Colle Marmo-Farindola
26 maggio
Diario di viaggio
Poco dopo il nostro arrivo, ieri pomeriggio, ha cominciato a piovere; una seire di temporali si è succeduta fino al mattino. Partiamo tra le ultime gocce che cadono da un cielo ancora plumbeo, chi con i coprizaini, chi con la mantella. Troviamo subito un mare di fango viscido, che ci impegna subito in esercizi di agilità e di equilibrio. Ci sentiamo tutti dieci centimetri più alti. La salita si fa sempre più erta, fino a che è possibile solo scivolare all'indietro, come faccio rovinosamente. I pantaloni sono marroni anche sulle chiappe. La guida si inerpica a fianco del sentiero aggrappandosi strenuamente al mio bastoncino e ai cespugli, per non caricare i piedi che riescono solo a scendere. Noialtri invece cerchiamo un varco tra la boscaglia, fradicia ma aderente, e lo raggiungiamo da sopra. Al culmine della salita finalmente vediamo il Corno Grande, che si è sgombrato dalle nubi. Una pausa per compensare la sua ritrosia di ieri e la discesa significa altro fango, ma meno ripido.
Un breve tratto di asfalto, dove fa la sua comparsa la Majella ancora in gran parte imbiancata, e ritorniamo su una pista. Quasi subito la troviamo invasa dai rovi. Ci tocca trovare un varco verso il prato sottostante, su cui la costeggiamo. Individuiamo finalmente una breccia nel muro di cespugli per riacciuffarla, ma ecco che siamo arrestati da una grande frana che si è mangiata non solo la pista, ma tutta la collina. Che fare (direbbe Silone)? Tra incertezze e conciliaboli decidiamo infine di provare ad aggirarla dall'alto. Con un bel po' di fortuna i rovi lasciano aperti dei passaggi in cui ci intrufoliamo sino a raggiungere il colmo dello smottamento. Per un campo di fave la oltrepassiamo e ci inoltriamo giù nel bosco, che per fortuna è penetrabile. Ritroviamo finalmente la pista proprio in un punto in cui qualcuno ha lasciato un segno con un nastro biancorosso, indice di un vecchio transito, forse di ciclisti.
Non è la prima frana che ci tocca affrontare, e non sarà neanche l'ultima e nemmeno la più voluminosa. Quest'inverno è stato eccezionalmente caldo e piovoso, come ci raccontano diversi interlocutori; queste sono le conseguenze.
Scendiamo al torrente, lo superiamo sul ponte e per la strada asfaltata saliamo a Bisenti, che si bea di essere la patria di Ponzio Pilato (non è il solo, a quanto pare), di cui esiste anche una casa natale aperta al pubblico. Sarei curioso di sapere quali documenti hanno a sostegno delle loro rivendicazioni: forse un certificato di nascita nell'archivio parrocchiale… o più verosimilmente qualche reperto del basso Medioevo, il periodo d'oro dell'industria delle reliquie. Un locale con cui scambiamo due chiacchiere ci invita anche a vistare questa casa, ma ci risparmiamo questa esperienza di trash d'altri tempi.
I vicoli del nucleo medievale sono invece carini e meritano un'esplorazione. Peccato solo che anche qui alla periferia ci siano dei palazzoni in stile Quarto Oggiaro. In paese c'è anche una rinomata pasticceria, che purtroppo oggi osserva la chiusura settimanale.
Saliamo per la strada a una casa isolata. Mentre la guida cerca l'anziano proprietario per avvisarlo che passiamo sul suo territorio, da una finestra si affaccia una signora sudamericana di mezza età (badante? moglie? badante divenuta moglie? mistero) che, vedendoci andare verso il bosco, si sbraccia energicamente urlando «Peligro! Peligro!». Col proseguimento del viaggio, impareremo che i consigli dei nativi sono del tutto inutili per chi va a piedi, perché qui non concepiscono questa opzione: ti danno sempre e solo il suggerimento per la strada più comoda in auto, che naturalmente per gli escursionisti è la peggiore. Questa signora d'importazione si è ben integrata.
Così saliamo per l'ennesima pista fangosa, che si inoltra tra prati, boschi e rovi, finché l'accompagnatore osserva il GPS e chiede: «Abbiamo superato un bivio?». Nessuno ha visto bivi. L'accompagnatore allora torna indietro e, seguendo ciecamente la sua guida infallibile, si incunea tra l'erba alta, guada un acquitrino e trova una minuscola traccia che risale la collina. Gli andiamo appresso e sbuchiamo in un aprico prato con annesso ripetitore Wind, dove qualcuno ha costruito una villetta da area residenziale in un posto nemmeno raggiunto dalla strada. È in totale abbandono.
Continuiamo a salire, scacciamo dei cinghiali da un gruppo di ciliegi e ci avventiamo verso i frutti più succulenti. Moderatamente appesantiti saliamo fino al colmo della collina, un prato punteggiato di querce secolari, un ambiente da vera Arcadia.
Una strada asfaltata ci porta alla chiesa di San Pietro, dove ci fermiamo per il pranzo. Dobbiamo scegliere tra il lato esposto ad un sole che neanche oggi scherza e quello all'ombra ma cosparso di rifiuti.
Da qui la vista spazia indietro fino ad Atri, minuscola sopra il colle più lontano. Riprendiamo a camminare e in breve siamo ad Arsita, dove alcuni prefabbricati abitati sono i primi segni del terremoto. Scendiamo nella parte bassa del paese e poi ancora più sotto. Imbocchiamo quindi una strada con il limite di 7 t e, dopo l'esperienza di ieri, ci chiediamo cosa mai diventerà. Invece va tutto bene, ma poco oltre ne dobbiamo percorrere una con una transenna e un divieto di accesso. Poco oltre una frana se l'è mangiata quasi tutta, ma per fortuna ne ha lasciato attaccato alla collina un lembo di asfalto sufficiente per un pedone.
Seguiamo questa stradina per un lungo tratto. Il cielo intanto si chiude e si scurisce, cade anche qualche goccia, ma presto tornano le schiarite. Costeggiamo campi di grano fioriti di papaveri. Imbocchiamo una pista erbosa che ci porta verso una costruzione rurale, presso cui pascolano delle pecore, il primo gregge che incrociamo. Nei primi giorni abbiamo visto diversi animali, ma si trattava di cascine con una mucca e qualche ovino, qui invece siamo tra le greggi. Il pastore maremmano che abbaia richiama all'esterno un personaggio dall'aria pastorale, che ci scruta silenzioso, forse un po' sorpreso e perplesso.
Tornati su una sterrata, facciamo un lungo traverso. Ad una casa con un orrido tetto verde acceso, alcuni cani aggressivi lasciati liberi ci girano attorno minacciosi. Anche qui la strada attraversa un grande frana di fango, che però è stata sistemata, perché questa sterrata conduce a zone agricole e abitazioni. Ai suoi margini sono fiorite le prime orchidee del viaggio.
Sbucati sulla strada, ci imbattiamo anche nel primo segnavia CAI: marca una pista che scende a Farindola evitando la strada. Purtroppo anche qui ci tocca infrascarci, al punto da doverci togliere gli zaini e procedere accucciati. In paese ci spiegano che la pista serve anche alcuni fondi agricoli, per cui a breve passerà un grosso trattore, che sradicherà senza pietà tutti gli alberi caduti sulla carrareccia e il passaggio sarà di nuovo libero.
Una dolce luce ci accompagna nell'ultima discesa. Qualche costruzione sciatta annuncia il resto del paese. Ci aspetta Daniele del CAI di Farindola, un amico del nostro accompagnatore. Si sono conosciuti quando il secondo cercava informazioni sulla zona e ha trovato il numero di telefono del primo, improvvidamente divulgato a sua insaputa sul sito del comune. Domani ci scorterà e ci farà da cicerone fino a Campo Imperatore.
A cena siamo nel posto dove fanno i migliori arrosticini d'Abruzzo (sono spiedini di carne di pecora). Non è la solita vanteria da ristoratori: hanno proprio vinto il primo premio ad un concorso, come ricordano degli articoli di giornale appesi in vetrina. Altri cartelli di gusto opinabile mostrano delle pecore riprese col grandangolare da vicino al muso, con scritte del tipo «Ti garantiamo noi che qui la carne è buona». Insieme a noi, nel locale cenano alcune famiglie e due tavolate di soli uomini. Ah, naturalmente la strada che sale al ristorante è mezza mangiata da una frana.
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Sergio Chiappino
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