Grazzi-Bobbio
Pan Perduto
3 giugno
Diario di viaggio
La colazione è autogestita. Per fortuna da qualche mese gli accidenti della vita mi hanno portato a imparare il funzionamento della macchinetta Nespresso, altrimenti saremmo restati senza caffè.
Quando usciamo il cielo è coperto da spesse velature e l'atmosfera molto bigia. Alle finestre ci sono delle signore anziane e un uomo con un cane corso gironzola tra i vicoli. Dobbiamo dirigerci al ristorante e per farlo seguiamo un sentiero indicatoci dall'albergatore, per poi confluire sulla strada percorsa ieri in pick-up, tra prati e alberi coperti di licheni. Seguendo invece le indicazioni per il cammino di San Colombano (un percorso distinto dalla via degli Abati) ne potremmo evitare un tratto più lungo. L'aria è fresca ma molto afosa. Il bar ristorante a quest'ora è ancora chiuso.
Entriamo nel bosco di pini e piccoli faggi, su fondo un po' fangoso, dove scorgiamo fugacemente un capriolo. Con una breve salita nel bosco umido siamo al colle di Pan Perduto, sul confine del territorio assegnato al monastero di Bobbio da Adaloaldo, successore di Agilulfo, nel 622. Pochi anni prima la madre era transitata dal vicino Penice, con lo scopo preciso di fare questa donazione. Sulla costa del Penice non lontano da qui, c'è una pietra confinale con un incavo, ritenuto da una tradizione documentata dall'Ottocento l'impronta della mano di san Colombano, che nell'adiacente grotta si sarebbe ritirato in eremitaggio. Margaret Stokes, colta e devota scrittrice irlandese venuta in pellegrinaggio nei luoghi di san Colombano nell'autunno del 1889, riferisce anche di passate credenze popolari nei poteri taumaturgici della grotta. Le impronte miracolose nella pietra sono un classico della religiosità popolare, che ha bisogno di ancorare la divinità alla materia e ai proprio territorio: ricordo come ieri quel simpatico vecchietto, che in borgo medievale della Ciociaria mi mostrò quelle del santo locale sulla mura del paese.
Saliamo al soprastante affioramento roccioso per un sentiero molto eroso, presumibilmente dalle moto, tra qualche fioritura. In cima la visuale sarebbe a perdita d'occhio, in particolare sulla bassa val Trebbia su cui ci stiamo affacciando, con la Pietra Parcellara e il mosaico di campi. Purtroppo l'atmosfera è davvero tanto fosca e la visibilità limitata, per cui tutto questo ci appare come velato da una cortina e quasi privo di colore. Oltre a ciò vediamo un paese nella direzione di arrivo, magari Romagnese, e il Penice, che ora è vicino. Il Casalis magnifica il panorama visibile da quest'ultima cima, con toni lirici un po' fuori luogo per un'enciclopedia: «si gode il piacere di viste, che dilettosamente sorprendono. I celebri campi di Novi, di Marengo, della Trebbia, tutte le colline del Monferrato dalla Superga a Valenza; la gran pianura lombarda coronoata dalle nevose alpi, che si vedono girare dal Mediterraneo al Tirolo, ed intersecata dal Po, che tratto tratto nascondesi allo sguardo, e vedesi ricomparire in uno sfumato orizzonte, che si confonde col cielo sin verso l'Adriatico; le città di Voghera, Novi, Alessandria, Piacenza di qua dal Po; Milano, Pavia, Cremona Bergamo di là da questo fiume; il Tidone, la Staffora, la Scrivia, la Nure, il Taro e persino il navglio da Pavia a Milano; tutto da quel sommo vertice all'occhio prenstasi distintamente, ove l'aere sia puro, e limpido l'orizzonte. Dalle parte di mezzodì veggonsi le giogaje dell'appennino, e principalmente il Lesima, l'Alfeo, il Dego, l'alto scosceso Penna, o Apenna, disposti in arco; veggonsi i più lontani balzi verso Rapallo, Chiavari, e Spezia; ed anche si discernono agevolmente le fertili valli di Nure, di Enza, di Taro». Può sembrare strano che un'enciclpedia del Regno di Sardegna includa Bobbio, oggi in Emilia, ma il suo circondario fu annesso al Ducato di Savoia dal Ducato di Milano con il trattato di Utrecht del 1713, insieme all'Ossola, al Monferrato e agli Escarton cisalpini. I Savoia erano molto legati all'abbazia, da cui, come detto, avevano in precedenza ottenuto dei codici per la loro biblioteca. Il dotto ci dice anche che ai suoi tempi tutte queste pendici erano coltivate, mentre oggi tra noi e Bobbio si prospettano anche boschi.
Tornati al bivio, su sterrate incredibilmente un po' fangose ci inoltriamo per la faggeta parecchio ombrosa, tra tracce di moto. Dopo il sole a picco dei due giorni precedenti, in questo momento il clima fresco e umido mi è molto gradito, anche se poco fa ha compromesso il panorama. Cerco invano di ottenere buone foto ai compagni tra i maggiociondoli fioriti: domani pomeriggio avrò miglior sorte. Incrociamo un signore, uno dei pochissimi escursionisti incontrati lungo tutto il percorso. Oltrepassiamo dei bivi per sentieri diretti alternativamente a valle o verso il Penice. Dopo una discesa, il sentiero si mantiene in quota e sbuca infine tra i prati presso una cascina, tra timide gocce di pioggia, che verranno e andranno fino a più convinti rovesci pomeridiani. Con prudenza oltrepassiamo la strada del Penice, proprio mentre sfrecciano due Porsche, per imboccare quindi una stradina. La carrozzabile esisteva ai tempi del Casalis, ma una via c'era già in età classica, per congiungere Bobbio con Libarna e Derthona, oggi Tortona; in cima è stata trovata una statuetta raffigurante un togato. La capogita a questo punto decide di indossare i sandali, presso delle formazioni rocciose nere. Il silente resta invece fedele agli scarponi, anche se i suoi mignoli infiammati gli stanno facendo vedere le stelle.
La stradina ci piace molto e decidiamo pertanto di restarvi fedeli, anche quando il percorso ufficiale opta per una via parallela per i prati. Attraversiamo un paesaggio molto agreste di prati e frazioni, con vista sul Lesima: è la montagna più alta di questo circondario ed è facilmente riconoscibile per la cupola bianca del radar in cima. Questa montagna è legata a un personaggio se vogliamo ancora più illustre di Colombano, ma di ben diversa indole, il condottiero cartaginese Annibale: la mulattiera poi divenuta l'attuale SP 88, tra Brallo di Pregola e Capanne di Cosola, che ne costeggia il crinale settentrionale, sulla carta sarda del 1853 è indicata come “strada di Annibale”. L'avv. Felice Bosazza, in arte Orofilo, un escursionista genovese, autore di imprese superomistiche tra questi monti sul finire dell'Ottocento, in un suo libercolo fa riferimento a un'etimologia varroniana, secondo cui il cartaginese avrebbe dato il nome latino di “lesa manus” (mano ferita) alla vetta, per un incidente capitatogli. Anche alcuni toponimi della contigua val Boreca deriverebbero dallo stanziamento di disertori africani del suo esercito. In età romana esisteva una strada lungo la valle, ma purtroppo Polibio non fornisce descrizioni della traversata appenninica, limitandosi a dire che l'esercito passò dall'accampamento invernale sul Trebbia all'Etruria, per cui non è possibile fare ipotesi sul percorso, a differenza che per l'attraversamento delle Alpi. Anche in altre zone dell'Appennino tosco-emiliano ci sono toponimi che evocano il passaggio dell'esercito cartaginese.
Ci fermiamo per il pranzo accanto alla fontana di Gorazze, dove circola un cane dall'aspetto di peluche, che purtroppo non dà confidenza ai viandanti foresti, che desidererebbero ardentemente sprofondare i polpastrelli nel suo pelo. All'artigliere tocca un pranzo un po' magro, perché contava di reperire qualcosa a Pietra Corva, mentre gli altri sono stati più previdenti. In epoca romana, qui esistevano delle sorgenti che venivano convogliate a Bobbio tramite un sistema di tubature, di cui sono stati trovati alcuni tronconi nel corso del Novecento.
Proseguiamo nel medesimo ambiente di cascine sparse, prati, frazioni, casette residenziali, fino a una panchina a un incrocio, dove abbiamo nel frattempo recuperato il percorso ufficiale e ci fermiamo un po'. L'intero versante del Penice si presenta fittamente colonizzato da cascine sparse. Come già osservato, numerosi sono i ritrovamenti di età romana su questo fianco. Di qui in breve raggiungiamo nuovamente la strada del Penice, da seguire per qualche centinaio di metri, in località Valle. Spiccano il rudere di un'osteria e un carro di carnevale o teatro ambulante che sia, parcheggiato sotto una tettoia.
L'albergatore di Grazzi non ci aveva prospettato alternative alla statale, ma evidentemente non deve camminare molto, come si deduce anche dal suo fisico corpulento, perché imbocchiamo invece un sentiero, che ci porterà fino alla periferia di Bobbio. Da una cappella in pietra,
ci inoltriamo per calanchi fioriti di ginestre profumate (non ho mai capito la differenza tra quelle che hanno un forte odore e quelle che ne sono prive). Il cielo, coperto dal mattino, inizia ora a scaricare qualche goccia più insistente. Da principio copriamo solo gli zaini, ma entro pochi minuti dobbiamo anche estrarre giacche o ombrelli, che all'arrivo si saranno già quasi asciugati. La capogita trova un luogo riparato dove indossare di nuovo le scarpe.
Per bosco, ma su terreno calanchivo brullo, raggiungiamo un tratto affacciato su un valletta calanchiva. Per scattare una foto, un paio di bacchette malamente appoggiate su una staccionata troppo alta cascano nella scarpata, qualche metro più in basso, ma recuperarle non presenta difficoltà. Ci manca poco per raggiungere le villette moderne, arrampicate dalla periferia di Bobbio sul primo pendio del Penice, lungo la strada che porta lo stesso nome dell'imbocco di Valle, reminiscenza lontana di quando si saliva a piedi. Troviamo invece subito dei motociclisti, di cui Colombano è stato fatto patrono, perché il viaggio perpetuo che caratterizzò la sua vita oggi non può essere concepito che a bordo di mezzi meccanici.
Decidiamo di concederci una pausa prima di un giro turistico per il paese e ci dirigiamo perciò direttamente all'albergo, i cui tavoli esterni alle 15 sono ancora pieni di gente; trippa e fagioli era la specialità odierna. La struttura deve campare assai di più con costoro che con i soggiorni, perché la camera è datata e poco funzionale, con bagno angusto. Fatto il bucato, viene indi appeso con un filo militare di tre metri gettato tra due finestre, nell'infondata speranza che asciughi, per l'aria sempre più umida, per via un breve rovescio.
I dolenti concedono del riposo alle doloranti cavalcature, mentre gli alcolisti spazzolano patatine e birra radical-chic, originaria delle Alpi intitolate ad Ercole e condita di speziato immaginario, per restare in sintonia con il mondo antico qui di casa. Colombano moltiplicò la birra a beneficio dei suoi monaci di Luxeuil intenti al lavoro nei campi: al nord aveva la stessa funzione alimentare del vino mediterraneo e non era certo un prodotto legato all'edonismo e al divertimento come oggi; la Regola vietava comunque di ubriacarsi. Non so se lo abbiano reso patrono dei motociclisti anche per la loro assidua frequentazione delle birrerie, tipo quella intitolata a un'abbazia altomedievale dalle mie parti. In un altro episodio, il monaco cantiniere venne chiamato da Colombano mentre spillava e nella solerzia (l'obbedienza è il primo capitolo delle Regola e deve essere osservata «cum fervore, cum laetitia») dimenticò di chiudere la botte, ma quando tornò la birra non era traboccata, perché aveva formato un cilindro miracoloso oltre il livello del recipiente e non andò pertanto sprecata, negligenza che sarebbe costata una punizione al monaco.
Passo poi a prendere dei contanti al bancomat: avevamo caricato la maggior parte del budget sul mio conto, pensando di poter pagare sempre con la carta, mentre abbiamo dovuto sborsare contanti molto più del previsto.
Dopo un giro in farmacia, in cui i dolenti rimediano della connettivina, paghiamo sotto forma di gelato il nostro obolo all'affollata piazza turistica di gnocchi fritti e analoghi prodotti etnici, non senza ispezionare l'alimentari tipico in vista del pranzo al sacco di domani. Certi prodotti paiono avere parentele liguri: mentre la sera la carne sarà sempre obbligatoria, negli alimentari è possibile reperire anche torte salate di verdure ed evitare il triste panino.
La chiesa dell'ex monastero ha un'atmosfera molto raccolta, grazie al buio romanico. Il dettaglio che più apprezzo è il mosaico del sotterraneo, con anche la rappresentazione dei mesi, un tipico tema del Basso Medioevo; purtroppo lo si può vedere solo di sguincio, perché è cintato. Anche il chiostro zen con porticato e senza giardino è di mio gradimento. Tra le reliquie di san Colombano, una che farebbe comodo sia a noi che al territorio da noi attraversato, è un bicchiere del santo, in grado di risanare chi beve da esso e di colmare d'acqua i pozzi asciutti in cui viene gettato. Sotto il porticato esterno, bordato da un roseto, potremmo rischiare di diventare delle involontarie star overage di TikTok, se distrattamente passassimo mentre due ragazzine filmano i propri balletti.
La cena, come quasi unici clienti dell'albergo tra molti venuti per il solo ristorante, è organizzata in maniera assai caotica, perché i camerieri sbagliano a prendere le ordinazioni, chiedono le stesse più volte, ma soprattutto sembrano non sapere esattamente che cosa sia compreso e che cosa no nella mezza pensione. Ad ogni modo alla fine saranno comprese pure le bevande. La proprietaria è poi così distratta che ci addebiterebbe solo due stanze e non le quattro mezze pensioni, se non la correggessimo noialtri. Come primo prendo pisarei e fasò, gnocchetti e fagioli, l'unico piatto di tutto il viaggio conforme alla Regola, che prevedeva un unico pasto al giorno, con pochi cereali e legumi.
Dopo cena ho ancora il tempo per una puntata al celeberrimo Ponte Gobbo, stupidamente senza portare con me la fotocamera: ci sarebbero la luce crepuscolare e le prime lucciole. D'altra parte, ho voluto restare leggero: non ho portato nemmeno il cavalletto mignon e mi sono limitato a un solo ricambio di intimo, contando che il caldo e la protratta luce serale di giugno asciugassero facilmente il bucato, cosicché lo zaino pesa appena 11 kg, compreso il litro e mezzo di acqua. Oltre il ponte c'è un ristorante affollatissimo.
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Sergio Chiappino
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