Campo Imperatore-Santo Stefano di Sessanio
Piano Locce
28 maggio
Diario di viaggio
Quando mi sveglio e leggo 4.45 sull'orologio, sento mille mani che vorrebbero trattenermi ancorato al letto. Tuttavia, se mi lascio scappare queste occasioni, che senso ha portare fotocamera e cavalletto fin qui? Avevo anche pensato di alzarmi alle 4 per fotografare la Via Lattea, ma la sera mi ero accorto che sarebbe spuntata da una zona senza punti notevoli, quindi la foto sarebbe stata banale. Una veloce occhiata alla finestra per controllare che sia sereno, rapidamente tutti gli strati addosso e via. Fuori fa meno freddo che ieri sera e il vento non ha ripreso a soffiare.
Quando esco il placido lago è immerso in una soave luce blu. Gli giro attorno frenetico, cercando di non perdere nessuno dei mille mutamenti che la luce ha in questa ora. Punto l'obiettivo, lo cambio, tiro fuori un filtro, poi un altro, ripongo il primo, scatto, smonto tutto, ripongo nella borsa il tutto, abbranco il cavalletto e corro verso una nuova foto. Solo alla fine riesco ad immaginare in anticipo una scena e mi rilasso placido ad aspettare che la luce pian piano diventi come mi serve.
Dopo colazione ci aspettano altro vento, che si è rialzato, altre distese verdi e fioriture multicolori. Saliamo fino a un valico, al di sopra del quale c'era Santa Maria del Monte, il monastero più alto dell'Appennino, di cui restano i ruderi. In questa zona qualunque ammennicolo è l'ammennicolo più alto dell'Appennino e talvolta anche d'Italia. Per un traverso sopra il lago di Passaneta giungiamo ad un nuovo colle, il Guado di Passaneta. Sotto di noi c'è una grande conca, il Piano Locce, nostra prossima meta, dove sono ben visibili le coltivazioni a rettangoli degli altipiani. Da ieri sera, infatti, la pasta fatta in casa servita come primo è stata sostituita dalle zuppe di leguminose, che ci accompagneranno fino alla fine del viaggio. Dal valico si dovrebbero dipartire due sentieri segnalati: in effetti vediamo due tracce divaricare, ma di tacche neanche l'ombra. Seguiamo quella che dovrebbe essere la nostra, ma ci accorgiamo che ci porta troppo in alto e svanisce nel nulla. Allora, carta alla mano e occhio vigile, ci guardiamo intorno e vediamo più in basso una traccia, la raggiungiamo e finalmente individuiamo qualche bollo rosso. Certo che se uno passa di qui con le nebbia è un uomo morto. Le segnalazioni si susseguono rade per un po' e poi svaniscono di nuovo, come pure la traccia, ma a questo punto è evidente come dobbiamo scendere al piano.
Un possente recinto in legno e metallo protegge dai cinghiali le coltivazioni di ceci, lenticchie, cicerchia, patate, grano solina e altri cereali di montagna. L'accompagnatore mitizza il grano solina, ma alla sera il cameriere del ristorante ce lo smonterà. Percorriamo il piano e imbocchiamo un pista erbosa che risale la valle dell'Orticara, tra vasti prati, radi pini mughi e bianchi mucchi da spietramento. Al culmine della salita, dove la pista confluisce in un'altra, ci fermiamo per una pausa. Ci raggiungono due tedeschi di mezza età con zaini enormi, che imboccano una psita e poi tornano indietro a chiedere indicazioni per il lago Racollo. Al nostro arrivo al rifugio c'erano lì vicino due auto con targa tedesca, che i due gestori avevano trovato già al loro arrivo la sera prima. Vedendole come abbandonate, avevano anche pensato di avvisare il 113. Ora scopriamo che i proprietari sono questi due signori di Wittenberg, che hanno fatto un giro in tenda di qualche giorno. Questi due escursionisti sono quasi gli unici colleghi che incrociamo in giro per i monti, a parte altri due tedeschi con asini alle Pagliare di Tione. Per il resto sembra che qui nessuno cammini.
Seguiamo la nuova pista per un po'. Vediamo un tholos con volta e botte in rovina; molto comuni sulla Majella, qui sono rari. Più avanti la lasciamo per un antico tracciato delimitato da file di pietre conficcate nel terreno. Arrivati a un colletto, ci troviamo di fronte una magnifica vista che spazia da Rocca Calascio (dove purtroppo non passeremo) a Castelvecchio Calvisio e si perde nelle file di monti lontane. Scendiamo ad ammirare la classica veduta di Santo Stefano, sulla collina sopra l'altipiano coltivato. Purtroppo la torre è caduta a causa del terremoto (e anche a causa i errati lavori di consolidamento, si dice). Non si può non notare la lacerazione portata dalla costruzione del nuovo acquedotto, la cui ferita marca come un cicatrice le colline circostanti e si spinge fin qui nella forma di un'inopportuna pista sterrata.
Oggi la tappa è breve, cosicché abbiamo il tempo di girare il paese, sorseggiare una tisana nell'albergo diffuso inventato da un abruzzese con ascendenze svedesi (o danesi, le fonti divergono), girare nei negozi di prodotti tipici, guardare le auto storiche di un gruppo di olandesi che stanotte si fermeranno qui. Intanto il nostro accompagnatore va a fare un giro per cercare un modo di uscire da Santo Stefano evitando la strada.
La sera proviamo il Centerbe, un liquore tipico che fa 70°: bagnarmi le labbra mi è sufficiente per scatenare un accesso di tosse.
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Sergio Chiappino
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