Bardi-Noveglia
Monastero
7 giugno
Diario di viaggio
Tappa non molto lunga, che abbiamo dovuto accorciare per la furia degli elementi: ci hanno sorpreso infatti prima un temporale e quindi una bomba d'acqua, durata un paio d'ore.
La guida prevede di raggiungere Borgo val di Taro in sol boccone, ma la tappa risulta troppo lunga, a meno di non procedere con una marcia forzata, per cui è meglio suddividerla. L'altra volta avevamo finito per prendere una scorciatoia, più sbrigativa e meno gradevole del percorso principale.
Annoto che facciamo una discreta colazione, ma soprattutto che la signora ha modi molto più cordiali di quelli bruschi di ieri sera. Compriamo il pranzo in parte in un alimentari poco fornito, indi in una panetteria con ottime torte salate, dove incontriamo anche l'albergatrice. Facciamo poi un giro in farmacia per la gamba del silente, che si è gonfiata da un paio di giorni per il caldo sommato a problemi cronici.
Tra rustici diroccati, imbocchiamo il sentiero che gira attorno alla rocca del castello, molto pittoresca con i suoi picchi e la costruzione in cima, come nei sogni di Ludovico II di Baviera. È formata da rosso diaspro, una roccia sedimentaria dovuta all'accumulo di gusci silicei di microorganismi, abbondantemente coperta di licheni. Una fortificazione è attestata dall'898, opera del vescovo piacentino Everardo, uno dei poteri locali che contendeva a Bobbio il controllo sulle valli. Scendiamo quindi al Ceno, il cui ampio letto sassoso e quasi asciutto attraversiamo su un ponte stradale, per poi replicare con il Noveglia. Su questo secondo ponte, largo poco più di un'auto media, incrociamo una Panda bianca delle prime serie, guidate da un vecchio che accosta incollato al parapetto e si ferma per lasciarci passare.
Imbocchiamo una mulattiera che sale diretta per il pendio, ombreggiata da due filari di alberi, che rendono più sopportabile il caldo oggi molto afoso e con aria stagnante. Oltrepassate varie borgate carine, con vista su Bardi, raggiungiamo il colmo della salita presso Chiappa. Qui procediamo in quota, su una pista ora più assolata, perché chi viaggia in auto non ha bisogno dell'ombra, bastando un finestrino aperto o il condizionatore; anzi i filari di alberi lungo le strade sono talvolta bollati come assassini per quelli che ci finiscono contro. Dopo una casa in ristrutturazione circondata da un noccioleto di recente impianto, rientriamo nel bosco. Il sentiero transita tra vecchie case abbandonate e avvolte dalla vegetazione, che dovevano avere un loro tono e una loro ambizione, come testimoniato da architravi e stipiti di pietra, ma questo desiderio di prestigio sociale è stato inghiottito dall’edera, insieme a tutta la civiltà sottesa. Per la monotonia del paesaggio boschivo, si accende un'animata discussione su temi sociali; la Regola prevedeva 50 bastonate per chi alzava la voce.
Raggiungiamo Monastero, un paese in larga parte diroccato, con una grande chiesa barocca, presso cui ci concediamo una pausa. In paese circolano molti gatti e altri sono chiusi in un appartamento. Vediamo arrivare un temporale e ci suddividiamo tra due tettoie, approfittando della pausa forzata per pranzare tutti seduti. Un tuono romba cinque secondi dopo il fulmine, quindi altri due dopo tre e infine non se ne odono più: il fronte ci ha girato intorno.
Quando smette ripartiamo lungo una stradina, anche se il cielo resta cupo. Mentre andiamo si fa sempre più buio e quindi si scatena un temporale intenso. Dopo esserci inzuppati nell'erba alta, troviamo un tetto a Palazzo, in un deposito di cianfrusaglie del genere “non si butta via niente”, dove spiccano in particolare degli ombrelli sbrindellati. Sfortunatamente mi dimenticherò di fotografarlo. Il riparo non è molto confortevole, perché attraversato da una fredda corrente d'aria e senza posti dove sedersi o appoggiare gli zaini, dati gli spazi risicati e il fango sul fondo.
Dal cielo scende una vera bomba d'acqua, che si potrae un paio d'ore, salvo brevi pause, durante le quali non smette davvero, tanto che non riusciamo nemmeno a mettere il naso fuori: ci tocca stare in piedi come asparagi e la temperatura cala drasticamente. Durante una tregua un po' più lunga passa nei pressi un signore, al quale chiediamo se c'è qualche bar nei dintorni, ricevendo purtroppo risposta negativa. Non prende il cellulare, per cui non possiamo nemmeno rassicurare il posto tappa di essere al sicuro.
Quando finalmente schiarisce, decidiamo di tornare sui nostri passi e raggiungere Osacca per strada, in quanto il guado nella successiva valletta sarà senz'altro impraticabile. Stasera ci mostreranno delle foto di un gruppo che lo attraversò tirando una corda e entrando nell'acqua fino al ginocchio, durante una piena analoga a quella odierna. Anche qui da un calanco arriva una cascata. A Monastero troviamo nuovamente linea per il cellulare e vediamo che ci mancano ancora parecchi chilometri alla meta per questa via e siamo perciò titubanti sul da fare.
Nel prossimo paragrafo riporto cosa avevo scritto l'altra volta sul sentiero tra Monastero e Osacca. Tra parentesi quadre ci sono le annotazioni odierne.
Oltre Monastero il sentiero attraversa un calanco. La guida ci aveva messo un po’ di ansia, parlando di terreno argilloso: con tutta la pioggia di questo periodo, sarebbe stato un mare di fango colloso. Per fortuna la granulometria del terreno è decisamente più grossolana, credo da marna, e la sua capacità di legarsi all’acqua fondamentalmente innocua, come direbbe Douglas Adams. Procediamo poi tra muri e attraversiamo subito dopo un prato di erba alta, naturalmente fradicia. Arriva quindi un gruppo di case antiche, il cui proprietario non gradisce il passaggio di escursionisti, che considera degli invasori. Manifesta il suo disappunto con garbati cartelli di protesta. Questo luogo è davvero molto isolato e non mi sorprende che ci abiti gente che cerca la segregazione totale dal mondo. Alcune di queste considerano il loro ritiro una loro proprietà esclusiva, comprese le zone di pubblico passaggio. [A distanza di sei anni, mi chiedo se il signore si è rassegnato o se è emigrato.]
Dopo un tratto di asfalto entriamo in Brè, dove ci accoglie una quaglia placida. In questa frazione ci sono un palazzo e una casatorre, retaggio di tempi in cui il paese era assai più popoloso, perché lungo la via di comunicazione tra due valli. Oggi i percorsi per le auto hanno preso altre vie e questa zona è stata consegnata all’abbandono; inoltre è cambiato il modo di occupare il territorio, perché si è passati dall’abitato diffuso alla concentrazione nei centri principali di fondovalle. La mulattiera lastricata diviene sentiero stretto, che perde rapidamente quota, con secchi tornanti che portano a guadare un ruscello, nei pressi di un mulino ristrutturato e videosorvegliato. Risaliamo poi altrettanto rapidamente per una mulattiera lastricata, che è stata preservata dalla costruzione della strada di accesso. Il fondo di pietre calcaree è scivolosissimo, tanto che viene da chiedersi se nel Medioevo avessero già inventato la pioggia e la rugiada del mattino. Va detto che questa scivolosità era anche voluta, perché consentiva il trasporto su slitte, che dalle mie parti erano dette lese [anche qui, come scoprirò stasera a Osacca, chiacchierando con gli albergatori].
Arriviamo a Pieve di Gravago, sede di un antico monastero benedettino, al suono della campane che annunciano il mezzodì. Un ottimo momento per fermarsi a fare uno spuntino, sul muretto a fianco della chiesa. All’ombra delle querce è fresco, mentre la temperatura è più mite al pallido sole. L’umidità è molto elevata. Durante la sosta passano dei motociclisti che imboccano il sentiero, lasciando una traccia erosa.
Dopo un percorso in quota che alterna asfalto e piste erbose, svoltiamo decisamente a sinistra e imbocchiamo una pista in salita. All’imbocco c’è un’enorme pozzanghera marrone, che richiede un minimo di studio del percorso ideale per superarla indenni. Nel primo tratto di bosco c’è qualche relitto di castagno da frutto, ma aceri di monte e faggi stanno riportando questa zona al suo aspetto naturale. In passato l’uomo, affamato di territori per la sussistenza di una popolazione in continua espansione, appena rallentata dalle epidemie e dalle guerre, colonizzò ogni spazio possibile, anche quelli dal clima meno adatto. Da tempo ormai invece la produzione agricola si è concentrata in meno aree a più alta produttività e queste zone sono tornate al loro climax, peraltro sempre mutevole per via dei cambiamenti climatici. La pista sale ripida: sudiamo e non commentiamo quello che ci circonda, ma risparmiamo fiato. Verso lo scollinamento, il tracciato concede un po’ di riposo. Il tratto pianeggiante ha meno fango di zone omologhe attraversate ieri. Prendiamo quindi a scendere, condividendo di malavoglia lo stretto sentiero con alcuni motociclisti rombanti.
A Noveglia, dove è tornato a splendere un sole caldo, ci fermiamo in un baretto dove hanno un tè inglese eccezionale, portato dalla terra d'origine appositamente da un cliente abituale. Varie foto sui muri testimoniano una socialità insospettata, per una frazione così marginale. Telefoniamo frattanto alla meta e loro si offrono di venirci a prendere, perché altrimenti arriveremmo a malapena per ora di cena. Inoltre, come scopriremo durante il passaggio, avremmo dovuto affrontare il maremmano libero di una casa indipendente, che ha già causato varie segnalazioni per la sua aggressività alle autorità preposte.
Nella minuscola frazione dove alloggeremo vive una comunità di cacciatori, con cui chiacchierammo nel viaggio precedente, e che ci raccontò delle mirabolanti leggende metropolitane sui lupi. Manifestò il proprio risentimento verso chi protegge gli animali, personificato nella Brambilla, la politica berlusconiana animalista. Anche se con noi furono gentili e ci offrirono il caffè, non amano chi lascia l'auto qui per andare a camminare, percependoli come invasori dei loro spazi, che delimitano con catene e cartelli.
La coppia titolare del B&B è invece di pianura, pur avendo ascendenze in zona, e non lega con costoro, con cui ha anzi degli screzi. La struttura prende il nome da una canzone di Vasco, loro coetaneo di cui su una parete campeggia una foto in prima pagina, in occasione del grandioso concerto per i 40 anni di attività. «Siamo veri come Vasco. Mi vengono i brividi quando lo sento cantare», ci dirà lei. I due sono appassionati della Via, anche se ora non sono camminatori. Lui in gioventù girò per i monti con la moto da trial e rivendica il ruolo dei motociclisti nell'aver conservato sentieri storici; lei purtroppo è molto debilitata da cure salvavita a cui si è sottoposta alcuni anni orsono.
Durante la doccia trovo una zecca su una chiappa. L'incomoda posizione mi costringe a torcermi come il collo di un tacchino al Ringraziamento, per avere la visione binoculare necessaria ad afferrarla. Sono l'unico ad averne prese, mentre l'altra volta erano toccate alla capogita.
In assenza di ristoranti in zona, ceniamo con loro a base di gnocco fritto e vino frizzante, di cui abuso più del giusto. Ci parlano diffusamente di loro e ci raccontano anche molte cose private. Hanno anche loro problemi con l'amministrazione di Bardi, accusata anche stavolta di marginalizzare le frazioni di montagna. Nutrono un grande affetto per i loro animali, di cui ci narrano le prodezze, come i genitori e i nonni fanno della loro prole. Una loro gattina è molto socievole con gli estranei e si fa grattare la pancia. Sono anche innamorati di quest'angolo di Appennino e di questa struttura, che purtroppo potrebbe non avere eredi in grado di continuarne l'attività, in quanto il loro unico figlio ha presso tutt'altre strade.
Mentre può avere un senso passare ai figli dei beni necessari come la casa, trovo assurdo che la stessa sorte tocchi alle attività imprenditoriali, perché i figli non sono prolungamenti dei genitori, ma hanno aspirazioni diverse. Purtroppo non c'è modo di trasmetterla a persone meritevoli e interessate a portarle avanti, a meno che non abbiano una dote di famiglia con cui acquistarle. E dire che è stato assegnato un Nobel a un economista, che ha dimostrato con l'esperienza diretta che i poveri sono molto bravi a far fiorire attività del genere, se si offrono loro i mezzi.
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Sergio Chiappino
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