Cresta Aguzza-alpe Fellaria

Sentiero glaciologico Luigi Marson

19 luglio


Ghiacciaio di Fellaria Orientale
Ghiacciaio di Fellaria Orientale

Diario di viaggio

La tappa odierna mi conduce verso una meta molto popolare della valle, a giudicare da quanta gente incontro: il sentiero glaciologico Luigi Marson, costruito dopo il ritiro del ghiacciaio di Fellaria, per mostrarne i lasciti geomorfologici agli escursionisti. Il sentiero non è incluso nel percorso dell'Alta Via, ma mi sembrava un'assurdità passarci accanto senza vederlo.

Salto la sessione fotografica all'aurora, poiché il sole sorge dietro il Bernina e pertanto nella mezz'ora dorata illuminerebbe solo le ultime propaggini delle cime. Sono previste una colazione alpinistica alle 4 e una turistica dalle 7 alle 8.30: gli escursionisti non sono contemplati. Come raccontavo a Gam Bas, sui monti italiani latitano le vie di mezzo: la frequentazione è polarizzata tra coloro che compiono imprese e chi fa le semplici passeggiate al rifugio. Peraltro io, avendo dinnanzi una tappa breve, non avrei certo bisogno di mangiare alle 6. Riesco ad arrivare alla sala e alla macchinetta delle bevande calde in anticipo sull'orda adolescente, aspettando poi che sciami prima del secondo giro. Per fortuna funziona il bancomat, perché sono quasi senza contanti, dopo che molti posti dove era dato per certo hanno invece dato buca. Stasera danno per indispensabili i contanti, perché al rifugio non c'è connessione internet.
Parto per primo ma sarò presto sorpassato. Scendo nell'ombra verso la base delle cime di Musella, passando per terreni rocciosi, dove fino alla mia fanciullezza c'era la lingua del ghiacciaio. Nei radi fazzoletti erbosi esplodono le fioriture, mentre in alto i raggi del sole valicano le cime e disegnano prospettici chiaroscuri di blu. Già prima dei laghetti mi superano i due bergamaschi e la fiorentina, a ritmo molto superiore al mio. I primi sono diretti al lago Palù, a ritroso lungo la tappa 5 dell'Alta Via: ieri sera avevo tentato di consigliare lo Scerscen, ma l'avevano scartato per la lunghezza. La ragazza invece va come me alla Bignami, ma con un terzo di zaino e il doppio della velocità, per cui non la rivedrò che al pomeriggio.
Sono sul fondo di una conca circondato da picchi rocciosi, tra qualche laghetto, il maggiore dei quali è ai piedi delle cime di Musella. Proseguo in traverso, con il panorama dei ghiacciai alle spalle, incrociando un gruppo familiare americano e raggiungendo infine la bocchetta delle Forbici, poco a monte dell'omonimo laghetto. I tre di ieri sera raccontavano della forte impressione lasciata a chi sale dall'alpe Musella da questo improvviso punto di vista, in quanto di colpo si trova proiettato dalla montagna verde al mondo selvaggio delle cime e, finché ci sarà, del ghiaccio.
Nolli fu maggiormente impressionato dal sentiero da qui alla vedretta di Caspoggio, che allora doveva essere ben più stretto ed esposto: «È bello, è grande sfidare la natura selvaggia e domarla», si entusiasma ad un certo punto. Con lui c'era il curato di Lanzada, moderato con il vino e sempre con una pipa in bocca, insieme a un canonico invece molto dedito al primo e dal passo molto incerto, per cui mi sentirei solidale con lui, senonché egli poteva invece vantare un glorioso passato alpinistico. Loro erano infatti saliti da Musella alle Forbici, perché la valle dello Scercen era completamente occupata dai ghiacci fino all'alpe, come risulta dalla carta svizzera del 1896. Si erano annoiati molto in questo tratto, in cui l'unico svago era sparare alle martore. Allora i carnivori erano considerati dannosi ed erano eliminati. La guida di Bassi riferisce che un un ventennio erano stati uccisi migliaia di «animali di rapina» (volpi, martore, tassi…), «mercé l'opera benemerita della Società Caccia e Pesca di Sondrio», al fine di ripopolare la montagna di selvaggina, precedentemente quasi scomparsa.
Per me, che arrivo dalla direzione opposta, la vista si apre invece sulla Carate e la sua conca pietrosa, dominata dal Sasso Moro. Nuvole stanno risalendo da valle e hanno avvolto il monte delle Forbici, proprio sopra di me, e a tratti nascondono anche il Tremila di roccia scura. Approfitto di un momento in cui la cima appare tra le nubi, per scattare una foto. Devo però prima posare il telefono e interrompere per un istante la conversazione, perché avevo approfittato della rete per chiamare casa. La fidanzata è provata dall'inattività dell'isolamento e dal caldo asfissiante. Prima ancora avevo prenotato l'albergo per l'ultima sera a Sondrio, in quanto conto di finire la tappa tardi e non voglio anche sobbarcarmi la sfacchinata di un viaggio stanco e puzzolente. Scopro che, per confermare la prenotazione, dovrò rispondere a una mail e dare un numero di carta di credito: tutti gli alberghi contattati adottano questa procedura. Fortuna che ci sono i cellulari! Spiego dove sono e che sarà necessario aspettare domani sera per avere nuovamente campo e, grazie al cielo, la receptionist si dimostra comprensiva e mi garantisce la stanza.

Scendo al rifugio, dove però non trovo nessuno al bancone e devo pertanto rinunciare al caffè. Mi limito a stampare il timbro del rifugio sull'opuscolo dove ho ricopiato la guida. Taglio quindi in quota un pendio sassoso, passando in mezzo a un piccolo gregge di capre bianche e nere e quindi passo ancora una volta per pietraie. Incrocio due gruppetti di svizzeri; il primo, a giudicare dalla cartina che tengono nella tracolla trasparente, sta facendo il giro del Bernina. Al secondo chiedo un po' sconsolato se è tutto così malagevole fino al passo e ottengo la rassicurazione che nel finale migliora.
Scendo verso un incavo della montagna, dove i massi si fanno ciclopici e la ginnastica più atletica. La fiorentina, invece, mi dirà di aver patito più il primo traverso e di essersi trovata meglio qui. Imbocco quindi la rampa finale, dove torno a camminare normalmente. Un signore in discesa, appena alle prime pietre, sta già educatamente imprecando contro di loro. Mi chiede se manca molto alla Carate, ricevendo in risposta qualche rassicurazione, ma anche dei caveat per i sottostanti massi dell'incavo. Supero una serie di dossi pietrosi e grigi, che sembrano sempre ingannevolmente il colle, intravedo seminascosto dalle nebbie il monte Motta, scorgo di lontano due camosci tra le rupi e con un po' di pena nel cuore mi affaccio sulla nuova valle, finalmente di prati verdi, con lontano il fronte del ghiacciaio sospeso sul precipizio e le cascate che ne scendono. Ci ho impiegato una volta e mezza il tempo riportato sul cartello.
Faccio una sosta. Alle mie spalle arrivano due ventenni depilati in tenuta da corsa e si fermano anche loro alla forcella di Fellaria. Chiedo loro se si allenano per la ∇UT, ma in risposta non ottengo che monosillabi, anche quando indico loro un buon punto da cui scattare una foto alla valle sottostante. Io aspetterò che partano di corsa per includerli nel paesaggio. Ingurgitano prodotti energetici e parlano tra di loro come se non ci fossi, in parte anche in dialetto.

Scendo lungo la gradevole traccia chiara tra la ghiaietta blu, incomparabilmente meno ripida e scivolosa che dal passo di Ventina, tra piante a cuscinetto fiorite e alle falde di rocce rosse frastagliate. Raggiungo i prati, dove pascolano delle vacche marroni con le mammelle gonfie di latte e i campnacci al collo. Raggiungo un pianoro con eriofori, dove il vallone si sdoppia attorno a una spina rocciosa, oltre il quale il rio s'infossa. Nuovamente in mezzo al verde, provo sensazioni di pace e riconciliazione.
Giungo a un ponte, dove trovo l'indicazione per il sentiero glaciologico Luigi Marson. Decido di seguire solo il ramo C, diretto al fronte del ghiacciaio, come mi avevano detto ieri le ragazze della Marinelli. Risalgo una prima morena inerbita delle tarde ere glaciali, quindi una seconda della Piccola Era Glaciale. I cartelli didattici richiamano l'attenzione dell'osservatore su un masso fratturato dal crioclastismo (ordinario, nulla a che vedere con quello della Piana d'Airale) e su un masso erratico di roccia blu proveniente dal Bernina, deposto su una placca montonata di roccia striata grigia e ruggine.
Superando delle rocce montonate e incrociando non poca gente in discesa, arrivo al solito rombante emissario del ramo occidentale del ghiacciaio, che supero su un ponticello appena sopra il filo dei gorghi, stavolta con sponde. Il ponte sopra i gorghi era un topos romantico. In particolare, il ponte che i Walser gettarono sulla gola della Schöllenen, che di fatto aprì la via del San Gottardo, generò molteplici descrizioni e disegni; era così ardito da meritare una leggendaria origine soprannaturale, secondo l'onnipresente leggenda del diavolo costruttore ripagato peggio degli stagionali delle spiagge. Questo è assai più prosaico, un pezzo di latta calato dall'elicottero, ma l'impetuoso torrente che lo sfiora e sembra volerlo trascinare, prima di sparire in una cascata, trasmette appieno la sensazione di precarietà dell'ingegno umano di fronte alla potenza della natura. Risalgo faticosamente la pietrosa morena del ramo orientale e raggiungo la cima di un dosso, dove mi affaccio sullo spettacolo clou di giornata: il fronte del ghiacciaio si arresta su un salto roccioso alto alcune centinaia di metri, da cui precipitano cascate su una lingua sottostante, immersa in un laghetto verdino, circondato da dossi sabbiosi e sassosi.
Resto in alto, perché voglio mantenere fede alla suocera, che, dopo il crollo del ghiacciaio sulla Marmolada, si è raccomandata di starne alla larga. Come primo tentativo, fotografo il lago con alcuni bagnanti dai fisici non scultorei, ma, quando ho terminato il panino, noto un gruppo di giovani maschi scapoli di stambecco venire a leccare i sali sulle sponde. Scendo alla riva e mi avvicino con cautela a un esemplare, approfittando della copertura di una masso erratico. Lui subito soffia al mio indirizzo, ma poi resta tranquillo e mi consente di portare a casa il migliore scatto di stambecchi che abbia mai fatto. La bellezza della scena, così selvaggia, aliena e perfetta, mi fa venire le lacrime agli occhi: è sublime e composta al tempo stesso, per l'insolita combinazione di masse glaciali e pareti rocciose, strutturate secondo proporzioni ben bilanciate. Ritorno dove ho lasciato lo zaino e ci trovo un anziano affaticato, ma entusiasta dalla visione che ha di fronte. Intanto uno stambecco più anziano si aggrega agli altri.
Quando scendo incrocio Valentina, che ha pranzato in rifugio e, su suggerimento dei gestori, sta salendo qui senza zaino, ma non si aspettava che ci fosse così tanto da camminare. Le annuncio la meta ormai prossima. Lei avrà anche la sorte di vedere gli stambecchi incornarsi. Contemporaneamente una voce con accento spagnolo si rivolge a me, per farmi notare che il mio zaino è molto lontano dalla schiena: è il metodo per caricare di più i fianchi, che non patiscono il peso. Naturalmente non si può adoprare quando il sentiero diventa accidentato, come sulle pietraie e sui guadi, perché lo zaino ballerebbe troppo, mettendo a repentaglio la stabilità. Il quarantenne mi fa notare un trucchetto che ha appreso in Nepal e nelle Ande: una fascia elastica frontale è agganciata con corde e moschettoni allo zaino e scarica il peso sulla testa. «Chi è senza capelli come noi non corre il rischio di rovinarli», aggiunge togliendosi il cappello da pescatore e rendendo evidente che non ha neppure i tre capelli di Homer. Per la verità non sono (ancora) pelato, ma prima dei trek taglio i capelli quasi a zero per non avere il problema sudare sotto il cappello e di asciugarli dopo la doccia.
Passo nuovamente sul ponte, la cui luce rispetto al torrente pare essersi ulteriormente assottigliata, dalle rocce montonate e dalle morene, dove supero i bagnanti che avevo fotografato al lago. Dei tre, una signora pare essere un'escursionista abituale, mentre gli altri due sono completamente fuori allenamento e procedono a rilento. Prima del ponte vedo il pastore con il binocolo e il cane alla ricerca delle sue vacche; per ritrosia non oso farmi avanti a dirgli dove lo ho viste scendendo.
Ripassato il ponte, torno sull'Alta Via e in breve sono all'alpeggio, il più elevato della valle, dove alcuni cartelli illustrano la vita passata e la produzione dei latticini. Inoltre una volta la trasformazione del latte mirava principalmente al più remunerativo burro, anziché ai formaggi, che erano pertanto magri e insipidi, per cui erano consumati principalmente dai produttori stessi e non erano venduti: non esiste infatti un formaggio tipico della valle. In questo trek incontro quasi esclusivamente vacche, mentre ancora quarant'anni fa capre e pecore erano la netta maggioranza. Mentre i maggenghi erano privati, i pascoli erano comunali e dati in concessione a gruppi di montanari, che li spartivano in base alla quantità di animali che caricavano. Saluto la moglie del pastore e ottengo rassicurazione sulla disponibilità del loro formaggio al rifugio. Questo si trova affacciato su un dosso montonato che domina il lago artificiale di Gera, tributario dei rii glaciali attraversati oggi, profondamente incassato tra ripidi pendii prativi.

In una malcongegnata baita dell'alpe si erano insediati due pittori amici di Nolli, Giuseppe Omio e Carlo Prada. Entrambi sarebbero poi stati reclutati tra i divisionisti. Il primo ebbe una sorte sfortunata, perché perse un braccio in un incidente e morì in miseria. Il suo dipinto “Mattino alpestre”, che a giudicare dalle date potrebbe essere stato eseguito qui, segnalato dalla critica all'esposizione divisionista del 1907 a Parigi, è conservato alla Galleria d'Arte Moderna di Roma. Del secondo, che in età matura si dedicò al paesaggio ligure, in rete si trova un dipinto ripreso dalla Marinelli, con soggetto i ghiacciai di Scerscen, anch'esso lodato dalla critica francese alla citata mostra.
Essi conducevano una vita dedita all'arte e alla contemplazione delle scene alpestri e di quelle sublimi, per trarre ispirazione per le loro opere. Un pittore adoperava la pastora come modella e cercava con gran fatica di gestire la barriera culturale che li separava, anche con gravi rischi per la donna, sempre minacciata e pure menata dal marito, che aveva allegramente intascato il compenso per la prestazione. Merita leggere per intero la colorita descrizione della loro sistemazione, che ben trasmette per metonimia l'animo del pittore concentrato sull'arte e del tutto dimentico della quotidianità.

La baita, onorata dalla mia e dalla presenza dei giovani pittori, non ha sei metri quadrati d'area : è costruita di sassi sovrapposti, e, fra commessura e commessura, serve da cemento lo sterco delle greggi; è scavata nel pendio della montagna, cosi che solo la facciata ed il tetto liscio, con un poco di pareti laterali, sono visibili a chi guarda; si entra per un piccolo vano, dinnanzi al quale è appostato una specie di uscio girante su un grosso palo, aguzzo alla base, che fa l'ufficio di cardine. Internamente, quando l'occhio si sia avvezzato a scrutare nella semioscurità, si intravede un tronco, che Ercole nuovo, deve sostenere il cielo affumicato della catapecchia.
Unici mobili una panca di legno, sucida, untuosa e una specie di larga mangiatoia che serve da letto: in un angolo quattro pietre, un po' di cenere e della legna carbonizzata indicano il posto dove s'accende per solito il fuoco; a destra dei semplicissimi alari, sopra alcuni sassi, accomodati a sedile, s'apre un armadietto a muro, ed al suo fianco, quasi per logico compenso, sporge una mensola massiccia.
Il tetto, che ha la sua massima altezza nel centro della baita, è spiovente ai due lati come quello di una soffitta : su tutto il fumo, che non avendo altra uscita che la porta e gli interstizi fra pietra e pietra, ha deposto una patina oleosa e nerastra.
Però la panca di legno, il sedile di pietra, il vano nel muro, il medesimo pavimento s'indovinano più che non si vedano perchè sopra di essi, e, dove è possibile sotto, sono disseminati gli oggetti i più diversi in un disordine incredibile. Fanno capolino dovunque boccette, scatole di sardine, scarpe di panno alla montanara, coperte da letto, pane di segale e burro spalmato di polvere, inchiostro, pennelli, tele incominciate o greggie, paiolo ripieno d'acqua perché rammollisca la crosta della polenta, abiti e cappelli nei quali si nascondono le posate e le matite, sacchi e sacchetti di tutte le dimensioni con le bocche aperte o strettamente serrate; legna verde e secca; salami che sgusciano da miseri pezzi di carta; bastoni ferrati... e, nei due angoli non occupati dal letto-mangiatoia o dal focolare, ecco mostrarsi un mucchio alto di cose, che sfuggono ad una descrizione minuziosa e che si abbracciano, che si confondono, forse per raccontarsi le peripezie della loro vita avventurosa e bislacca...

Neanche stasera posso fare la doccia, neppure fredda, nonostante abbiano un copioso torrente glaciale a breve distanza. Non posso neppure lavare i piedi, per la mancanza di un bidet. Lavo il tronco al lavandino, stavolta però con acqua di primizia, e le parti intime con la salvietta. Di straforo lavo mutande e maglietta, per poi stenderle in stanza con ai lacci di riserva, per non farmi scoprire, contando sul fatto che la finestra è esposta al vento. Le calze saranno invece le stesse per il terzo giorno: per fortuna questi nuovi scarponi non trasmettono a loro la tremenda puzza dei precedenti. Non prende il cellulare, ma mi fanno fare gratis una telefonata di un minuto con il radiotelefono.
Il rifugio eccelle per gli animali da compagnia: una gattina di tre mesi dal pelo foltissimo, di nome Afrodite, che sta arrotolata in una cesta e si fa coccolare da chiunque, il marito, un Maine Coon di tredici chili, e quindi tre maremmani enormi. Nel pollaio c'è anche un batuffolo bianco con becco gallinaceo. Per cena ho una zuppa di cereali, alternativa ai pizzoccheri, e un piattone ultracalorico di patate, speck e uova (i vegetariani non sono previsti), per concludere con un dolce al lìmone. Ceno al tavolo con Valentina, che domani percorrerà l'Alta Via fino al Cristina, per poi recuperare l'automobile a Campo Moro e rientrare a Milano, tre giorni in giro con uno zaino capiente la metà del mio per gite in giornata. Ci sono poi una coppia che parla tedesco e una signora inglese con il figlio ventenne. Poiché mi sembra strano che il telefono non prenda nei pressi di una diga, indosso gli scarponi e vado ad affacciarmi sul dosso montonato proteso sul fondo secco del lago, dove ho un po' di rete erratica per telefonare, ma non i dati per mandare il numero di carta di credito all'albergo.

Galleria fotografica

Cime di Musella
Cime di Musella
Ghiaccio di Scerscen Inferiore
Ghiaccio di Scerscen Inferiore
Rifugio Carate
Rifugio Carate

Forcella di Fellaria
Forcella di Fellaria

Ghiacciaio di Fellaria Occidentale
Ghiacciaio di Fellaria Occidentale
Ghiacciaio di Fellaria Orientale
Ghiacciaio di Fellaria Orientale
Bridge over troubled water
Bridge over troubled water
Alpe Fellaria
Alpe Fellaria
Lago di Gera
Lago di Gera

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Sergio Chiappino

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