Albe Vecchia-Tagliacozzo
1 giugno
Diario di viaggio
Una tappa di trasferimento, quasi priva di punti d'interesse. Si passa in un ambiente abbastanza antropizzato, in cui i punti di abbruttimento e degrado non mancano. La parte bella è tutta all'inizio, nella visita di Albe Vecchia e Alba Fucens. E merita anche il ristorante d'altri tempi dove abbiamo pranzato.
Albe è un paese con tre vite.
La prima è la colonia romana, peraltro costruita su un paese più antico, come testimoniano le mura megalitiche. Solo una piccola porzione della zona da esse racchiusa è stata scavata. Sono ben riconoscibili i decumani, ancora mirabilmente lastricati. Ma il punto più interessante è senz'altro il ben conservato anfiteatro, dove ci infrattiamo anche in un cunicolo, un po' invaso dai rifiuti.
Quando l'impero cadde, il paese fu ricostruito più in alto, arroccato, come tutti i borghi medievali che abbiamo visto. Di esso oggi restano solo le rovine, perché fu distrutto dal terremoto della Marsica del 1915, quello citato nei romanzi di Silone. Fu davvero catastrofico: morirono 30.000 persone. I testimoni dell'evento raccontano di aver visto i paesi trasformarsi in polvere all'avanzare dell'onda sismica. Avezzano fu rasa al suolo e non si salvò pressoché nessuno. Rimase per qualche anno abbandonata, poi in periodo fascista fu ripopolata con coloni provenienti da tutta Italia: ad esempio il nonno dell'albergatrice proveniva da Novara.
Dopo il terremoto furono costruite delle casette tutte uguali ai piedi della rocca, dove vivono ora i pochi abitanti.
Al mattino mi sveglio presto, ma la pigrizia stavolta mi tiene tra le coperte. Così mi godo solo l'ultima parte della bella luce che illumina il Velino e le rovine, che negli ultimi anni sono state liberate dalla vegetazione invasiva che le aveva avvolte. Dopo colazione ripeto il giro con il resto del gruppo. Con noi vengono a godersi il panorama due dei cani dell'albergo, mentre il lupo cecoslovacco se ne resta chiuso nel suo recinto. Scendiamo poi alle rovine romane nella conca, gironzoliamo per un po' e quindi saliamo al circo, costruito poco sopra il paese. È anche molto bella la chiesa romanica in cima alla collina, ma la dobbiamo saltare perché oggi pomeriggio abbiamo il treno e non possiamo indugiare troppo. La chiesa da visitare e il Velino da scalare sono due motivi per tornare qui.
Attraversiamo il paese nuovo sempre accompagnati dai cani, che qui trovano qualche amico da aggregare alla truppa. Quando ci allontaniamo dal paese capiscono da soli che devono tornare. Noi avevamo già telefonato preoccupati all'albergo, ma lì ci avevano risposto flemmatici che tuttalpiù se li sarebbero venuti a prendere a Tagliacozzo. Scendiamo alla piana qua sotto per un sentiero reso un torrente fangoso dal temporale di ieri pomeriggio. Facciamo un po' di equilibrismo sui bordi del rio per non inzuppare ulteriormente gli scarponi, già fradici per gli acquazzoni dei due giorni precedenti. Alla fine non ci caricheranno nemmeno un supplemento per il canyoning fuori programma.
Arrivati al fondo, procediamo per piste sui prati e poi per una sterrata che ricalca un vecchio tracciato romano, come ci aveva spiegato l'albergatore. Passiamo non lontano dal luogo in cui fu combattuta la battaglia di Tagliacozzo, decisiva nella contesa tra Svevi e Angioini per l'Italia meridionale. In realtà l'evento avvenne nei pressi di Scurcola Marsicana. Qui si manifesta un certo degrado nella forma di piccole discariche abusive. Una surreale tomba del re di Macedonia sconfitto dai Romani precede il guado dell'autostrada, per un sottopassaggio allagato.
Percorso un lungo tratto di strada asfaltata ai margini dell'autostrada, dove incrociamo un tizio che corre, saliamo nel bosco. All'imbocco della pista l'ultima discarica abusiva. Il primo tratto di salita è rovente, ma poi la copertura si fa fitta e possiamo goderci un po' di frescura. Svalicati, scendiamo tra dossi verdi per un pista dissestata, dove ci supera una Panda con due forestali. Qualche botto ci fa temere l'avvicinarsi del temporale, ma la loro regolarità ne svela l'origine artificiale: sono gli spari a salve di una festa patronale della zona.
Pranziamo in un ristorante-tabacchi, senza nome né insegne, ma ben conosciuto dagli abitanti della zona. Ci vengono naturalmente in auto e parcheggiano fin nel cortile, per non dover rischiare tre passi a piedi. Perciò, per non infangare l'interno, ci tocca farci stretti tra le auto accatastate contro il nostro tavolo. L'accompagnatore ci aveva promesso cacio e pepe, ma il programma non è compatibile con i nostri tempi stretti. Ci servono allora pasta fatta in casa e verdure.
Il cielo si fa di nuovo nero, ma tutto si esaurirà con poche gocce. Percorriamo quella che sembra una pista dimenticata, che però si rivela trafficata, anche da un Tempra targata TO. Alcuni ristoranti colmi di romani, ancora seduti a tavola alle 17, precedono la caotica statale, che presto lasciamo per uno stradello dove campeggia uno scheletro di cemento armato.
Siamo ormai al commiato. La piazza dallo stile veneto è la nostra meta. Il resto del paese si inerpica da qui verso una rocca, ma non abbiamo il tempo di visitarlo. Il treno incombe.
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Sergio Chiappino
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