Alpe Prabello-Sondrio
Sentiero Rusca
22 luglio
Diario di viaggio
Eterna tappa di discesa. Volevo che fosse una discesa agli inferi, dal fresco dei monti al torrido delle basse quote. O in alternativa un viaggio al centro della Terra, ma le immagini escatologiche mi sembrano più adatte per la fine del soggiorno sui monti e il rientro nell'estate del riscaldamento globale e della siccità estrema.
È anche una via di contrabbandieri, nella prima parte, perché gli abitanti di Spriana vi transitavano per svalicare in val Poschiavo dal passo di Canciano, da cui sono passato pure io. Un'altra scendeva invece dalla val Poschiavina. Nolli a Campo Franscia incontrò una volta un giovane ragazzo con una mano ferita, nella fuga notturna precipitosa per dirupi, per sfuggire a un appostamento di finanzieri. Nel 1910 a Chiesa Raeburn, l'alpinista scozzese della Via degli Inglesi al Disgrazia, annota invece: «Fummo colpiti dal gran numero di guardie di finanza che si vedevano ovunque. Di fatto, una metà della popolazione sembra essere costituita da agenti dell'ordine, mentre una buona parte dell'altra metà sono possibili contrabbandieri».
Vista la lunghezza della tappa, peraltro ancora non ben definita nei dettagli, chiedo una colazione di buon ora. La giornata comincia con una distrazione, di cui mi renderò conto solo intorno alle 11: evidentemente ieri sera non è arrivata in cucina la mia ordinazione di un panino per oggi, né stamattina mi ricordo di chiederlo. Inconsapevole parto perciò con le sole provviste energetiche di scorta, mandorle e i due datteri medjoul che mi sono rimasti. Prima però chiedo alla signora se sa qualcosa delle pietre bianche sui comignoli e i tetti, anche qui numerose. Mi risponde che ne ignora il significato, ma «i vecchi le hanno sempre messe». Qualche funzione indicibile ce l'hanno, dunque, anche se magari si è persa con la discesa a valle dei miti montanari, che si sono evoluti in moderni rettiliani.
Attraverso il fascinoso labirinto di rocce montonate che chiudono il piano a sud, mentre il primo sole le dipinge di chiaroscuro. Un sentiero, ben costruito con lastre di pietra, si incunea tra i passaggi nell'intrico di dossi arrotondati. Il Pizzo Scalino intercetta i raggi del sole, che lo lambiscono e disegnano strisce di chiaroscuro blu, dirette sottovento dalle pendici verso le mie prossime destinazioni. Attraverso quindi un lariceto, tra altre forme glaciali nella veste di lingue moreniche e pietraie di falda, dove il sentiero è sempre mirabilmente edificato. La zona è infatti molto articolata da un punto di vista geologico, tanto da presentare anche una grotta molto profonda, detta “buchel del l'hora” (buco dell'aria fredda), per la corrente che vi fuoriesce. È molto profonda, come si sperimenta gettandovi un sasso e sentendolo rimbalzare varie volte, e vi circolano varie storie, tra cui quella di una suora entratavi e mai più uscita, o di un maiale caduto dentro e ritrovato successivamente nel lago di Gera.
Raggiungo l'alpe Acquanera, già annunciata da tempo dalle fatte di vacca, dove trovo parcheggiato un quad tra gli edifici sotto il sentiero, mentre in uno lambito c'è un punto di degustazione di raclette e vino. Il nome deriva dalla presenza di torba, il cui grisù portava non pochi pericoli a una vicina miniera di amianto, ma oggi è tutto secco: dove la via è segnata da lastre appoggiate sul terreno, a indicare un quasi perenne impaludamento, il fondo è invece perfettamente duro e transitabile; anzi qui di seguito sarà persino polveroso. Curiosamente l'alpe non apparteneva ai malenchi, ma al paese di Montagna in Valtellina; la suddivisione dei maggenghi e degli alpi non seguiva criteri geografici, ma derivava da articolate stratificazioni storiche. Scendo in una zona in cui ci sono vacche e vitelli, per poi attraversare dei canali soggetti a slavine. Ne ritroverò anche oltre, con tanto di ontani a indicare un perenne umidità. Per il resto alterno pietraie a lariceti e poco sotto di me vedo un laghetto immerso nel fitto bosco di conifere. In una zona erbosa sorprendo un camoscio, che mi scorge solo quando sono molto vicino; dopo un attimo d'incertezza soffia, si dilegua con un balzo e svanisce nel bosco.
Mi tocca quindi una ripida risalita, su sentierino in traverso per un ripido pendio boscato. Qui immagino le imprecazioni degli atleti della ∇UT, specie gli ultimi, che vi arrivano quando sta scendendo il buio, mentre già si figuravano a Caspoggio. Sono quasi a picco sui paesi, che vedo dall'alto e di cui sento le campane. Sono felice di ritrovare il mondo civile nella forma della musicalità delle campane, più apprezzabile del rombo sinistro delle moto. Al termine della risalita, passo accanto a una sorgente com madonnina, dove una targa lapidea ricorda un'Adele con le parole di “Canzone per un'amica” di Guccini.
Oltre un incavo con pietraia c'è una vecchia baita circondata da Rumex alpinus, su un poggio molto panoramico: è l'alpe Cavaglia, dove trovo anche una fonte. Mi giunge intanto la notizia che la fidanzata è ancora positiva, seppure con due lineette appena. Tra un paio di giorni sarà negativa, ma intanto non potrà venire alla stazione ad abbracciarmi. Prima di partire, avevo pensato di fermarmi due giorni a Sondrio, per andare a vedere il dipinto dell'uomo selvatico a Cosio, ma ora l'idea nemmeno mi passa per la testa, anche se non avrei il peso di ritardare l'incontro con lei.
Già un po' di volte avevo salutato lo Scalino, credendo che non l'avrei più visto quando spariva dietro un dosso, ma ora sono davvero al commiato definitivo. Il Disgrazia sarebbe ancora in vista, ma una nuvola l'ha già nascosto a metà mattina. Ho di fronte il percorso delle prime tappe e con un po' d'impegno potrei individuare il punto esatto dove si è scollata la suola. Dietro la scapola destra ci sono invece le cime all testata della valle e i loro ghiacciai. Un luogo appartato, ma davvero molto panoramico. Mi fermo un po' a prendere appunti: ho già attraversato una gran varietà di ambienti e visto innumerevoli cose.
Attraverso quindi per ampie cenge un lariceto con abeti davvero incantato, dove non mi dispiacerebbe venire a fotografare in una nebbiosa giornata di ottobre, se fosse vicino a casa. Intravedo anche un capriolo, ma stavolta solo da lontano, prima che si eclissi a passo lento, senza avermi notato. Altra apparizione sono due palestrati a torso nudo. Al bivio per l'alpe Crap scivolo su un masso, rischiando di danneggiare un ginocchio per la sforzo. Se avessi ricordato dal cartello di Sondrio che crap significa rupe, avrei magari potuto anche farci un salto.
Mi affaccio quindi dall'alto su degli impianti da sci dismessi, a cui la tristezza di prammatica, si aggiungono anche le erbacce attorno al bar. A una fonte, da cui scende un rivolo, si sta abbeverando un ciclista. Anche stavolta il sentiero non trova di meglio che ricalcare la pista. Nel frattempo si avvicina il mezzogiorno e mi rendo conto della mancanza del panino, per cui provo a mandare un messaggio a Prato, per vedere se possono tenermi un piatto per le 14.
Prima di raggiungere la Motta di Caspoggio lascio il percorso dell'Alta Via, che termina in quel paese, che peraltro mi avevano detto essere l'unico meritevole di visita, con un centro storico. Seguo invece il consiglio della guida di puntare su Torre Santa Maria, da cui scenderò a Sondrio per la vecchia strada. Prendo a sinistra, rientro nel bosco e raggiungo il borgo abbandonato di Gianni, dove solo una casa sembra ancora frequentata, ma l'erba rinsecchita è rasata anche nei dintorni. A differenza degli impianti di risalita dismessi, qui c'era vita di montagna e non solo divertimento di passaggio, per cui mi fermo a visitarlo e a cercare interni conservati da fotografare. Riesco a trovare un soggiorno-cucina, dove la cucina economica ha sostituito il vecchio focolare senza camino dei tempi remoti. Riempio anche la borraccia all'abbondante fonte. Mentre sono intento a prendere appunti, atterra vicino a me una cavalletta con un piercing sul sedere.
In traverso, passo tra terrazze abbandonate, dove fino agli anni ‘80 biondeggiava la segale, ora invase da un bosco selvatico. Al di sopra invece i boschi erano terra di carbonai, che però in questa valle rimase sempre un'attività secondaria; la catasta era detta puiatt. In discesa raggiungo così Dagua, divisa in due nuclei inframmezzati da un gruppetto di case, dove qualcuno è venuto fino ad anni recenti. Invece i nuclei principali sono molto invasi dalla vegetazione. In quello inferiore c'erano un telefono pubblico e una casa dai balconi di legno con listelle, analoghe a quelle su cui i Walser seccavano il fieno. All'uscita dal paese un lungo serpente nero si dileguo mentre sopraggiungo. Anche sopra e sotto Dagua c'erano terrazzamenti, come pure attorno a gruppi di case isolate più in basso. La mulattiera che ci passa in mezzo è molto ben fatta. Nella cartina del 1890, tutti i dintorni erano fittamente colonizzati da costruzioni sparse, immagino edifici agricoli analoghi a quelli che incontrerò in discesa, mentre ora il bosco selvatico regna sovrano.
Mi trovo a rimpiangere di non aver potuto ammirare questi posti quando erano vivi. Pericolosa nostalgia, perché la vita qui era grama e la società implacabile con chi sgarrava dalla normalità. Entrando a pieno titolo tra costoro, non me la sarei passata bene. Nell'Ottocento i movimenti popolari che si opponevano al capitalismo immaginavano un futuro diverso dal passato e dal presente. Oggi invece gli oppositori, come gli ecologisti o i religiosi, idealizzano società defunte, dove la sorte per gli irregolari era ben più marginale che adesso, sempre ammesso che fossero lasciati vivi.
Intorno a quota 1000 mi arriva una botta di caldo, che non mi lascia presagire nulla di buono. Raggiungo quindi il nucleo di Scaia, non riportato sulla mia mappa, non raggiunto da strade, ma popolato e curato. Poco sotto, con vista su Ciappanico nuova, raggiungo Cristini, dove arriva la strada e ci sono mote casette residenziali. Ancora una breve discesa e solo il Mallero mi separa da Torre Santa Maria. Noto che non prendo quasi più appunti sugli abitati e i sentieri, perché l'interesse sta calando per l'approssimarsi dell'arrivo.
Nei programmi originali, qui avrei dovuto restare su questo versante della valle e salire al maggengo dei Crisci, da cui scendere per sentieri e stradine a Spriana e quindi ad Arquino. Dovendo invece pranzare a Prato, valico il ponte, dove soffia una piacevole brezza, pur se calda. la foschia al fondo dell'infilata della valle è incredibilmente spessa. Prima di raggiungere le case, trovo le indicazioni per il cosiddetto sentiero Rusca, che è una pista ciclopedonale cementata, tra la strada e il torrente. Consultando la mia mappa e le cartine esposte lungo il percorso, capisco di doverla lasciare ai Tornadu, dove passa sul lato opposto della valle, per non dover poi fare un tratto in salita a ritroso. da lì seguo quindi la strada della valle, tra un traffico non trascurabile nonostante sia ora di pranzo, stando a mio rischio e pericolo sul lato destro, perché in ombra.
Finalmente raggiungo il ristorante, dove hanno tenuto aperto apposta per me e hanno apparecchiato nell'interno più fresco. Mi danno innanzitutto da bere, quindi del vitello tonnato e delle verdure, un pasto frugale perché conto di rifarmi stasera. Soprattutto però si fanno raccontare le mie peripezie e mi chiedono lumi su sentieri che vogliono percorrere. Mi consigliano anche un negozio dove andare a comprare il vino.
Dopo una pausa, mi rimetto sotto il sole, sull'asfalto, che mi toccherà ora seguire fino a Sondrio. Scendo fino al ponte di Spriana, dove ritrovo la pista pedonale e la seguo un pochettino all'ombra. Noto che non pochi alberi hanno già le foglie secche, in tutto o in parte, per l'arsura. La vecchia strada corre tra muri a secco e sotto una linea ad alta tensione. Raggiungo Cagnoletti, dove faccio la coda alla fontanella dietro a un ciclista e dove imbocco la strada dei turniché, lungo la quale mi fermo ogni tanto a meditare se includere i tralicci nelle inquadrature dei vigneti.
Alla base, stavolta vado a scattare la foto dall'alto al vecchio ponte in pietra, ma il punto di vista non valorizza né il ponte, né il letto di grandi massi levigati dall'acqua limacciosa dei ghiacciai; le gorge restano poi completamente nascoste. Al lavatoio di Arquino, sotto l'ombra di un albero un signore è seduto su una sedia a rotelle tecnologica, con la quale poco dopo il mio arrivo se ne va. Faccio caso a due muli in un recinto, rattristati dal caldo opprimente e riesco a scattare una foto a una vecchia indicazione stradale dipinta su un muro, mentre passa una grossa moto. Mi aspetta ora una lunga strada noiosa, quindi, oltre la centrale idroelettrica, risalgo nel bosco lungo una pista sterrata, fino a Scherini. Sono ormai tornato nella zona urbana di villette. Fotografando nuovamente il santuario della Sassella, ripasso dalla chiesa di Ponchiera con l'urgenza di fare la pipì, perché per l'arsura sto bevendo a garganella a ogni fontana, più per accumulare fresco che per sete. Per fortuna c'è ancora un breve tratto tra i vigneti, prima della strada a monte del complesso industriale dismesso e del centro cittadino.
Poiché le mostre del castello Masegra non mi sconfifferano, mi dedico invece a fotografare qualche passante tra i vicoli della città vecchia. Noto che tre ragazzi dall'abbigliamento balneare all'improvviso scartano e spariscono dietro un muro. Vado a curiosare e scopro un locale in un cortile, dove prendo una fresca weiss su un tavolino all'ombra dei vicoli, mentre le campane della Collegiata chiamano i fedeli alla messa delle 18. Riesco anche a riprendere di straforo due signori mentre giocano a carte sorseggiando calici di bianco, tra odore di sigaro, senza farmi notare da quello di fronte, che mi scruta con un po' di sospetto per il mio look fuori luogo. Il caldo negli stretti e ombrosi vicoli è accettabile.
Vado quindi all'albergo di lusso prenotato. Ho una singola nel sottotetto, con una finestra irraggiungibile a tre metri da terra, ma l'aria condizionata, che tengo sui 27°. Non è previsto un lenzuolo per coprisi, ma solo un piumone, che ovviamente piego e ripongo nell'armadio. la dotazione comprende due bottigliette d'acqua e una capsula per il caffè. Neanche a dirlo, quaggiù l'acqua fredda della doccia mi sembra tiepida. Mi ci vorrà qualche giorno a casa, perché ricominci a sentirla lievemente fresca.
Alla trattoria tipica provo tra le altre cose la versione valtellinese della verdura: il taroz, due fagiolini e due patate annegate in burro e formaggio. Il sorbetto all'amaro del luogo mi sembra dolcissimo. Il Valtellina è talmente forte, che un quartino mi farà rifiutare l'amaro offerto dal titolare al pagamento. Nella calda sera con ancora 30° alle 22, faccio poi due passi nel centro, che è pedonalizzato, anche se la vita sociale non è certo da Navigli. Ci sono dei negozi sfitti. La notte si scatena un temporale, ma più di fulmini e vento che acqua.
Prima di colazione, vado nel negozio di prodotti tipici consigliatomi a Prato, a comprare una bottiglia di vino per una cena con gli amici della montagna e una per la grigliata di Ferragosto dai suoceri. Il negoziante mi spiega che ci sono circa 40 km di vigneti terrazzati, divisi in alcune sottozone. Il prodotto base è il Valtellina, che se invecchiato almeno sei mesi acquista l'appellativo superiore. C'è poi un vino parzialmente passito, ma secco, con un processo analogo a quello dell'Amarone della Valpolicella, detto Sforzato, a cui però devo rinunciare, perché abbinabile unicamente a selvaggina e brasati, che non mangio. Prendo invece un superiore normale e uno invecchiato quattro anni.
A colazione salto a piè pari i fiocchi, rinnego due settimane di blando vegetarianismo, peraltro negli ultimi giorni già abbandonato, in favore di una doppia porzione di uova con il bacon e svariati salsicciotti. Ci sarebbe stata bene dell'altro Valtellina, ma non è previsto nemmeno come extra. Arriverò a cena senza difficoltà con una sola macedonia alla stazione Centrale di Milano. Sull'autobus sostitutivo, tre escursioniste francesi mettono a repentaglio la propria incolumità, perché fanno ritardare la partenza con il rischio di perdere la coincidenza del treno a Colico, ma provvidenzialmente gli orari previsti hanno ampi margini e nemmeno della coda crea ritardi. Il treno del lago è pieno, mentre su quello per Torino c'è poca gente, che scende quasi tutta alla prime stazioni.
Tengo in mano il libro, ma non ho voglia di leggere. Non sono tuttavia triste, questo viaggio non era una fuga, ma un intermezzo: tornare alla quotidianità non mi dispiace e attraversare in bici la città deserta ad agosto, mentre torno dal lavoro, sarà quasi un prolungamento di vacanza.
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Sergio Chiappino
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