Pratorotondo-Giovo Ligure
Rio Sansobbia
25 aprile
Diario di viaggio
Nella tappa di oggi faccio un'incursione sul lato marino, spinto da un'amica che mi ha decantato il sentiero lungo il rio Sansobbia. Anziché seguire l'Alta Via, che in parte avevo percorso ieri e non mi aveva entusiasmato, mi infilo infatti nella valle che scende a Stella Santa Giustina, per poi trovare una bretella verso il Giovo. Avevo anche pensato di scendere in paese e percorrere poi l'ex statale, ma non sarebbe stata una buona idea, a causa dell'intenso traffico di moto che la percorre in questo giorno festivo.
Mi sveglio alle due con l'impressione di soffocare. La cuoca è stata traumatizzata dal freddo di quest'inverno, per cui ha lasciato il riscaldamento acceso tutta la notte e ora la stanza è un forno. Chiudo la valvola del termosifone, apro cinque minuti la finestra e riesco a riprendere sonno. Mi sveglio quando è chiaro da poco. Decido di andare a fotografare l'aurora, tanto più che mi sto portando sulle spalle i due chili abbondanti di cavalletto. Posso uscire dalla porta di sicurezza, che però è chiusa dall'esterno, ma trovo il modo di incastrarla senza far scattare la serratura. Vado prima alla fioritura e poi ai punti panoramici, per riprendere le nuvole basse. Sopra di me altre nuvole basse corrono veloci e avvolgono a momenti le antenne del Beigua. La luce è fosca, ma dorata, il mare invisibile per l'umidità.
Dopo il giro, mi resta ancora una mezz'oretta per crogiolarmi sotto le lenzuola, dove recupero un po' di temperatura. Intanto le nubi marittime si gonfiano e, quando scendo per colazione, la nebbia avvolge Pratorotondo e i primi escursionisti.
Quando parto, si vede a venti metri, senza però fare davvero freddo. Resto tuttavia coperto, per poter digerire tutto il pane e burro che ho ingurgitato per colazione. I primi merenderos sono già giunti ad accaparrarsi le panche migliori. Ce n'è uno avvolto da una mantella mimetica. Mi avvio lungo l'Alta Via, che dal rifugio segue la strada diretta alla vetta del Beigua, per poi tagliarne i tornanti. Il primo ambiente della giornata, la faggeta avvolta dalla nebbia fitta, è quasi in cima ai miei gusti estetici in fatto di foreste; è superato solo dalla faggeta con nebbia e colori autunnali e seguito da qualsiasi bosco durante una nevicata. Attraverso poi una rada pineta, dove la nebbia soffiata dal mare condensa sugli aghi e li fa gocciolare. Vedo la prima delle antenne per la televisione sono quando ci sbatto il naso contro, da quanto è fitta le nebbia. Per fortuna le tacche del sentiero sono frequenti, dove attraverso il prato senza traccia attorno all'installazione militare, altrimenti lo perderei senza speranza.
La chiesa degli Anni Venti dedicata alla Madonna si trova al limite superiore della nebbia. È una delle condizioni di luce più fotogeniche che conosco, ma anche una delle più effimere, perché lo strato di nuvole si sposta ininterrottamente, come il fronte delle onde del mare. La nebbia tiene nascoste le imponenti antenne, che pure sono a pochi metri. Mi fermo e depongo lo zaino a terra per cogliere con calma il momento migliore. Quando mi passo la cinghia della fotocamera sopra la testa, mi accorgo di avere i capelli fradici di rugiada. Oltre alla chiesa, in cima c'è un memoriale dedicato ai dispersi nelle guerre. Proseguo passando davanti al bar-ristorante, dove si è fermato un gruppo di ciclisti, mentre uno di motociclisti sta giungendo. La Via Crucis, le cui edicole hanno delle dediche a persone defunte, mi guida fino alla grande croce coeva della cappella, che ha anche una scala interna per salire su un braccio, ma oggi la porta di accesso è chiusa. La nebbia intanto si è sollevata.
Seguendo distrattamente il tracciato più marcato, perdo un bivio, ma per fortuna me ne accorgo quasi subito. In questo primo tratto non c'è un vero sentiero, per cui devo seguire con accortezza i segnavia sui faggi, anche perché la nebbia si è nuovamente infittita. Aggirata in qualche modo una zona dove degli alberi tagliati ostruiscono il percorso, finalmente trovo una traccia più evidente. Supero due ruscelli e una sorgente fangosa, per inoltrarmi in una zona più aperta, perché mi sono avvicinato al crinale seguito ieri, che qui è a quote più basse.
Lascio il sentiero napoleonico, segnalato da un Ω gialla, che in breve va a riallacciarsi all'Alta Via. Anche stavolta al primo tentativo perdo il bivio. In entrambi i casi la segnalazione era ai miei piedi, mentre io, per chissà quale ragione, cerco i segnavia sempre sugli alberi lontani. La traccia del sentiero diventa molto incisa, a tratti erosa. In un punto i segnavia la lasciano temporaneamente presso un tornante per seguire una traccia meno marcata. Intanto il vento ha preso a soffiare forte e a generare un turbinio di nubi, che si aprono e si chiudono repentinamente, lasciando filtrare per poco un sole accecante, salvo poi offuscarlo nel grigiore dei giorni lattiginosi. Non amo la metafora consunta, che descrive questo andirivieni di nubi come il respiro della montagna, perché la personifica, mentre a mano a mano che si studia la natura, si scopre che è retta da forze impersonali. I tronchi dei faggi ondeggianti cigolano e le fronde frusciano armoniosamente. «Soffiando in mezzo ai boschi, qua più forte, là più adagio, il vento si divertiva a suonare; allora si udivano venir fuori dalla foresta lunghe canzoni, simili alquanto ad inni sacri[…] L’organista del Duomo era geloso e diceva ch’erano sciocchezze; ma una notte lo scoprirono anche lui ai piedi di un tronco. E lui non s’accorse neppure d’esser visto, tanto era incantato da quella musica» (D. Buzzati, Il segreto del bosco vecchio).
Sosto su un masso in una piazzola dei carbonai. La presenza dei carbonai mi fa ben sperare per il proseguimento dell'escursione, perché normalmente operavano in zone molto impervie, dove era impossibile coltivare o pascolare, che in genere sono di grande fascino per un escursionista. Noto che accanto allo spiazzo c'è un faggio monumentale. Ipotizzo che fosse stato lasciato per segnalarne la posizione nei frequenti giorni in cui la montagna era avvolta dalle nubi. Allora i pendii erano certamente più spogli, perché il bosco era tenuto a ceduo per il carbone, per cui questo faggio doveva essere visibile da lontano. Più avanti avrò una conferma della mia supposizione, quando una successiva piazzola avrà anch'essa il suo faggio secolare. Alzandomi mi accorgo che sul masso c'è un'incrostazione rosa. Non dovrebbe essere un lichene, perché l'unico di questo colore, la Bagliettoa marmorea, è sì presente in Liguria, ma cresce su substrato calcareo, mentre qui le rocce dovrebbero appartenere al gruppo delle pietre verdi, di derivazione vulcanica, o tuttalpiù ai calcescisti che ci sono tra Sassello e il Giovo. Potrebbe essere un fungo saprofita, che cresce su qualcos'altro (delle macchie bianche potrebbero indicare una struttura a più strati). Ringrazio Enrica Matteucci, la mia amica naturalista, per le preziose indicazioni.
Il sentiero continua a tratti molto eroso dall'acqua, tanto che a volte ho il dubbio di averlo perso e di aver seguito il letto di un ruscello. In questa zona alcuni grossi massi punteggiano il percorso. Attraverso una zona più aperta, da cui è osservabile la dorsale che scende verso Stella San Martino. Arrivo a lambire il Sansobbia. Al mio arrivo si scatena un fuggi fuggi di pesci neri. Seguo poi una sterrata dal fondo rovinato che si allontana nuovamente dal letto ed è diretta alla dorsale. Mi aspetta un nuovo bivio, ma stavolta non riesco a perderlo, perché c'è un cartello evidente. Scendo a superare un rio, dopo il quale compaiono i castagni cedui, anche qui ancora spogli. Una ripida discesa, tra i mugolii dei tronchi oscillanti per il vento, mi conduce al primo tratto lungo il torrente, che forma un'incantevole successione di pozze verdi, cascatelle e rapide. Verrebbe la voglia di fotografarle tutte. Mi viene tuttavia un'idea migliore: cercarmene una bella e fermarmi lì a contemplare quella, anziché balzellare irrequietamente da una all'altra. Mi fermo perciò ad ammirare alcune zone, ma quasi senza fotografarle. Il sentiero si allontana poi nuovamente dal fondo della valletta, che ha i fianchi molto ripidi. Trovo alcuni alberi caduti sul sentiero, che tuttavia non ostruiscono il passaggio; al limite basta aggirarli. Sul margine del sentiero vedo delle casupole di pietra a secco, diroccate. Ci sono poi dei tratti di sentiero molto scavato, a volte ostruito dai tronchi. In uno me la cavo camminando sulla sponda, in un altro sarebbe peggio e devo scavalcare con calma gli alberi. Tra l'altro si è sfilata la cerniera della custodia della fotocamera, che perciò resta aperta; devo perciò fare attenzione a non ribaltarla mentre scavalco, rendendo più macchinose le operazioni, come se non fossi già abbastanza goffo di mio.
Individuo finalmente una grande pozza profonda e placida e decido di pranzare qui, quando sono ormai le 14. Sarebbe un posto ideale per gli amanti della meditazione, come del resto di quelli dei bagni ghiacciati. Io non pratico nessuna delle due attività, ma mi cimento invece nella fotografia delle increspature della pozza mosse dal vento. (Ad essere sincero, proverò a pociare i piedi nell'acqua, ma dopo meno di un minuto li dovrò togliere, non per il freddo, ma per il dolore. Se mi tuffassi dentro credo che sarei vittima di un coccolone istantaneo. Magari potrebbe essere un buon posto dove fare l'ultima gita, prima di finire in ospizio). Si formano ondulazioni che creano immagini astratte del fondale, come anche fronti di luce che avanzano trascinati dalla corrente e si riflettono su un tronco scortecciato, su cui proiettano un film ipnotico. Il pieno d'organo della cascatella che cade nella pozza quasi nasconde ogni altra melodia, come i canti degli uccelli.
Fermandomi a lungo a contemplare l'acqua, ad un certo punto noto prima un pesce verde, poi alcuni altri aggirarsi nella pozza. Dovrebbero essere dei vaironi, i pesci più comuni del parco. Noto quindi un insetto che si appoggia sulla superficie, sorretto dalla tensione superficiale. I menischi proiettano sul fondo delle ombre circolari come se fossero dell'Enterprise. Imbraccio la fotocamera e, dopo qualche tentativo, riesco a mettere in saccoccia un ricordo elettronico. L'insetto per fortuna è collaborativo e non scappa quando mi avvicino.
Dopo un'ora e mezza siffatta riparto a malincuore. Mi aspettano altri tronchi in mezzo al sentiero, che per fortuna continuano a essere semplici da scavalcare o aggirare. Solo in un caso devo togliermi lo zaino di spalla e passare un pezzo alla volta. Adesso devo cercare una strada che mi porterà sull'Alta Via, da cui scendere a Giovo Ligure. Ne incrocio una prima, che proviene dl oltre il torrente, come prospettato dalla carta; non vedo tuttavia né segnavia né la casa che ci dovrebbe essere presso il bivio. Ne trovo una seconda più avanti, anche questa senza segnavia, ma nei pressi di una casa e ci provo. D'altronde questa casa non ha altri accessi stradali e quindi chi ci abita non può che venire da qui. Avevo anche considerato l'ipotesi di scendere ancora per un tratto lungo il Sansobbia, per ammirarne anche qualche scorcio, e poi risalire, ma la lunga pausa alla pozza è stata così appagante che un altro tratto non aggiungerebbe nulla.
Mentre mi guardo intorno per cercare indicazioni, noto intanto una macchia fulva, una volpe, che stava scendendo verso la casa. Non appena comincio a fissarla, fa subito dietrofront e si dilegua nel bosco. Chissà come mai era in giro in pieno giorno. Proseguo lungo la stradina in quota, mentre il sentiero per Santa Giustina scende lungo il rio. Dopo una casetta curata ritrovo la pista incrociata in precedenza e da qui compaiono i segnavia attesi. Anche stavolta ho mancato il bivio, ma senza conseguenze e non solo per colpa mia. In quota, nel bosco misto, raggiungo la dorsale, da cui l'Alta Via confluisce in questa strada. Mi fermo a fare merenda in una radura.
La strada scende e costeggia una conca terrazzata, il cui fondo un trattore sta arando. I terrazzamenti, che hanno i loro innegabili fascino estetico e valore culturale, sono purtroppo inadatti alla moderna meccanizzazione e ben difficilmente possono essere recuperati. Fanno eccezione i casi in cui sono coltivati prodotti di alto valore economico, ad esempio quando è possibile a vendere anche un'esperienza e non solo un nudo prodotto ai consumatori. Una produzione per il popolo, com'era nella civiltà agricola, non è più competitiva, ora che i trasporti e i metodi di conservazione sono migliorati e può essere più ecologico ed efficiente produrre dall'altra parte del mondo, in condizioni più favorevoli.
Intanto i rombi delle Harley preannunciano il ritorno alla civiltà. Dalla strada riesco finalmente a fotografare il campanile di Stella Santa Giustina, che adocchio infruttuosamente da un po'. Tornerò anche a riprenderlo dopo la doccia, subito prima che il sole scompaia dietro i monti. Stella, che è noto per essere il paese natale del presidente Pertini, è formato da cinque frazioni sparpagliate, senza un vero centro; secondo la tradizione popolare, sarebbe la loro disposizione a dare il nome al comune. Stasera mi attende una cena più ligure, con dell'ottimo pesto. Chiedo se lo facciano loro, ma mi rispondono che non è ancora stagione, per cui ricorrono al migliore che si possa acquistare, che costa un occhio, come osservano con spirito autoctono. Non chiedo la marca, tanto do per scontato che a Torino non si trovi. In albergo, oltre a me ci sono due escursioniste tedesche, anche loro in itineranza. Una delle due chiede del sale supplementare anche per il pane, burro e marmellata della colazione.
Galleria fotografica
❮ ❯
© 2008-2024
Sergio Chiappino
Questo opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.