Laghi del Rutor - Lex Blanches
Vallon de Chavannes
19 luglio
Diario di viaggio
È la tappa con maggior spostamento, con un'interminabile salita su una strada militare, in un vallone non brutto ma monotono e senza un albero. Nel primo tratto di discesa dal Deffeyes seguo un sentiero secondario, che consiglio. Le cascate del Rutor sono meno famose di quelle di Lillaz, forse perché un po' meno a portata di automobile, ma molto più impetuose.
Sulla cartina vedo che esiste un sentiero alternativo per il primo segmento della discesa, fino all'alpage du Glacier. Sembra più bello, perché passa dai laghi, che invece la mulattiera principale evita. Sulla mia è dato come non segnalato: chiedo al gestore se è fattibile o presenta problemi e lui mi rassicura. Decido così di seguirlo. Punto perciò verso la chiesa sulla roccia montonata, a cui piedi c'è un piccolo crotton, naturalmente sul lato in ombra. Dalla chiesa il sentiero scende ripidamente verso il Lac de Seracs, anche con qualche tratto attrezzato con corda, molto ricco di appoggi, che rendono la discesa agevole anche a chi è negato per l'alpinismo, come me. Immagino che il nome del lago nasca dal fatto che una volta il pendio a monte fosse sovrastato da una cascata di blocchi di ghiaccio, che magari vi finivano dentro; oggi però il riscaldamento ha spinto il fronte ghiacciaio molto più a monte, lasciando scoperto un pendio di rocce montonate. Su questo lato ci sono dei dossi di detriti vegetati, forse l'antica morena frontale. Due pescatori sono sulla riva. Arrivo a un bivio con cartelli dove prendo a destra; da qui il sentiero è segnalato con bolli e frecce blu, suppongo dipinte dal gestore. Si incunea in uno stretto passaggio di rocce montonate e, oltrepassato uno sbarramento roccioso, offre un'improvvisa ed emozionante veduta dell'intero gruppo del Monte Bianco, nonostante le velature e la foschia offuschino la visione. Il sentiero continua a scendere e giunge ad un ulteriore passaggio con corda, tra due rocce meno gradinate delle precedenti. In ogni caso riesco a superarlo senza particolari patemi, anche se qui lo zaino da 50 litri e le bacchette ingombrano un po'. Già vedo il torrente disperdersi in rivoli bianchi e turbinosi ai margini dell'alpage du Glacier, un grande pianoro di sbarramento glaciale. Lo raggiungo per una zona di placche e massi.
Lo attraverso e continuo a seguire il sentiero, ora molto marcato, che si tiene alto sul torrente, prima tra ginepri e radi cembri, poi tra ontani. Non scendo a un ponticello per ammirare una cascata, perché la tappa di oggi sarà già abbastanza lunga e proseguo sul lato destro del torrente, fino a confluire sulla mulattiera principale e quindi sull'Alta Via 2. Scende tra rocce montonate e gradoni, entrando in una zona di ontani e vegetazione dalle foglie molto larghe, segno di una zona umida. Siamo infatti nei pressi delle cascate del Rutor, i cui spruzzi inumidiscono un'ampia zona attorno a loro. Vado a vedere la seconda, che è roboante. Non mi affaccio fino al bordo, perché le rocce sono fradice di umidità e ho paura di scivolare. Proseguo poi la discesa, passando accanto a una casetta e qui alla prima cascata. Molta gente sale in verso opposto. La Joux, intanto, sembra non arrivare mai. Di questo tratto non ho particolari ricordi, se non qualche lampo qua e là. Mi fermo al bar a prendere un caffè e proseguo su asfalto, che poi lascio per la vecchia mulattiera, un po' mortificata tra i tornanti della strada. Alla fine confluisce su una sterrata. Da qui fino a la Thuile è la porzione più dimenticabile del trek: ci sono delle casette diroccate, accanto a degli edifici in cui confluiscono delle linee elettriche, una centrale termica a biomasse con un pregnante odore di segatura, dei giochi bimbi dimenticati tra le erbacce, i fabbricati residenziali e amministrativi di una miniera abbandonata, in parte pericolanti, e in paese i condomini per sciatori. Incrocio un signore magro con un grosso zaino, che mi chiede se è la strada giusta per il «Deffays». In paese trovo una tabaccheria dove hanno finalmente i francobolli per le cartoline che mi porto appresso da qualche giorno. Nel negozio la filodiffusione trasmette un inusuale Frank Zappa; non riconosco la canzone, ma mi sembra lo stile di Joe's Garage. Il cartello mi dice che mancano ancora cinque ore e quaranta minuti di cammino all'Elisabetta, quando ne sono già trascorse tre: questa tappa sembrerà davvero non finire mai. Mi fermo nel bagno di un bar, per spalmarmi la crema solare, e riempio la borraccia a una fontana.
Il primo tratto parte discretamente, con una larga mulattiera lastricata, bordata di edicole votive che taglia i tornanti di una strada trafficata. Il primo segmento è persino all'ombra di grandi alberi. Poi però questa muore in una strada asfaltata, da percorrere sotto un sole a picco, senza refrigerio. Fortunatamente è chiusa al traffico privato, non solo per me, ma anche per due Parnassius apollo che vedrò accoppiarsi nel bel mezzo della striscia di asfalto. Sotto un sole senza pietà, proseguo come in un esercizio ginnico su tapis roulant, cercando di mantenere un buon passo senza mai scoraggiarmi. Passo accanto a un rude agriturismo e un po' più avanti finisce almeno l'asfalto e comincia la terra battuta, nei pressi di un alpeggio molto dimesso. La strada entra in un vallone molto stretto e ripido, senza un albero, che prosegue diritto e monotono per un bel tratto. La strada avanza quasi in piano. Vedo il paesaggio attorno a me cambiare in maniera impercettibile, come al rallentatore. L'unico diversivo gradevole è quando attraverso uno dei rivoli d'acqua che scendono da monte, perché sono pieni di minuscole farfalle, che si alzano in volo al mio arrivo e mi avvolgono come dentro una nuvola. Il sole è scomparso perché il cielo si è coperto e l'atmosfera è afosa. Intanto, a migliorare la situazione, mi accorgo che ora anche la suola sinistra sta cominciando a scollarsi.
Cerco invano uno spiazzo dove potermi fermare a pranzare. Mi fermo per esaurimento in un punto a caso, un po' prima che la strada cominci a salire a tornanti. Sono intanto passati due escursionisti in direzione opposta. Non faccio una pausa lunga, perché sono previsti temporali per il pomeriggio e spero di arrivare al colle, dove c'è un ricovero militare, prima che si scatenino. Riparto perciò di buona lena. Nel frattempo il vallone ha svoltato in direzione ovest e il colle è apparso, seppure lontano. In preda allo sconforto, estraggo il cellulare e controllo sul GPS quanta distanza mi separa dal passo: sono oltre tre chilometri in linea d'aria, quindi almeno cinque di cammino, a giudicare dalla tortuosità del percorso. Il cielo inizia a scurire verso sud, poco dopo che ho notato che l'altimetro segna 50 metri in più del giusto, passando accanto a un alpeggio diroccato. Come mi hanno insegnato fin da bambino, non è un buon segno. Il nero si fa sempre più incombente, fino a quando sento le prime gocce. Quando si infittiscono, mi fermo e indosso coprizaino e giacca. Alla ripartenza mi accorgo che sono vicino a un alpeggio in uso. Senza pensarci due volte, mi dirigo verso i fabbricati contando sul buon cuore del pastore. Passo accanto alla stalla, dove alcuni vitelli sono ricoverati, e arrivo alla porta; guardo attraverso i vetri e non vedo nessuno. Entro. Un ciclista in maglia iridata, invece, è meno sfacciato di me e si ripara sotto un capanno degli attrezzi.
Metà dello stanzone è occupato da sacchi di mangime. Ci sono poi un tavolo e un lavabo pieno di stoviglie. Nel locale attiguo ci sono molte bottiglie di minerale: l'acqua qui non dev'essere potabile a causa del bestiame. Appoggio lo zaino in un angolo e mi metto a prendere appunti. Poco dopo entra un arabo dalla pelle scura. Indossa una maglietta, dei pantaloni di una tuta e delle ciabatte di plastica. Non ha una mantella per la pioggia ed è bagnato, ma non zuppo, perché non sta piovendo fortissimo. Più avanti la pioggia si intensificherà e cadrà anche un fulmine nelle vicinanze. Mi saluta, non so se sorpreso o imbarazzato, e comincia a preparare un caffè con una moka da dodici, attingendo l'acqua da un bidone in metallo. Poco dopo ne arrivano altri tre in abbigliamento analogo; uno indossa un kufi bianco ricamato. Chiacchieriamo un po'. «Sei da solo, non hai la fidanzata?» «No, sono solo.» «Perché?» «Nessuna mi vuole.» «Eeeh…» commentano in coro. «Senza donna non è vita», sentenzia quello con il kufi. Mi offrono anche del tabacco, ma lo rifiuto. «Non fumi?» «No, fa male.» «È la mia droga.» «La mia droga è il caffè», ribatto. Purtroppo non posso ricambiare, perché ho solo mezzo panino con il crudo e delle robe energetiche e salutiste che non penso apprezzerebbero. Mi ci vorrebbe del cioccolato. «Di dove sei?» «Di Torino. E voi?» Mi dicono il nome di una città che non conosco, mi sembra Settat, e poi mi spiegano che è vicina a Casablanca. «Pensavo che eri francese» dice uno. «A me sembravi cinese», rincara quello con il kufi. Mi offrono il caffè. È lunghissimo, acqua sporca. Così possono berne anche una caffettiera da 24, senza subire effetti dannosi.
Intanto ha smesso di piovere. Esco e noto che il cielo non è più tanto scuro e l'altimetro è tornato alla quota corretta. Li saluto, li ringrazio e riparto. La temperatura è calata sensibilmente e sto bene in giacca, mentre prima avevo caldo in maglietta. La strada sale ancora con dei tornanti e poi diventa sentiero, affrontando un lungo traverso verso il colle. Questo ultimo tratto è molto verde e fiorito. Supero un bivio per il Monte Fortin, dove potrebbe essere spettacolare salire, se fosse un giorno terso. Una famiglia di francesi scende in direzione opposta alla mia.
Dal colle dovrei vedere la cima del Bianco, ma è immersa tra le nubi, come si conviene a una dimora degli dei. Vedo invece il rifugio Elisabetta e le lingue del ghiacciaio che lo sovrastano. Immersa tra le nubi cupe, è di una bellezza romantica, da xilografia settecentesca. Secondo me, queste sono le condizioni più appropriate per godere della bellezza delle seraccate, il lato più spettacolare dei ghiacciai. Affascinavano i viaggiatori romantici, quando erano al loro apice, durante la Piccola Era Glaciale, ma alcuni hanno ancora oggi il loro charme. Finalmente riesco così a trovare uno sfondo adeguato ai piloni di pietre, che ci sono su tutti i colli dell'Alta Via e a scattare una foto. Faccio qui la lunga pausa contemplativa che oggi mi è mancata.
Il sentiero che scende al pianoro sottostante è molto ben tracciato: vedo anche le tracce di una bici. Certo in qualche punto sulle rocce avrà dovuto accompagnarla a piedi, ma la gran parte è ciclabile, solo un po' ripida nel tratto vicino al colle. Nonostante il cielo rimanga coperto, devo ben presto togliermi tutti gli strati, perché la conca riparata dal vento riscalda. Tra l'altro mi sembra che qui non sia neanche piovuto, perché il terreno è polveroso. Di fronte a me è ben tracciato il sentiero per il Col del la Seigne, dove un mio conoscente una volta arrivò in Vespa. Era un'altra era. A tornanti scendo al grande prato dove c'è lo tsa, l'alpeggio più alto, riservato al mese di agosto. Per ora non ci sono vacche, ma solo numerose marmotte, che fuggono alla mia vista. Devo percorrerlo tutto fino al salto sul lago Combal, un lago quasi interrato, formato dallo sbarramento della morena del ghiacciaio del Miage. Superato un ponte precario, arrivo a una fonte dove posso dissetarmi: la borraccia riempita a la Thuile era vuota da un po'. Passo tra casermette dirute e, seguendo la strada, arrivo al rifugio. Lungo il tragitto noto degli escrementi di mulo: porta il carico di un gruppo di escursionisti francesi, che devono così viaggiare solo con lo zaino di giornata. Hanno dei caratteristici sacchi rossi, che domani vedrò portare da altri due muli che incontrerò. Dev'essere un'organizzazione bella grande.
Il rifugio è intitolato a una donna e per questo è conosciuto con il suo nome di battesimo; quelli intitolati a uomini, invece, sono conosciuti con il cognome. In un ambiente tradizionalmente militaresco come quello degli alpinisti, le donne erano talmente poche da poter essere riconosciute con il solo nome. Non c'è un posto libero. Sono in una cameretta da sei letti. Visto che in doccia c'è coda, mi prenoto per il secondo turno della cena e mi lavo quando si è smaltita, ingannando l'attesa con un tè. Ascoltando parlare gli altri ospiti, mi accorgo di essere l'unico italiano. A cena sono con tre olandesi, due ebrei russi emigrati in Israele e tre israeliani nativi. Ci sono poi molti orientali e naturalmente i francesi. Il rifugio ha il WiFi, una presenza gradita, visto che i telefoni non prendono. La portata del modem è ridotta, per cui c'è un ammasso di gente smanettante intorno, distribuita tra la sala da pranzo e il vicino corridoio. La sera il cielo non si sgombra.
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Sergio Chiappino
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