Broni-Canevino

Oltrepò pavese

1 giugno


Cassinassa
Cassinassa

Diario di viaggio

Raggiungiamo la partenza del viaggio a piedi, ispirato all'Alto Medioevo, con i simboli della velocità contemporanea. Per prima cosa il treno che sfreccia doppiando le auto sulla contigua autostrada, poi una linea secondaria, che per contrasto oggi è associata alla lentezza, tanto ci siamo assuefatti alla velocità, sebbene viaggi un ordine di grandezza più rapida di una diligenza. Quest'ultima si ferma in molte stazioni eviscerate dalla carne viva, ridotte al puro scheletro, dal progresso dei trasporti ed è condotto da un giovane capotreno da una rigogliosa barba, che gli dà un tono che la capogita definisce risorgimentale. Il Po e il Ticino si presentano quasi secchi. Nonostante ci aspetti un lungo cammino, non ci siamo alzati troppo presto, come sarà una costante del viaggio.
A Broni tralasciamo i bar desolanti attorno alla stazione e puntiamo verso il piccolo centro storico, dove ci lanciamo verso una cremeria. Dettiamo le ordinazioni a una persona, che le passa a una vecchia non in grado di leggere la sua scrittura, cosicché mi tocca ripeterle imprecisamente a memoria, quando tutti gli altri si sono già accomodati ai tavoli esterni. Il risultato è che la seconda colazione ci arriverà a rate. Ad ogni modo, cannoli e torte grondano zucchero, ma sono buoni.

Il centro del paese si rivela minuscolo e privo di guizzi. Imbocchiamo quindi una stradetta, che rimonta la prima collina, tra casette con giardino e successivamente per bosco dalle molte acacie e dall'apprezzabile ombra, accompagnati dalla vista di un castello, oltre una valle. Raggiunta la dorsale a Colombarone, la seguiamo per una stradetta, immergendoci come in un libro di Guido Guidi sul paesaggio dimenticato italiano. I margini del progresso successivo al Boom postbellico, che ha ampliato a dismisura le città, ne sono divenuti la cifra molto più dei palazzi storici e dei connessi monumenti, e nel contempo hanno eroso gli spazi agresti. Questi non erano certo una realtà statica, in quanto nel corso dei secoli erano più volte radicalmente mutati in seguito alle vicende politiche, all'evoluzione dei sistemi economici e tecnologici. Tuttavia in questo caso si sono improvvisamente visti invasi da strutture nate al di fuori di essi e slegate da essi, come capannoni o case residenziali di chi vive e lavora in città. Inoltre da un certo momento in poi fu abbandonata ogni ambizione estetica: gli impianti industriali precedenti e le relative abitazioni dei lavoratori erano spesso progettati con attenzione all'aspetto esteriore e all'ecosistema sociale degli abitanti, ma ad un certo punto tutto questo fu dismesso.
La fotografia di Guidi mira agli interstizi e non al centro monumentale. Anche se non sono in grado di comprendere la riflessione sull'arte che sottende la scelta delle sue inquadrature, non avendo né la formazione ma nemmeno l'interesse per questo settore, la fascinazione per questi paesaggi marginali mi fa apprezzare questo primo pezzo di strada, mentre i miei compagni di viaggio tirano più o meno dritto, senza fotografare. Mi rendo infatti conto che Guidi non è certo il fotografo preferito da chi cammina in montagna, che normalmente preferisce tradizionali paesaggi più edulcorati e bucolici, ma io ne sono affascinato. Bordeggiamo case trasandate e spesso dimesse del tutto, case singole anni ’60, piccoli caseggiati antecedenti, villette più recenti con palme, nascoste da siepi fuori controllo. Sarà il tratto il cui scatterò di più, producendo infinite brutte copie delle sue foto.
Tra le prime case di Castana ci fermiamo su una panchina, presso una fontana, per un frutto. Abbiamo già incontrato un'invitante trattoria, che disdegnava i clienti a dieta, ma era troppo presto. Con Google Maps scopriamo che ce n'è un'altra a un paio di chilometri e ci facciamo più di un pensierino. Intanto gli edifici si sono diradati e si fanno invece quasi continui i vigneti. Per una strada alberata tra le case raggiungiamo la grande chiesa, il cui viale di accesso sembra sia stato invece privato del verde. Superato un GPM del Giro d'Italia dello scorso anno (abbiamo visto non pochi ciclisti stamattina), tralasciamo un ristorante desolatamente vuoto, in cui la TV è l'unica presenza animata, per accomodarci invece nella veranda di un locale gestito da un mercenario della Legione Straniera in congedo: lui cucina, la moglie serve ai tavoli.
Avremmo voluto una semplice insalata, prevedendo una cena sostanziosa nell'agriturismo di stasera, mentre offrono solo un menu fisso, con carne di antipasto, primo e secondo, per cui dapprima il legionario si indispone alla nostra richiesta di prendere un solo piatto, ma alla fine ai complimenti si scioglierà. Anche il caffè è molto buono; naturalmente la marca è “Medaglia d'oro”. I due gestiscono anche una colonia felina e hanno un cane gigantesco e una cagnetta tredicenne. Lui intavolerà infine una discussione con il nostro artigliere, che dovremo trascinare via a forza, con il supporto della moglie affamata.
Vorrei inserirmi anch'io, quando il legionario emerge da una discussione sulla battaglia di Poitiers affermando che la storia è prevalentemente militare: a scuola odiavo tale storia fatta di guerre, statisti e trattati, mentre mi interessava sapere come viveva la gente in giro per il mondo nelle varie epoche, cosa pensava, com'erano allora quei posti, e così via. Purtroppo, tra gli otto di medie e liceo, solo l'insegnante di storia romana nel biennio mi parlò anche di queste cose, mentre per il resto studiavo, passavo l'interrogazione e dimenticavo. Ricordo ancora invece la ricetta del garum, tanto da riconoscerlo immediatamente in un libro che lo descriveva, senza subito nominarlo. Senza contare che nessuno mi spiegò mai come si arriva alle conoscenze storiche, tramite la valutazione critica dei documenti. Per fortuna da adulto ho scoperto dei libri interessanti che hanno saziato qualche mia curiosità e riconciliato con la materia.

Oltrepassato un campo sportivo trasandato molto guidiano, ci inoltriamo in un paesaggio di boschi e vigneti. Lasciamo la via principale in favore di una sterrata, bordeggiata da numerose querce monumentali coperte di muschio, a indicare che era la via principale, quando si girava a piedi. All'ombra di una di queste, il meno tecnologico del gruppo cerca invano di scaricare le tracce del viaggio, supportato dalla capogita. Il muschio sui tronchi stride con il terreno duro e riarso: quest'anno la siccità è molto aspra e, come scopriremo stasera, è stata anche intervallata da un violento temporale che qualche giorno addietro ha danneggiato il raccolto di uva. Una chiesa presso un cocuzzolo della dirimpettaia fila di colline, sostituisce la torre del mattino come elemento trainante del paesaggio circostante. Di questo tratto ho conservato soprattutto appunti fotografici: degli operai indiani su un macchinario, rustici edifici agricoli, delle cucce che mi evocano una base militare sovietica abbandonata. Dopo una chiesetta moderna accanto a un prefabbricato dei lavori stradali, saliamo a un borgo su cui annoto “vecchia dei gatti mangiati”, forse a indicare l'incontro con una gattara, ma a distanza di due mesi ho dimenticato cosa intendevo e l'episodio tout-court. Questi gruppi di case sparse non paiono essere popolati in un giorno feriale.
Per una dorsale, raggiungiamo quindi una casa isolata, ormai con Canevino in vista. Incontriamo un sessantenne con un tatuaggio di Rambo sull'avambraccio, che ci dice di essere il figlio del mediatore del vecchio conte, scomparso recentemente. Oggi le figlie (nomina solo loro anche se c'è anche un erede maschio) hanno dismesso le attività agricole (aveva 40 cascine) e offrono servizi di supporto ai cacciatori. Il signore ci dice di aver contato una quarantina di cinghiali una sera.
Il conte Luchino Dal Verme, morto nel 2017 alla verde età di 103 anni, portava il medesimo nome del capostipite della sua dinastia. Egli, cacciato da Verona nel 1354 in seguito a una fallita congiura contro Cangrande Della Scala, offrì i suoi preziosi servigi miltari ai Visconti. Morì infine nel corso della crociata bulgara dei Savoia, la stessa a cui potrebbe aver partecipato Bonifacio Rotario, che avrebbe poi salito per primo il Rocciamelone in seguito a un voto lì contratto. Fu il figlio Jacopo a ottenere in feudo la prima porzione di Oltrepò, dove al tempo della conquista viscontea si era dedicato, nelle parole dello storico piacentino Cristoforo Poggiali, «ad abbruciar le biade nè campi […] e a saccheggiare e distruggere»: fu il premio per i servigi militari e per aver contribuito alla rappacificazione tra i signori di Milano e il papa. In breve lui e i successori videro ampliarsi i possedimenti, destreggiandosi nel ruolo di mercenari al servizio di questo e quello. La storia secolare proseguì con alterne fortune, che compresero l'estinzione del ramo legittimo per un avvelenamento, la presa di possesso della sorgente salina citata nella concessione di Agilulfo, la condanna a morte per decapitazione voluta del re di Francia, la spoliazione e ripresa dei feudi. Divennero quindi ricchi signori di campagna. Infine il conte Luchino entrò nell'esercito, combattendo nella Seconda Guerra Mondiale su vari fronti. L'8 settembre si trovava in Italia; per scampare alla deportazione, aderì alle brigate garibaldine della sua terra, di cui assunse il comando. Al termine del conflitto si sposò e si dedicò all'allevamento.
Rambo fino a pochi anni orsono ha coltivato i vigneti, recentemente ceduti per andare in pensione. I vigneti dell'Oltrepò risalgono a un periodo posteriore al monastero bobbiense, perché sono del Basso Medioevo. Per ora non sembra ancora aver trovato un suo ruolo da pensionato attivo quanto la sua indole necessita. Accanto alla sua abitazione, c'è un edificio pericolante, del quale ha già segnalato la potenziale minaccia alle autorità. Purtroppo la proprietà è stata spezzettata dalla successione secondo il diritto napoleonico, con il risultato che ora i troppi discendenti non riescono a trovare un accordo su cosa fare di questa costruzione. In una sua stanza affacciata sulla strada ci sono dei Rollerblade, gettati da Rambo stesso dopo aver tentato invano di suscitare interesse nei suoi nipoti, perché i dintorni non si prestano a questa attività. Si stupisce non poco che fotografi delle sedie di plastica. Purtroppo non riuscirei a spiegare né a lui né a me stesso la fascinazione di angoli quotidiani, che, ben inquadrati, acquistano un sapore paradigmatico della provincia periferica e marginale. Lo stesso soggetto mi riuscirà meglio prima di Bardi, in una frazione dal nome longobardo, dove però il paesaggio si sarà fatto più bucolico e turistico, mentre è soprattutto oggi che fotografo come un ossesso. Il signore ci indica infine il Penice, di cui senza binocolo ancora non riusciamo a discernere le antenne, che lo rendono riconoscibile a distanza.
Mentre il cielo è ormai quasi coperto di spessi cumuli blu, che lasciano filtrare raggi di luce resi visibili dalla densa umidità, costeggiamo quindi un vigneto, prima di rientrare sulla strada principale. Dovremmo ora seguirla in quota, ma preferiamo salire alla chiesa illuminata da un raggio di luce radente, perché ci sembra assurdo tagliare via un luogo dove non torneremo mai più. Sudando non poco nell'aria assai afosa, tra qualche imprecazione raggiungiamo il sagrato e ci fermiamo a rifiatare e ammirare il paesaggio, dal muretto che delimita lo spiazzo, dove ci sono resti di un matrimonio. Esploro il paesaggio con il tele, affascinato dai giochi di luce fosca delle nubi, in questo tramonto altrimenti sgradevole al tatto perché umido e soffocante.

Scendiamo per una scalinata intitolata a un prete, tra le curate casette grigie del paese, fino a ritrovare la strada principale. Dobbiamo ora scendere per strada verso l'agriturismo, quando ormai è ora di cena. Un loro pick-up ci supera, ma non fa nessun segno di offrirci un passaggio: ci spiegheranno che molti puristi del cammino si irritano a queste profferte. In compenso all'arrivo ci offrono subito della gradita acqua fresca.
La struttura, che prende il nome dal miracolo del bambino muto, è gestita da giovani; oltre a loro e i lavoratori agricoli messicani, ci vivono anche nove cani, svariati gatti e pare anche dei ghiri nel sottotetto, a giudicare dai rumori serali. Sarà il posto tappa con le camere più curate e anche l'unico con queste tirate a lucido. In genere invece, la ristorazione sarà pregevole, mentre la ricettività più trasandata, in quanto dormiremo sovente in stanze dall'arredamento datato e con bagni non funzionali, a indicare una minore loro importanza nell'economia di queste strutture.
Nella contrattazione della cena dobbiamo implorare un po' di verdura, perché, come ci sarà confermato tutte le sere, qui sono prevalentemente carnivori. La tagliata è anche parecchio al sangue. Sebbene dopo il miracolo il prete avesse distribuito vino ai presenti, loro pretendono invece di farcelo pagare.

Galleria fotografica

Cicognola
Cicognola
Colombarone
Colombarone
Colombarone
Colombarone
Rambotta
Rambotta
Cassinassa
Cassinassa

Tromba
Tromba
Casone
Casone
Presso Casa Costa
Presso Casa Costa
Canevino
Canevino

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Sergio Chiappino

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