Alpe Fellaria-alpe Prabello

Val Poschiavina

20 luglio


Alpe Prabello e Pizzo Scalino
Alpe Prabello e Pizzo Scalino

Diario di viaggio

Con questa tappa lascio l'alta montagna dei ghiacciai e delle pietraie, per attraversare invece vaste distese prative, anche se le prime tenteranno di resuscitare,a causa di un mio errore.

Faccio colazione dopo Valentina, che ha quasi i minuti contati e deve fare presto. La vedrò per l'ultima volta alla mia partenza, già come puntino minuscolo e poi schizzerà invisibile e irraggiungibile. La colazione dolce è semplice e funzionale.
Fuori c'è qualche nuvola, gradita, di bel tempo. Scendo verso la conca al termine del lago di Gera, che però è asciutta per il livello basso, ai piedi delle rocce montonate su cui sorge il rifugio. Mi dirigo verso l'immissario, che raccoglie tutte le acque dei ghiacciai di Fellaria. Osservo il curioso fenomeno dell'ombra di una montagna, credo Cima Fontana, proiettata in cielo dai raggi radenti per l'umidità del mattino. Tra marmotte indifferenti arrivo ai piedi della cascata, dove passo il torrente rombante e spumeggiante. Sarà l'ultimo terrorizzante del trek, perché quello della vedretta dello Scalino sarà molto più modesto, poco più di un torrente di sorgente in una anno normale. In traverso supero su ponti rii con due dita d'acqua, come altri del genere valicati nei giorni scorsi. Giungo a costeggiare quasi l'alveo del lago pietroso rinsecchito e risalgo per prati all'alpe Gembrè, dove trovo per prima cosa una fontana, da cui esce poco più di un filo d'acqua. Immaginavo di trovare acqua negli alpeggi attraversati oggi, ma per sicurezza ho preso lo stesso una bottiglia di minerale al rifugio, dove l'acqua non era potabile. Sull'uscio ci sono due vecchi; mi sembra di riconoscere la donna dalla foto presente sulla guida.
Lascio quindi un attimo il tracciato dell'Alta Via, imboccando invece quello per il passo Confinale, per scattare una foto dall'alto all'alpe e alle vacche. È la visione paradigmatica delle Alpi: la civiltà contadina in basso e la natura selvaggia in alto, ciò che rende le Alpi degne di essere attraversate. Questa duplicità pone complicate questioni di salvaguardia, perché non si può proteggere solo la natura dall'assalto antropico o solo agevolare l'attività economica. Bisogna invece camminare sul fil di lama che le tutela entrambe, non di rado in contrasto, cercando punti di equilibrio mai soddisfacenti per entrambi. Le cose sono più semplici per chi pratica l'alpinismo in montagna dagli sfasciumi in su, perché a loro non interessa la montagna verde di alpeggi, boschi e sentieri, che può anche essere compromessa senza che se ne accorgano. In questa valle ho visto non poche operazioni, consolidate o in corso, di salita della civiltà del mezzo meccanico verso i santuari dela civiltà dei sentieri.
Riprendo quindi il periplo del lago verde, che, dopo una croce, prevede un traverso prima aereo e poi in un canaletto tra rocce montonate. Oltre una sorta di galleria, sotto una parete che s'incurva fin quasi a baciare il terreno sottostante, salgo ripido a tornanti, fino al pianoro di accesso alla val Poschiavina, sospesa a un centinaio di metri sopra la valle di Fellaria, come prescritto dal cliché delle valli glaciali secondarie. Sul greto del limpido rio del vallone, mi fermo per una pausa, presso un ponte dove si separano la pista che prosegue il giro del lago e la mia via, che lo risale fino al culmine. Passano intanto tre escursionisti.
Poco più a monte ci sono delle baite, dove un cane accorre ai fischi della marmotte e un vecchio su un uscio mi saluta. Bevo anche qui, come all'alpe Gembrè, qualche bicchiere alla fontana. Le baite si trovano ai margini di un grande prato, dove pascolano due cavalli, dalla forma molto allungata e sbarrato a monte da un cordone di massi e prato. Risalitolo su una pista, mi trovo proiettato in una successione di altri ameni pianori erbosi, intervallati da basse costole rocciose. Vacche e vitelli pascolano nei prati. Sui fianchi ci sono cime rocciose, non molto rilevate sul fianco settentrionale, mentre alle mie spalle, dietro l'infilata, svetta il mondo dei ghiacciai del Bernina.
Il sentiero sale gradualmente e lungamente in tale ambiente ameno e bucolico, in una luce un po' fosca per l'umidità verso lo Scalino e la val Poschiavo. È purtroppo in buona parte obliterato da una pista terrosa, che è in fase di costruzione da parte di un escavatore, a cui il manovratore è arrivato con un quad. Pensavo fosse a beneficio dei pastori, ma sul web leggo che si tratta di una ciclovia: queste e le piste ciclabili sono diventate la scusa per asfaltare o distruggere una porzione ulteriore di territorio. Sull'ultimo ripiano ricade una via di mezzo tra una cascata e una rapida. Mi fermo su una propaggine rocciosa ad aspettare che transiti la nuvola e vi lasci arrivare il sole per fotografarla.
Raggiungo una balza formata di rocce montonate, che supero anche con un angusto passaggio tra due roccioni, fino a raggiungere il crinale con la val Poschiavo, un lembo di Grigioni a sud delle Alpi. A causa della densa foschia (oggi è aumentata sensibilmente) non riesco che a intravedere una linea di cime blu all'orizzonte. Seguo quindi il crinale, guidato da segnavia svizzeri. La guida ha trasmesso un po' di ansia al mio debole e insicuro carattere per una «paretina attrezzata», che si rivela essere un singolo gradino metallico su una placca. Mi fermo a mangiare la prima parte del pranzo sulle sponde di un laghetto con eriofori ai margini, sulle cui placide acque si riflette il Bernina e le libellule si librano. Il cielo intanto va coprendosi quasi interamente.

Dal laghetto salgo un dosso e raggiungo un incrocio di sentieri, dove incontro delle escursioniste svizzere tedesche. Attraverso un mammellone ondulato e fiorito, dove l'Alta Via si sdoppia. Imbocco il ramo di destra, che oltrepassa su un ponticello il torrente della vedretta dello Scalino, visibile alle spalle di una valletta. Risalgo quindi la morena laterale del ghiacciaio, inerbita. Incontro una signora accompagnata da un cane, che mi chiede le indicazioni per scendere in val Poschiavina. In cima alla morena trovo il passo di Campagneda.
Qui riesco a sbagliare due volte di fila il sentiero. La prima imbocco a ritroso l'altro ramo dell'Alta Via e me ne accorgo solo quando mi affaccio nuovamente sulla cresta della morena e rivedo dall'alto l'altopiano ondulato, dove sono appena transitato. Tornato sui miei passi, seguo delle banderuole biancorosse recenti, che sulla morena erano in coabitazione con i triangoli gialli, e mi trovo catapultato in una zona di massi ciclopici, che devo faticosamente oltrepassare. È probabilmente il tratto di pietraia più impegnativo di quelli percorsi sinora, da cui rimedio anche un'escoriazione alla mano sinistra.
Raggiunti finalmente dei prati, continuo senza traccia ma tacche sufficienti ai piedi della cima piramidale del Pizzo Scalino, passando a monte di un gregge di capre e tra fischi di marmotte. Mi trovo quindi a tagliare un pendio erboso, ai cui piedi c'è un altopiano pascolivo, su cui sarei dovuto arrivare, poco oltre il laghi di Campagneda, totalmente saltati. Mi fermo a consultare cartina e oruxmaps, per capire dove possa portare questo sentiero, ma nessuna delle due lo riporta, come neppure la carta lasciata alla fidanzata per seguire il mio percorso. Con una breve discesa sui prati potrei raggiungere il sentiero previsto, ma penso che questo così ben segnato e ora anche ben tracciato porterà da qualche parte.
Raggiungo una zona nuovamente più rocciosa e mi infilo tra il pendio che sto tagliando e un dosso roccioso, in una stretta valletta. Sento dei campanacci di vitelli e mi illudo di essere a posto, perché loro pascolano solo nei luoghi più accessibili. Trovo invece l'ultima tacca sul margine di una pietraia informe di massi ciclopici, inattaccabili, poi più nulla. Per la verità non esploro nemmeno accuratamente, tanto mi demoralizzo in fretta dopo l'esperienza precedente. Ritorno perciò sui miei passi e, appena possibile, scendo per prati. Trovo immediatamente il triangolo giallo e mi fermo a rifiatare e rifocillarmi, perché per la tensione dell'imprevisto da un po' ho smesso di mangiare e bere, nonostante sia tornato il sole a picco. Sono a margine di una grande altopiano erboso, mediamente affollato da un via vai di escursionisti. Una signora, diretta in senso opposto ai laghetti, mi chiede delle indicazioni per prendere verso valle, senza arrivare fin lì, e io la rassicuro di aver effettivamente visto dall'alto una pista che punta verso quella direzione.
Raggiungo così dal basso i vitelli che avevo udito, ritrovo le banderuole biancorosse che magari da qualche parte sono passate, e procedo per ampi prati pressoché pianeggianti, solo lievemente ondulati, costellati di cardi e in buona parte brucati e tappezzati di fatte, e anche irrigati da spruzzatori. Mi affaccio sull'alpe Prabello, con il rifugio ben riconoscibile alla mia sinistra, le casette sotto di me, accanto a cui corre una roggia lungo cui è installata una riproduzione di una zangola. Oltre un prato pianeggiante attrezzato a rudimentale campo di calcio, delimitato unicamente da due porte di tre tronchi, la chiesa di pietra è edificata sul dosso montonato, che delimita l'antico lago interrato.
Al rifugio per prima cosa faccio la doccia, 4 minuti di acqua calda o fredda che sia. Visto il caldo della discesa, opto per la seconda opzione. Per cena ci sono pizzoccheri e tacchino con contorno. Vista la bordata di calorie e grassi (anche le verdure sono condite generosamente), oso accompagnare con ben mezzo litro di Valtellina, il vino rosso prodotto sui terrazzamenti attorno a Sondrio. Davvero molto buono. Purtroppo ceno a un tavolo separato dagli altri ospiti, nonostante siamo pochi: una gestione più da albergo che da rifugio. Nella sala c'è una vetrina con una collezione di minerali.
Abuso un po' anche perché domani non dovrò camminare. Avevo previsto di fermarmi qui due giorni per salire sul Pizzo Scalino dal passo degli Ometti, ma lungo il viaggio ho accumulato una certa repulsione per le pietraie, che lassù paiono essere ancor più rognose della media. Mi godrò pertanto il luogo, fotografandolo la sera, la notte e all'aurora.
Il Pizzo Scalino è una montagna simbolo della Valmalenco, per la sua forma piramidale e la sua visibilità. Tendenzialmente evito escursioni nelle quali salgo a una cima per la via diretta e scendo per la medesima, perché mi sembrano più spostamenti mirati al raggiungimento di una meta, come quando giro in auto, che un viaggio a piedi, in cui ogni passo ha il suo motivo di attrazione. Tuttavia in questo caso la via aveva un senso, perché era percorsa dai contrabbandieri quando la valle era sotto stretta sorveglianza. Inoltre la portata simbolica della meta mi avrebbe fatto soprassedere ai miei principi. Tra l'altro in questi giorni mi era arrivata la notizia che le ceneri di un vecchio CAI scomparso recentemente sarebbero state disperse sulla cima che ha lo stesso significato per i torinesi, il Rocciamelone. Avrei potuto dedicare la salita a lui, dato che mi sarà impossibile partecipare alla cerimonia. Ciò che distingue le due cime è il diverso peso della prima salita: Il Rocciamelone fu salito già nel Medioevo e la prima ascensione ha un'aura di leggenda, mentre lo Scalino fu salito la prima volta poco eroicamente da cartografi addetti a disegnare la carta del Lombardo-Veneto. Anche Nolli vi salì, per il ghiacciaio, apparentemente in souplesse, senza spendere tutte le parole di meraviglia per la montagna ostile impiegate nell'escursione al lago Pirola o alla Marinelli. La salita che avrei compiuto, dal passo degli Ometti per il versante sud è data come molto faticosa e pericolosa per la caduta delle pietre; con questo caldo avrebbe potuto essere un supplizio, ma non avrei avuto alternative, perché non ho né esperienza né attrezzatura da ghiacciaio, ammesso che sia praticabile. Su di esso aleggia una storia che racchiude sia il classico motivo della caccia selvaggia, che la processione degli spiriti. Vuole che alla mezzanotte sul ghiacciaio si radunino cavalieri medievali per tenere una giostra.

Il primo tramonto è deludente, perché l'orizzonte occidentale è coperto da uno strato di velature, che nascondono il sole non appena esco al termine della cena. La notte è un po' velata, ma qualche scatto con le stelle riesce lo stesso. Un gregge di capre gira tra le case e i cani abbaiano quando accendo la pila, ma nessuno mi viene incontro: evidentemente qui i lupi sono ancora una presenza sporadica, se non ci sono contromisure in atto. La loro scomparsa risale a tempi remoti, perché in valle non ha lasciato tracce neppure nel folklore; gli ultimi orsi furono invece cacciati a inizio Novecento presso l'alpe Lago. La mattina ci sono ancora nuvole, ma collaborative. Dimentico però di abbassare la sensibilità del sensore e le foto saranno un po' granulose. La seconda sera sarà invece molto tersa e non avrò neppure bisogno del cavalletto.
La prima sveglia era suonata a mezzanotte, quindi avevo dormito a tratti fino alla seconda delle 5.30. Un lenzuolo è sufficiente per la maggior parte della notte, ma nella sessione al sorgere del sole si alza una brezza fresca, che al rientro mi fa tirare su le coperte. Dopo colazione vado ad appollaiarmi ai margini di un labirinto di rocce montonate, affacciato sulla tappa di domani. Prima però vado a studiare un punto per la foto al secondo tramonto: la sera sarò così fortunato da includere dei bambini che si lasciano scivolare su un masso accanto alla chiesetta. Vado poi a guardarlo da vicino e scopro che non è un masso scivolo, su cui la gente si lasciava cadere per sconfiggere l'infertilità, ma l'impiego è un'invenzione dei bambini.
La maggior parte della mattina, come anche del pomeriggio, trascorre al telefono a fare da sponda per la fidanzata, il cui equilibrio mentale è messo a dura prova dall'isolamento e dal caldo asfissiante. Domani ha il tampone di uscita, ma ha ancora qualche lieve sintomo e non sono del tutto fiducioso. Per il resto leggo, pisolo e guardo gli escursionisti passare. Approfitto della roggia nel prato, quella della zangola zangola dimostrativa, per lavare gli scarponi, che sui sentieri terrosi e riarsi della val Poschiavina si sono ricoperti di polvere. A mezzogiorno il rifugio è affollato. Mangio una polenta con salsiccia e funghi, stavolta con quantità di vino moderata. È previsto un turno alle 12.30 ai tavoli e dalle 13.30 l'asporto. Sono disponibili pochi piatti tipici valtellinesi: tutto sembra molto efficiente e ben rodato. La sera c'è più gente a cena del giorno precedente: varie famiglie con bimbi e un gruppo plurifamiliare di escursionisti belgi.

Galleria fotografica

L
L'ombra della montagna in cielo
Emissario di Fellaria
Emissario di Fellaria
Alpe Gembrè
Alpe Gembrè
Alpe Poschiavina
Alpe Poschiavina
Alpe Poschiavina
Alpe Poschiavina
Ciclovia
Ciclovia
Lago di Canciano
Lago di Canciano
Lago di Canciano
Lago di Canciano

Altopiana della Belma
Altopiana della Belma
Pizzo Scalino
Pizzo Scalino
Alpe Prabello
Alpe Prabello
Alpe Prabello
Alpe Prabello
Alpe Prabello e Sasso Moro
Alpe Prabello e Sasso Moro
Alpe Prabello e Pizzo Scalino
Alpe Prabello e Pizzo Scalino

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Sergio Chiappino

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