Groppallo-Bardi
Passo di Linguadà
6 giugno
Diario di viaggio
Questa tappa transita per una miriade di minuscole frazioni, in parte popolate e in parte disabitate, dove ad ogni modo nel giorno feriale non abbiamo incontrato anima viva. All'inizio descriviamo un semicerchio, restando in quota, per poi entrare nella valle del Ceno e scendere verso Bardi.
Dai pressi del passo Liguadà è possibile seguire una variante più per boschi, lungo una dorsale. Pur non avendola percorsa, non mi sento di consigliarla, perché il bello di queste terre sono i paesaggi misti di natura, coltivazioni e abitati, oltre agli incontri con i loro residenti, mentre, come constateremo scendendo verso Borgo Val di Taro, i tracciati nei boschi sono più monotoni.
Dopo un'abbondante colazione a base di pane, burro e marmellata, qualcuno acquista ancora dei salumi dell'albergo al supermercato. Questa piccola frazione è assai vivace, perché vi sono diverse strutture ricettive e di ristorazione, oltre a questo supermercato, nonostante l'agglomerato consista in poche brevi file di case lungo una strada molto secondaria.
Dal paese seguiamo una dorsale boscosa alternata a prati, su fondo di fango rinsecchito. Successivamente compaiono i campi coltivati a cereali, macchiati di rosso dai papaveri. Le frazioni paiono in parte ancora vissute, ma ci sono anche grandi case dismesse: a meno che non si riesca a inventare qualche prodotto agricolo, generosamente condito di mitologia del naturale, da propinare a caro prezzo ai radical-chic, è duro immaginare un futuro per l'agricoltura marginale di questa zona. L'osservazione sui vecchi fatta alla fontana di Cornaro è valida anche qui: generalmente ci è capitato di vedere solo vecchi girare sui trattori, gente in pensione che probabilmente lo fa solo per passione, tradizione o per tenersi vivo.
Raggiungiamo la torre di Sant'Antonino, che ha l'aspetto di un campanile, forse della tipica chiesa altomedievale, circondata da case di legno, successivamente rimasta isolata quando i processi insediativi del Basso Medioevo trasferirono le popolazione altrove, verso altri centri di potere. La torre si presenta completamente vuota all'interno. Ci fermiamo e ci scattiamo qualche foto con essa.
Poco più avanti mangiamo della frutta in un borgo deserto, in cui dei pavoni sono l'unica presenza animata. Doveva avere un certo tono in passato, perché alcuni portali presentano dei fregi.
Proseguiamo in saliscendi alternando gruppi di case, prati, boschi, asfalto, sentieri, in un'atmosfera assai bucolica e rilassante. Non ci rendiamo conto di sfiorare un bar, da cui nel precedente viaggio avevamo sentito arrivare una melanconica nenia. Entrati, avevamo trovato una ragazza esercitarsi alla fisarmonica, mentre altri avventori stavano seduti e muti, come in uno sperduto avamposto nella steppa, dove la gente è consumata dalla solitudine e dalla noia.
Completato il semicerchio, ammirando dapprima Groppallo e il Castellaro dal lato sud-est, quindi un picco roccioso oltre il passo, il monte Roccone, percorriamo un lungo tratto in cui ci sparpagliamo, seguendo ciascuno i propri interessi, fino ad arrivare alla poco pronunciata sella del passo Linguadà, dove transita la strada e c'è un ristoro, che al nostro arrivo è sprangato.
Cerchiamo un posto dove sistemarci per il pranzo, tra le casette di vacanza nei pressi del passo, e finiamo attorno a un tavolo sotto una tettoia, a fianco di una casa ora vuota, come paiono esserlo tutte le altre. Mentre pranziamo passa l'ostessa del passo in auto e subito dopo torna indietro. Pochi istanti più tardi, arriva a piedi e ci fa un cazziatone epocale con tono acido: è stata incaricata dai residenti di verificare il rispetto delle proprietà e fa il suo dovere spietatamente. Non ci scomponiamo più di tanto, visto che non stiamo danneggiando nulla e concludiamo il pasto.
Dopo andiamo a prendere un caffè dalla signora, che di voglia di parlare ne ha davvero tanta. Ci racconta la sua storia di figlia di emigrati a Parigi dalla Val Soana, una valle del Canavese oggi quasi spopolata, dove d'estate le targhe francesi sono comuni. Ha sposato una persona di queste parti emigrata e ha deciso di rientrare nella terra dei suoceri quando la figlia si è sentita discriminata per ragioni sociali. Ora gestisce tra mille difficoltà questo locale in una zona marginale, dove anche ottenere delle forniture è una battaglia con l'unica ditta disponibile a venire sin qui: per la maggior parte delle materie prime deve arrangiarsi da sola.
Ha anche un bel caratterino: è incattivita contro tutti. In primis l'amministrazione di Bardi, rea di curare solo il centro cittadino, dove è stato creato un albergo di lusso dove ha soggiornato la Hunziker, trascurando invece le attività sui monti. Quindi anche l'associazione che cura la Via degli Abati, alla cui richiesta di obolo ha risposto con un diniego, perché non cura i sentieri della zona, con il risultato che ora il suo locale non è più citato nell'ultima versione della guida. Non parliamo poi degli escursionisti che si mettono a dormire o mangiare il proprio panino nel suo dehors e non consumano nulla. Riguardo alla sua patria, ce l'ha con i negri immigrati e i dipartimenti d'oltremare, con i meridionali in Italia (non ricordo più i motivi di questi ultimi tre rancori).
Ci racconta poi dell'alto tasso di tumori intestinali della zona, dovuti all'elevato consumo di salumi. Ci mette infine in guardia dalle zecche, che finora nessuno ha raccattato.
Sotto un cielo ora coperto, scendiamo verso Bardi per uno stradello, quindi ci tocca una breve risalita per un viale alberato a una frazione con una grande fonte: Boccolo de' Tassi, dove una volta operava un ospizio per viaggiatori intitolato a san Pietro e gestito dal monastero bobbiese, documentato negli inventari del IX secolo. Questo indica chiaramente che la via verso la Toscana longobarda, essendo inagibile la costa ligure, bizantina fino alla conquista di Rotari, doveva passare di qui: d'altronde Bardi allora era una fortezza longobarda. Questa via ricalcava una precedente via romana tra Luni e Veleia. Il legame con il cenobio era così forte che ancora nel secolo XII era suo compito provvedere alla presenza del prete, di tutti i paramenti sacri e persino dell'olio santo. Va detto tuttavia che la pista non transitava dal passo Linguadà, ma dal Pellizzone.
Passiamo nei pressi di altre case sparse, di cui una intonacata e abbellita da fregi. L'altra volta qui avevamo sperimentato il misticismo del fango appenninico, scoprendo pure che era meglio camminare nelle pozze lungo i solchi dei trattori, dove il terreno era più compatto. Intanto, tra chi si ferma a bere alla fonte, chi prosegue oltre ma si ferma dopo a fare pipì, ci disperdiamo e non sappiamo più se gli altri siano avanti o dietro. Per di più non prendono i cellulari, non solo quelli Wind, ma neanche i TIM, per cui a poco vale la strategia di uno dei primi di usare il fisso di una casa. Ad ogni modo, fermandoci e esplorando i dintorni, ci ricompattiamo rocambolescamente a Cerreto, un tipico nome bassomedievale di quando i cerri si diffusero a discapito delle farnie e dei roveri, perché si rigeneravano come ceduo, a differenza dei secondi.
Dopo aver chiacchierato con un signore con tendenza alla confabulazione, seguiamo una strada asfaltata dallo scarso traffico, mentre comincia a cadere qualche goccia. Mi accorgo intanto dal prurito che il maleficio della masca valsoanina ha funzionato e ho una zecca sul braccio. Il termine masca, adoperato ancora oggi in Piemonte per indicare pressappoco le streghe, è doppiamente appropriato, perché compare la prima volta nell'Editto di Rotari. Mentre raggiungiamo una sterrata diretta a Grezzo, le gocce si tramutano in acquazzone e ci costringono a indossare le coperture.
La pioggia non dura però che pochi minuti e già alle case successive splende il sole. La capogita riconosce un vecchio con cui chiacchierammo l'altra volta; già allora aveva 93 anni e quindi ormai va per i 100, e al tempo girava sul trattore solo per tenere vivi entrambi. I miei compagni si fermano, mentre io proseguo per avere più soggetti con la luce di dopo la pioggia e il terreno e le foglie ancora bagnate. Raggiunta la provinciale del passo Linguadà, la lascio nuovamente per attraversare una frazione dal nome longobardo, Villa dei Gazzi: il gazzo, termine del nord Italia, gaggio nell'editto di Rotari, gualdo nell'Appennino (foresta era invece il termine franco equivalente), era il bosco demaniale di pertinenza regia.
A causa dell'aumento della superficie boschiva connessa con la crisi dell'Antichità e la crisi demografica del VI secolo, i longobardi dipendevano assai più dalla caccia e dalla raccolta dei prodotti del bosco che dall'agricoltura. Quest'economia poteva sostenere una minor quantità di popolazione, ma era un vantaggio per la popolazione rurale, che era più libera e meglio nutrita: gli ultimi cacciatori-raccoglitori del Neolitico erano più in salute dei primi agricoltori, ma questi prevalsero perché erano più numerosi, ingabbiando così la maggior parte dell'umanità nella schiavitù di un lavoro molto più pesante e meno remunerativo, da cui sarebbe uscita solo dopo le conquiste sociali successive alla Rivoluzione Industriale. La società dei cacciatori-raccoglitori, inoltre, come già osservato a proposito dei villaggi di legno costruiti sui resti delle ville romane, era una società più egualitaria di quella agricola.
Il bosco era così importante per la casse regie che lo sfruttamento era regolato da funzionari preposti, come i già citati porcari, ma pure i silvani o i gualdamanni, con anche gerarchie al loro interno, per la presenza di arciporcari e arcigualdamanni. Tramite la concessione di boschi demaniali a aristocratici o monasteri, il re gestiva i rapporti politici e sociali.
Non di rado le concessioni producevano conflittualità con le comunità rurali che fino ad allora vi avevano attinto risorse liberamente. I beni demaniali erano rimpinguati tramite il sistema penale. La legislazione longobarda non prevedeva pene afflittive, salvo un uso molto parco della pena di morte, ma un sistema di compensazioni volte a impedire la vendetta privata e il turbamento della pace sociale. Le multe dovute al re erano spesso pagate in natura tramite terreni, con i quali il demanio regio si arricchiva. Nel corso della fase di crescita di cui fu protagonista il monastero di Bobbio, i boschi, oltre a contrarsi, mutarono anche volto, perché si espansero le selve coltivate a ceduo per la produzione del legname, dove mutarono anche le essenze dominanti, perché le specie in grado di rigenerarsi dai polloni, come gli appena citati cerri, si estesero a scapito delle altre.
Poco più avanti vedo una chiesa con ampio sagrato poco a valle della strada e decido di aspettare lì gli amici. Mando loro un messaggio, che però non arriva, perché hanno i dati disattivati; mi vedranno tuttavia scendendo. Approfitto della sosta per levarmi la zecca con la pinzetta preposta e poi facciamo una merenda tutti assieme.
Di qui seguiamo la strada, che ogni tanto si può evitare con piste sottostanti che non cambiano il senso del percorso. Dopo uno spiazzo con statua della Madonna di Lourdes, arriviamo così alla chiesetta romanica di San Siro, molto graziosa, se non fosse a bordo strada e non avesse vicino i ripetitori dei cellulari. In Italia la protezione del paesaggio rurale tradizionale non è proprio una priorità, anche dove esigenze produttive o di modernizzazione non sono così pressanti.
Imboccata una stradina secondaria ormai con vista sul massiccio castello di Bardi, costruito su una rocca a sovrastare il paese, passiamo accanto a un cenacolo di anziani, alcuni dei quali inglesi, per raggiungere infine il centro abitato. Il castello in cima a una rocca o a un colle è il simbolo per eccellenza del Basso Medioevo. Il suo ruolo non era solo militare, ma anche civile, perché la popolazione viveva accentrata in luoghi che le offrissero protezione. A volte la costruzione dei castelli era promossa proprio per attrarre contadini in un’area prima disabitata, che si desiderava colonizzare.
Con grande sconcerto, scopriamo che oggi è giorno di chiusura dell'hotel prenotato. Telefoniamo e appare così la proprietaria, che ci dice di averlo comunque tenuto in funzione per noi. La dispensiamo però dall'improvvisare una cena, preferendo invece un ristorante. Dopo la doccia e il bucato, che non asciugherà per nulla, vista l'ora tarda e l'aria umida per l'acquazzone, ci accomodiamo perciò in un cortiletto con una vite per tetto, dove tentano una cucina molto ricercata: io provo una pasta ripiena di castagne, che come tutte le altre portate sicuramente reintegra i sali (mi sveglio di notte con una sete pazzesca).
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Sergio Chiappino
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