Planaval - Laghi del Rutor
Vallon d'en Haut
18 luglio
Diario di viaggio
È la tappa con più dislivello in salita, distribuito tra due colli, entrambi abbastanza ripidi. Fino a qualche anno fa era spezzabile dormendo al bivacco Promoud, ma nell'estate del 2015 è stato smantellato. Nel 2017 ha anche chiuso un dortoir che si trovava 400 m più in basso, a cui si poteva arrivare uscendo dall'Alta Via. Attraversa delle zone pochissimo frequentate, sia dagli escursionisti che dai pastori. Può essere sensibilmente accorciata tagliando per il ghiacciaio del passo Planaval, naturalmente con attrezzatura adeguata, e poi proseguendo per il sentiero attrezzato tra gli sfasciumi, che scende al Deffeyes.
Mi desto dal sonno da solo alle 4, tre quarti d'ora prima che suoni la sveglia, e continuo a dormire ancora un po' di un sonno irregolare che non ristora. Ho deciso di partire ai primi chiarori, perché la tappa è molto lunga e per il pomeriggio sono previsti temporali, da cui non avrei riparo. Faccio colazione alle 5 alla luce della frontale, nel buio della sala da pranzo, perché l'interruttore è in una zona non accessibile ai clienti. Non riesco a lavarmi i denti, perché i bagni comuni sono chiusi e non ne ho voglia di risalire i due piani fino alla stanza. Esco dalla porta di sicurezza, senza poter rientrare in caso di qualche dimenticanza. Alle 5.30 i lampioni sono ancora accesi ma già inutili, perché c'è già abbastanza luce, nonostante le nuvole coprano quasi tutto il cielo verso l'alta valle. Mi bastano due magliette, perché l'aria è frizzante, ma assai umida e blocca la traspirazione.
Seguo la strada fino a Clusaz, dove intravedo una faina lasciarla con un guizzo e scomparire nel folto del bosco. All'imbocco del sentiero resto con una sola maglietta, più per l'umidità che per il caldo: all'aumentare della mia traspirazione, per lo sforzo della salita, i miei occhiali si appanneranno e per un po' a nulla varranno le frequenti asciugature. Il sentiero è molto ben costruito, con possenti muri a secco a reggerlo, mentre aggira una prima balza e poi altre in successione. In un impluvio scosceso, la corda fissa menzionata dalla guida è sostituita da un comodo ponticello di legno. Planaval appare ormai dalla sua verticale, sempre più piccola; la valle si perde nella foschia e nelle nuvole basse. Il pendio è molto ripido, perché la valle è a U, di origine glaciale; solo raggiunta la spalla, le pendenze si ammorbidiranno. La vegetazione è formata da cespugli come gli ontani e da radi larici. Un alpeggio è anticipato da un marcescente traliccio della teleferica. Il pascolo che aveva a disposizione è davvero misero e non mi stupisce affatto che sia stato abbandonato. Quando ho ormai raggiunto il limite superiore dei larici, la luce del sole ancora radente riesce ad aprirsi uno squarcio tra le nubi addensate sui monti, per illuminare brevemente il versante opposto di rosa e quindi d'oro una striscia sotto di me.
Più sopra raggiungo il primo di una successione di pianori glaciali, con il torrente che vi serpeggia, circondati da formazioni rocciose di gneiss montonati. Trovo le caratteristiche tracce di passaggio del bestiame, tante tracce tra loro parallele e ravvicinate. C'è una bella fioritura, di trifoglio alpino (che vedo quasi dal primo giorno, ma mi ero sempre dimenticato di appuntarlo) e di vulnerarie. Ci sono poi delle piantine fiorite di Gentiana purpurea, al mio occhio indistinguibile dalla lutea, se non per i fiori di color amaranto scuro. Tra questi bei pianori faccio la prima pausa della lunga giornata. Oggi non ho portato panini, perché prevedo salite impegnative per tutto il giorno e non voglio sentirmi appesantito da un etto di fontina. Ho invece solo roba energetica, oltre a pomodori e frutta.
Sono ormai quasi in mezzo alle nuvole: lo strato grigio è davvero a portata di mano. L'atmosfera è ovattata: non ricordo alcun rumore, né appuntai di versi di uccelli o di scrosci del torrente. Tutto sembra come congelato dall'afa, che percepisco oppressiva camminando, anche se poi l'aria è abbastanza fresca, come mi accorgo quando sono fermo. Per ora le nuvole incombenti non minacciano temporale (d'altronde è ancora mattina presto), ma non danno nemmeno l'impressione di volersi diradare, per farmi vedere un po' di panorama lontano. I capelli sono zuppi d'umidità e gli scarponi di rugiada. Con acuta preveggenza, prima di partire ho spalmato abbondante cera sulla tomaia e così i miei piedi resteranno all'asciutto. Mancano pochi minuti all'alpeggio di Fond, anticipati da una distesa di Rumex alpinus. Nei pressi, il torrente scorre incassato tra una lunga roccia montonata e un pendio erboso. Un edificio degli alpeggi abbandonati è interessante, perché ha la copertura costruita con la tecnica della falsa volta. Le lose del tetto sono appoggiate in orizzontale e disposte a sbalzo, in modo da rientrare verso il centro. Sopra tutte c'è una losa molto grande che chiude il tutto. Questa disposizione non scarica il peso verso i muri laterali, come la volta a secco vista a Plan di Feye, per cui al centro della costruzione c'è un possente pilone a secco che regge la losa grande. Questa primitiva configurazione ha permesso agli edifici di resistere fino ad ora, superando innumerevoli inverni dopo l'abbandono e la fine della manutenzione.
Con una breve salita, lasciati in basso il sentiero diretto al passo Planaval e i pianori pascolivi, sono nel bel mezzo delle nuvole e al lago di Fond, che così ammiro in veste scozzese. Non riesco neppure a vedere l'altra sponda, tanto è densa la nebbia, e sì che il lago non è enorme. Solo salendo e spostandomi riuscirò e intravedere le bastionate erbose che lo circondano. Da qui nient'altro che nebbia fitta fino al colle. Non ho la minima idea di quale ambiente ho attraversato. Il sentiero rimane tra i prati, per poi affrontare una zona più rocciosa dopo un traverso. Alcune rocce scistose rosa danno un tocco di colore nella giornata grigia. In un punto prima del traverso un cippo ricorda Yang Yuan, un corridore cinese, morto alla mia età durante il Tor de Géants 2013. Qui scivolò e batté la testa durante una bufera notturna di pioggia e vento. Ci sono quattro pannelli con un testo di ricordo, scritti in italiano, cinese, inglese e francese. Per un tratto mi sembra quasi di intravedere un po' di azzurro nel cielo. Spero che lo strato di nuvole non sia ancora tanto spesso e magari che lo possa bucare prima del colle. Arrivo addirittura a sperare di essere ancora lontano, in modo di avere più possibilità di oltrepassarlo. Tuttavia ben presto la nebbia si dimostra più determinata e persistente di quanto immaginato e sono le speranze a dissolversi. Al culmine della salita almeno mi saluta una fioritura di margherite.
Al col de la Crosatie non fa freddo, ma non mi fermo molto, giusto il tempo di rabberciare la riparazione allo scarpone. I primi duecento metri di discesa sono su una pietraia, dove è stato approntato un percorso a gradoni. Ci sono delle corde fisse, immagino per quando le rocce sono bagnate e scivolose. O magari perché è molto esposto, cosa di cui sono totalmente inconsapevole a causa della nebbia fitta, che non mi fa vedere che pochi metri più in basso. Dopo un consistente numero di sollecitazioni alle ginocchia, appoggi sui bastoncini per attutirle, tic-tac dei bastoncini sulle pietre, finalmente scendo gli ultimi gradoni, in una strettoia che mi porta su un magro prato. Il sentiero saggiamente evita le pietraie che occupano gran parte del pendio di discesa e rimane sull'unico fazzoletto erboso, scendendo a tornanti. Una marmotta fischia furiosamente, quando sono già sotto di lei e mi sto allontanando, e l'eco risuona nella valle. Mi chiedo perché solo ora e, sollevando lo sguardo, noto che poco sopra di me due cuccioli di camoscio stanno battendo in ritirata, guadagnando molta quota in pochi balzi. Solidarietà erbivora. Vedo anche due lumaconi neri di una specie mai vista prima.
Sono intanto finalmente calato sotto le base delle nuvole e posso vedere il fondo del Vallon d'en Haut. C'è un grande pascolo verde con il torrente al centro, l'alpe Promoud, circondato da un bosco di larici. A mano a mano che perdo quota, il prato è sostituito da un rodoreto, con qualche rododendro fiorito, e poi da larici radi tra massi di una paleo-frana vegetata. Uno imponente, secolare, addossato a un masso precede di poco il ponte, che mi conduce sul versante sinistro del vallone, dove c'è l'alpeggio. Fino a qualche anno fa, c'era anche un rifugio, incustodito, ma dotato di docce calde e attrezzatura da cucina, dove poter spezzare la tappa. Purtroppo è stato smantellato e le assi di legno della mobilia ancora giacciono di fronte all'ingresso, conferendo al luogo un'impressione di degrado e abbandono. La fonte d'acqua non è utilizzabile per l'approvvigionamento, perché bisognerebbe immergere la borraccia dove bevono gli animali dell'alpeggio, non ancora caricato. Intanto il cielo va finalmente aprendosi, ma solo timidamente. Dopo il giro di esplorazione, mi fermo a mangiare qualcosa.
Riprendo a salire attraverso un rado lariceto a rododendro e ginepro, a cui in alto si aggiungono dei pini cembri. Ci sono anche tante piantine di vero e falso mirtillo. Per terra piume di uccello sono testimoni di una predazione; ci sono pure degli escrementi, forse di volpe. Rimonto vari dossi, con vista sul ghiacciaio del Mont Paramont (la cima è nascosta dalle nuvole) e arrivo in vista del colle, lontanissimo, alla sommità di un vallone pietroso. Sono tra gli ultimi cembri; alcuni sono nati tra le fessurazioni di placche di gneiss levigato, a quota 2400 m. Questa posizione è di solito legata al principale metodo di disseminazione del cembro: l'azione della nocciolaia. Questo uccello, con il suo becco uncinato, è in grado di aprire le pigne del cembro per fare incetta di semi, che accumula nel gozzo e poi nasconde nel terreno. Talvolta si dimentica di un nascondiglio, permettendo così a un pino di germogliare. Le aperture sembrano più convinte e mi invitano a spalmarmi di crema solare. Percorro gli ultimi dossi erbosi, costeggiando anche una sorgente. Incrocio quattro persone in tenuta da corsa che scendono. Arrivo ai piedi della distesa di pietre, che mi separa dal colle. In parte è pietraia, in parte è morena poco vegetata. Per un geomorfologo fa molta differenza, ma per me adesso ben poca: sempre solo pietre sono. A me la montagna piace finché è verde, mentre le zone rocciose o innevate le apprezzo solo come quinta delle foto. Per fortuna la pietraia è sistemata e la traccia sulla morena ben marcata.
Tuttavia ricordo questi ultimi 400 metri dei 2100 odierni come un'agonia. Devo continuamente alzare le ginocchia; non che me le senta piene di acido lattico, perché finora i sentieri sono stati molto comodi, ma la fatica della prima salita, l'afa del mattino, il peso dello zaino, la levata antelucana, la tensione per gli scarponi mi gravano addosso tutte insieme. È giusto scomparso il timore di prendere un temporale, perché il cielo non lo minaccia. Più salgo, più frequentemente devo fermarmi a recuperare energie. Un modesto nevaio interrompe il sentiero, ma per fortuna è quasi in piano. Non so quanto le mie facoltà percettive siano attive in questi momenti: ricordo solo i versi dei gracchi e dei corvi. I miei pensieri, invece, corrono veloci ed eccitati, ad ogni minima impressione o osservazione, che riesce a superare il muro di fatica che mi obnubila. Ad esempio quando vedo in basso il lago di Lantaney, azzurro, circondato una conca verde, che dalla pietraia mi sembra un paradiso che ho perduto ficcandomi quassù. Ancor più poco prima del colle, quando termina la pietraia e il sentiero guadagna un fazzoletto erboso fiorito di ranuncoli e seneci. Rallento il passo, lo accorcio; di come fosse il fiato non ho ricordi.
Di là dal Pas Haut c'è il sole e poche nuvole alte non nascondono il panorama. Raggiungo il bordo dello spuntone roccioso che si allunga dal colle, per fermarmi nel posto più panoramico. Sto qui a lungo, terminando le provviste e l'acqua. Sto seduto ad analizzare pazientemente i dettagli minuti del paesaggio. Sotto di me ci sono i laghi di Usselettes, dal colore glaciale, circondati da una distesa di pietre di una roccia scistosa che sembra formare tutte le cime dei dintorni. Forse nasconde il ghiacciaio, che rimane scoperto più a monte. Più in basso un bellissimo pianoro verde, mentre dietro riconosco il Grand Assaly, la cima più bella tra quelle che circondano il rifugio Deffeyes. Alle mie spalle c'è invece un muro di nebbia, che poi però un po' per volta si diraderà, permettendomi infine di vedere i prati della Valle Centrale. Gironzolo con la fotocamera al collo, in cerca di spunti. Sui colli dell'Alta Via ci sono delle piramidi di pietre, a cui è affissa una targa gialla con i dati del passo: è un po' che cerco di scattare loro una foto significativa, ma senza successo. Anche stavolta va a buca. Ci riuscirò domani, in extremis.
La prima porzione di discesa è ripida, ma ben tracciata, poi è un tripudio di ripiani erbosi e rocce montonate, con qualche marmotta. La discesa termina in un pianoro erboso di terra nera e molle, dove cammino a fianco di un torrente trasparente e placido. Magnifica la zona dove il Grand Assaly vi si specchia. Mi fermo ad aspettare che le nuvole lascino filtrare la luce migliore. Incrocio tre adolescenti che stanno salendo al passo senza zaino. Facendo saltar via qualche ranocchio, affronto l'ultima rampa che mi conduce al rifugio.
La gestione ha una singolarità: non si possono portare zaini in stanza, ma bisogna lasciarli in un disimpegno e portare con sé il necessario al soggiorno in un bidoncino di plastica bianca. Naturalmente dimenticherò qualcosa e dovrò fare la spola per recuperare tutto. Rinfrancatomi, chiedo al gestore qualcosa per gli scarponi e lui mi dà del mastice extra-forte, in cui ripongo grandi speranze; tuttavia non sarà risolutivo. Sembra davvero che solo le colle a caldo dei calzolai funzionino con le suole. L'unico italiano oltre a me è un motociclista di Rimini senza velleità alpinistiche, venuto semplicemente a trovare un'amica che sta facendo la stagione qui. Ceno con lui e dei ragazzi francesi, che domani andranno a campeggiare al lago di Fond.
Dopo un'esplorazione pomeridiana, al tramonto vado a scattare qualche foto ai dintorni del rifugio. Questa è la zona più bella dove ho dormito e decido che, prima o poi, verrò qui in una notte di luna per una sessione fotografica dedicata. Oltre ai laghi, è molto fotogenica la chiesetta di santa Margherita, costruita nel pieno della Piccola Era Glaciale su una roccia montonata, per proteggere la valle dalle inondazioni provocate dai laghi effimeri del ghiacciaio. Solo il Rutor visto da qui mi sembra una montagna insignificante. Non so cosa spinga la gente a volerlo salire, anche perché con il ritiro del ghiacciaio bisogna attraversare delle desolate lande di sfasciumi, dove una mia conoscente si è rovinata un ginocchio, un paio di anni fa. A me non dice nulla e, per quanto mi riguarda, potrebbero anche spianarlo per farci un campo da golf. Non gli scatto neanche una foto. Come altri in precedenza, anche il suo ghiacciaio ha ormai poca neve, nonostante la stagione non ancora avanzata.
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Sergio Chiappino
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