un dosso montonato, a guardia del torrente, che si è scavato un passaggio aggirandolo molto più in basso. Il paesaggio cambia radicalmente, perché d'improvviso mi affaccio su una terra glabra, di enormi distese di ghiaia e sfasciumi, ai piedi di cime di roccia e ghiaccio. Sul dosso c'è un crocevia di sentieri: sulla sinistra si sale verso la forcella d'Entova, da cui si scende al Longoni, diritto devo proseguire, ritornando sul fondo del vallone, ma prima prendo una traccia sulla destra, che per dossi mi porta al cimitero degli Alpini. Qui sono sepolti dei soldati morti sotto una slavina, che si staccò dai pressi della soprastante Bocchetta delle Forbici, 400 m più in alto, dove oggi c'è un monumento in loro ricordo, nell'aprile 1917. Pattugliavano la Linea Cadorna, il sistema difensivo volto a rallentare una mai arrivata invasione tedesca via Svizzera, che di lì a breve, dopo Caporetto, sarebbe stato abbandonata. La targa commemorativa chiaramente non è stata scritta dalle mogli. Una vecchia foto mostra il cimitero con la lingua terminale del ghiacciaio protendersi ai suoi piedi, nella valle. Torno quindi al colletto, dove mi fermo, mangio cibo energetico e mi spalmo la crema solare, perché si sono fatte le 10.30 e di certo oggi non sarò più all'ombra.
Scendo sul fondo del vallone, per l'ultimo lembo verde della giornata, raggiungendo un torrente limaccioso davvero impressionante, per l'aspetto spumeggiante, ma soprattutto per il rombo sordo che emette. Questo brontolio mi accompagna fin quasi alla Marinelli e sarà uno dei ricordi più vividi che porterò a casa. Non noto il bivio per la Carate, né il ponte che mi consentirebbe di oltrepassarlo. Risalgo il torrente proveniente dalla vedretta inferiore di Scerscen per un lungo tratto, dirigendomi verso delle bianche rocce calcaree, lasciate scoperte dal ritiro, tra cui si incunea. Presso un altro bivio per la forcella di Entova, dove il torrente si stringe e s'infossa, lo passo su un ponticello di quattro assi, senza sponde, alto sulla forra scavata nel molle detrito morenico, su cui guardo fisso i piedi e sto più al centro che posso. Il sentiero continua a costeggiarlo, correndo in discesa sulla sponda opposta. Da un masso riesco ad affacciarmi su una rapida per una foto. Sono in preda al terrore: l'acqua e la corrente d'aria generata dal flusso intenso, sembrano voler allungare degli artigli mostruosi per ghermirmi e trascinarmi con sé a sfracellarmi contro le rocce. Un dettaglio mi scombussola: la portata tumultuosa e l'aspetto limaccioso del torrente non sono alimentati dalla pioggia, ma al contrario dal caldo anomalo, che fonde il ghiaccio e libera il detrito, che questo ha scavato nel corso dei secoli raschiando le rocce.
Per colate moreniche, prive di vegetazione, punto al di sotto della base del ghiacciaio superiore, di cui scorgo solo il fronte, molto più in alto, propeso sul precipizio, da cui una calava una lingua e si univa al ghiacciaio inferiore. Da esso ora invece scendono cascate multiple, che poi convergono in torrente inguadabile, anche a piedi nudi. Stavolta lo passo in una zona pianeggiante, dove la portata è copiosa, ma l'aspetto più gentile che quello del precedente. Sono ai piedi della morena laterale della vedretta, che separava le lingue dei ghiacciai inferiore e superiore, prima che si unissero ai piedi della Bocchetta delle Forbici. La risalgo ansimando in diagonale, fino a raggiungere il filo. Solo le foto mi rievocano il suo mantello erboso, scomparso dai miei ricordi. Questi ambienti instabili, sottoposti a condizioni climatiche estreme, a eventi geomorfologici anche catastrofici, repentini gradienti di habitat, sono di grande interesse per i naturalisti, per via della loro dinamicità, che consente di osservare numerosi processi biologici nella loro evoluzione. Una condizione che si ritrova in un po' tutta la montagna italiana, anche a quote più basse, anche se soprattutto per il mutare della pressione antropica, e la rende un ambiente in mutamento molto affascinante.
Mentre lo seguo, mi è frattanto venuto in mente il ritornello ossessivo e incalzante di una celebre canzone degli R.E.M., dove Michael Stipe ripete a ritmo frenetico “It's the end of thw world as we know it” e Mike Mills controcanta “It's time I have some time alone”: dopo la domenica in mezzo alle folle e agli impianti, mi sembra un buon condensato della tappa odierna.
Dal culmine della morena accedo a un piano di grandi massi, tra cui balzellare, ma che trovo più agevoli di quelli dei giorni scorsi. Su due ponti supero due torrenti, sempre poco rassicuranti, poi il ricordo è obnubilato dalla fatica già quando stendo gli appunti al rifugio: ci dovrebbe essere un'ulteriore morena, quindi altri grandi massi, che mi conducono su un lunga cengia, dove il terreno finalmente diventa più agevole, di pietre piccole tra cui scorgo persino una traccia. È la fine della danza orgiastica nella desolazione. La guida se l'era cavata con mezzo periodo di descrizione tra il primo ponte e qui, ma il mio ricordo è di una gran sfacchinata.
Il panorama frattanto si è allargato a dismisura: il vallone sotto di me è ora sprofondato in una vasta quanto desolata e scabra conca. Alle spalle vedo dall'alto quello che rimane della vedretta di Scerscen inferiore, raggrinzita come una vecchia del secolo passato, una vegia du balm fuggita dal mondo con un ritmo acceleratosi negli ultimi anni, molto meno crepacciata e «sublime orrore» del ghiacciaio del Disgrazia, solo tanto triste. Al suo termine si è formato un laghetto con le acque di fusione sbarrate dalla morena. A monte, sono sotto le incombenti cime a ovest del Bernina, scorgo quella il bivacco Parravicini sul margine del ghiacciaio superiore. Per chi ama l'alta montagna, dagli sfasciumi in su, i panorami migliori dell'Ata Via visti finora. È un vero peccato che questa sia salita così onnicomprensiva sia solo una variante del percorso principale, perché invece la salita diretta dall'alpe Musella alla Bocchetta delle Forbici, sia vista stamane dal basso che domani dall'alto, mi darà piuttosto l'impressione di monotonia, tipica delle risalite dei pendii.
Sulla cengia devo ancora risalire per una successione di spalle, finché su traccia nel terriccio giungo in vista della terrazza del rifugio, a cui con un enorme salto sopra il vuoto, arriva anche la linea elettrica vista percorrere il vallone. La Marinelli fu inaugurata nel settembre del 1880 con il nome di Scerscen, per iniziativa di Damiano Marinelli, socio del CAi di Firenze, che si era accorto della necessità di un punto d'appoggio tra l'alpe Musella, l'ultimo ricovero allora disponibile, e il Bernina. Con una campagna di crowdfunding fra le sezioni CAI di tutta Italia, riuscì a raccogliere la somma necessaria e supervisionò in prima persona i lavori. Purtroppo i giorni dell'inaugurazione furono funestati da una perturbazione, per cui la maggior parte dei convenuti si limitò a un sontuoso pranzo a Chiesa, accompagnato da «fuochi d'artificio e del bengala, coi palloni volanti ed altresì pel concorso della banda di Torre», come scrisse il giornale La Valtellina. La capanna riscosse subito successo, tanto che già nel 1905 si rese necessario ampliarla. Nel frattempo Marinelli era caduto nel corso di un'ascensione e il rifugio gli fu intitolato. Al nome fu poi aggiunto quello di Luigi Bombardieri, che nel secondo dopoguerra si era adoperato a suo favore, dopo che morì quando l'elicottero su cui viaggiava urtò il cavo della teleferica.
Un edificio così grande e al contempo così triste per il cemento a vista,, così in alto e così lontano dalla civiltà, almeno per la mia via di salita, trasmette una sensazione di disagio, di fuori posto.
Arrivando, la vista si è ampliata verso il circo delle punte di Musella, con i suoi miserrimi ghiacciai già senza neve e impraticabili, come quello di Caspoggio dove transiterebbe il percorso principale dell'Alta Via. Questi anche più di altri, ormai sono pozzanghere di ghiaccio, resti di una stagione passata dove gli alpinisti alla ricerca dell'esperienza delle alte quote si affollano sugli ultimi lembi, come gli elefanti nelle pozze dell'Okavango al culmine della stagione secca. Un secolo fa erano invece un circo unico e una grande lingua che scendeva sotto il rifugio verso la valle di Scerscen.
I tavoli della terrazza sono occupati da un folta orda di adolescenti di un oratorio, guidati da un prete fulvo e barbuto. Vari ritardatari e genitori continuano ad affluire. Mi accomodo su una panchina a mangiare il panino al formaggio. Avevo provato a chiederne uno con pomodoro e cipolla, perché gli gnocchi erano conditi con pomodoro fresco, ma avevano impegnato l'ultimo rimasto loro a fine settimana.
Mollo quindi lo zaino nel locale scarponi, ripongo il minimo nello zainetto pieghevole, che tengo nello zaino per la sera, e parto alla volta della punta Marinelli, un 3000 di semplice accesso a monte del rifugio. Nonostante l'ambiente di alta montagna, la salita è semplice, perché si svolge tra sfasciumi di dimensioni medie o piccole, dove talvolta compare persino una traccia, oppure su rocce solide in debole pendenza. La Guida ai Monti d'Italia classifica F la salita, ma mi sembra davvero esagerato considerarla alpinistica. Fino al colle ho qualche incertezza a trovare il passaggio migliore, unicamente quando devo attraversare un avvallamento roccioso. Fino al colle c'è anche qualche bollo giallo, perché, se i ghiacciai fossero praticabili, di qui passerebbe la variante alta della prossima tappa, ma devo affidarmi principalmente agli ometti di pietre. Anticipato da un vecchio zaino rosso posato a terra, mi appare di sfuggita un tizio a torso nudo, che apparentemente staziona nel bel mezzo del nulla. Supero un rio di scioglimento con laghetto, da cui il rifugio preleva l'acqua sanitaria, e raggiungo il Passo Marinelli Orientale. Da qui mi tengo sul versante orientale della cresta, meno ripido e accidentato, per raggiungere il filo poco prima della vetta, dove ci sono una madonnina e delle targhe in ricordo di un paio di persone. Il panorama sui ghiacciai di Fellaria, che fa capolino al colle e si amplia dalla cresta, è impressionante per severità e desolazione, per come sono ridotti già a metà luglio al nudo ghiaccio rugoso, come la pelle di un vecchio alla fine dei suoi giorni, ultimo discendente di tempi perduti. Lontano scorgo il lago in cui termina la lingua occidentale, a cui andrò domani. Ben diversi sentimenti assalirono Nolli, che forse d a questa cima o da una nei pressi si trovò immerso tra enormi colate di neve e ghiaccio: «empiti di sentimenti nuovi non mai provati, indicibili, m'agitano: la montagna alta ha trovato un adoratore nuovo, un islamita, mi ha conquistato e per sempre».
In cima sento il bisogno di coprirmi solo quando contemporaneamente soffia la brezza e il sole è coperto dalle nuvole, mentre per il resto l'aria è mite. Rientro per la via di salita. Quando manca poco al rifugio, incrocio il prete alla guida dei più attivi dei ragazzi, diretti alla cima, anche se sono già passate le 17 (faranno tardare la cena e mi faranno perdere il tramonto).
Lasciati gli scarponi, salgo alla stanza. Temevo che, come rifugio da 200 posti, fosse una via di mezzo tra le brande di Full Metal Jacket e i corridoi di Shining, mentre finisco da solo in una piccola camera da due, accessibile da un breve corridoio un po' buio, ma foderato di legno, come la stanza. Dal registro vedo che la maggior parte degli escursionisti sale dalla Bocchetta delle Forbici, la via di accesso più breve, e scende da dove è arrivata, mentre quasi nessuno sosta lungo l'Alta Via o sale dal vallone di Scerscen. A causa della siccità, non è permesso fare la doccia, neanche fredda, ma solo lavarsi a pezzi con l'acqua di seconda mano, nel doppio senso che è lo scarico del lavaggio mani, raccolta in secchi. Per fortuna c'è un bidet, dove posso lavare anche i piedi, mentre per le parti intime uso le salviette igienizzanti. Di bucato neanche a parlarne, ovviamente: indosserò maglietta e mutande sudate per due giorni. Quando feci il primo trek con i vecchi CAI, mi dissero di portare due magliette, in modo che una fosse sempre più pulita dell'altra. Stavolta tengo addosso quella sporca, per preservare la pulita per giorni migliori.
Inoltre non c'è acqua potabile; ne approfitto per comprare dell'acqua gassata, le cui bottiglie sono più resistenti per reggere la pressione dell'anidride carbonica, con cui sostituire la bottiglia che adopero al posto della borraccia metallica, per risparmiare qualche etto. Il cellulare non prende, ma il quartetto di giovani donne al comando mi permette di fare una rapida chiamata a casa senza addebito, per dire che va tutto bene. La fidanzata ancora mesi dopo sarà turbata dal concetto di acqua usata.
Ceno allo stesso tavolo con gli unici altri ospiti oltre all'oratorio: una coppia della val Seriana e una ragazza di Firenze, residente però a Milano per un'esperienza lavorativa, «una città orribile ma che offre una sacco di opportunità», ma non per i suoi gatti rimasti sotto il Giglio. Valentina, pur trottando come un turbine, è una novizia delle Alpi, per cui ascolta meravigliata i racconti su come funzionano i rifugi, dai rifornimenti di viveri con l'elicottero allo smaltimento dei reflui con lo stesso mezzo. Il bergamasco racconta poi di un metodo ingegnoso inventato da alcuni rifugisti della sua zona: organizzano delle gare di corsa, con bonus per chi porta pesi, così questi atleti pagano per partecipare e portare rifornimenti al rifugio. Ama anche lui l'alta montagna come questa, «dove non si vede il paese», più pertanto della valle dove abita. La cena consiste in un minestrone di sole verdure, di cui abuso, di una polenta con uova e di un dolce. La caciara degli adolescenti è contenuta, limitandosi a un brindisi con canzone al parroco. Salto il caffè per cogliere l'ultimo lembo di tramonto, anche se conto soprattutto di scatenarmi stanotte.
Punto pertanto la sveglia alle 23, ma o non suona o non la sento. Mi sveglio però lo stesso un'ora dopo e vado a fare un servizio completo all'edificio e ai dintorni, dove già al crepuscolo avevo studiato i punti di vista e le inquadrature. Riesco al pelo a catturare la notte prima che l'ultimo quarto di luna scavalchi l'orizzonte: anche se adoro i raggi di luna argentati dei bastoncelli, mi sembra che la notte sia vera notte solo senza luna. Oggi non mi fa paura, perché sono costretto a restare sulla terrazza del rifugio.
Di questa visione gradisco il paesaggio scuro e al limite della percettibilità. Chi non fotografa in queste circostanze direbbe che non c'è abbastanza luce per fotografare: invece per l'esperto è la qualità della luce che conta. E non trovo niente di meglio di questa luce buia sulla terra. Fotografo questa e non le stelle: non mi piace l'astrofotografia, in cui di mette una striscia di monti e il cielo stellato occupa quasi tutta l'inquadratura. Mi pare come quando si riempie una pietanza di sale o olio snaturandole il sapore: le stelle sono al massimo un diadema per il volto della principessa. Il volto della notte è la visione incerta e marginale, la mancanza di dettagli. Per rendere la visione in fotografia, adopero un obiettivo che ha una resa molto onirica e indefinita, ai diaframmi aperti necessari per avere stelle puntiformi. Una foto nitida e chiara snaturerebbe completamente ciò che mi ispira. Poi in postproduzione lavoro pazientemente di bulino per oscurare il più possibile il terreno, fino a renderlo di difficile discernimento. In questo modo del paesaggio traspare solo ciò che m'interessa. È un po' come baciare la persona amata nel buio di una stanza, dove si percepisce unicamente l'umido delle sue labbra e non ci si lascia distrarre da altri sensi: la sensazione è molto più intensa.
Nolli si trovò invece qui in una notte di luna e volle scendere sul ghiacciaio di Caspoggio, che allora non era ridotto agli striminziti circhi, ma si allungava nella conca ai piedi del rifugio, ad ammirare la sua ombra lunare sulla neve. Nella luce incerta, scambiò un crocifisso ligneo per un orso, un'apparizione che avrebbe blandito la mia ideologia notturna. Risolse maschiamente: estrasse la rivoltella, sparò e fuggì a gambe levate, rischiando di farsi male. Il giorno dopo, resisi conto della verità i suoi compagni fecero una grassa risata.
Per l'assenza di vento, la notte è anche silenziosa. Da quassù odo a malapena il brusio dei torrenti che mi terrorizzavano mentre li attraversavo, i ghiacciai senza più seracchi da scaricare solo altrettanto silenti, non ci sono frane, né alberi che possono stormire: non ho conservato alcuna impressione uditiva della notte. Tuttavia un brusio indefinito ci doveva essere, perché invece il silenzio totale, del bosco ovattato dalla fitta nebbia, mi lasciò invece un'impressione profondissima.
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Sergio Chiappino
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