Saretto-Chialvetta
Sentiero Roberto Cavallero
8 ottobre
Diario di viaggio
Lasciamo l'auto in uno spiazzo a monte di Saretto e cominciamo a camminare lungo la strada che sale alle sorgenti del Maira nel biotopo del pino uncinato. Per la verità avremmo potuto lasciarla tranquillamente più a monte, al campeggio, perché la strada è asfaltata. La giornata è molto bigia: poco sopra di noi incombe uno strato di nuvole compatte. Secondo Mercalli dovrebbe estendersi solo fino ai 2000 metri, ma da quanto è scuro sembra assai più spesso.
Giunti alle sorgenti, dobbiamo decidere che percorso seguire. Ci sono tre vie per Chialvetta: la più breve è per il colle Ciarbonet (il percorso occitano), poi ce ne sono due più lunghe, il sentiero Roberto Cavallero e il GTA. Optiamo per la seconda, perché è più lunga del percorso occitano ma sembra più diretta del GTA, che fa un giro ampio.
Nel primo tratto seguiamo il GTA attraverso un rado lariceto già sfavillante dei dorati colori autunnali. Quasi subito ci immergiamo nello strato di nuvole che ci avvolgerà per quasi tutto il trekking. Passiamo accanto al cartello che annuncia il lago Visaisa, ma lo vediamo a malapena attraverso il biancore della nebbia che veloce si addensa e si dirada come se fosse il respiro della montagna. Troviamo la deviazione per il sentiero Cavallero e pieghiamo a sinistra. Nel primo tratto è un'esile traccia, quindi scompare del tutto e bisogna fare affidamento solo sulle tacche. La situazione ideale col nebbione.
Ci fermiamo a mangiare perché è arrivata l'ora di pranzo (noi odiamo partire presto) e ci stratifichiamo a dovere, perché c'è poco da sudare. La nebbia intorno a noi è fitta, ma in quei venti metri che si vedono i colori sono sfavillanti: i larici sono tra il dorato e l'arancio, le piantine di mirtilli sono rosso vivo. Proseguiamo su un terreno aperto e spoglio, tra erba ormai striminzita e molti sassi. Per fortuna le tacche sono ravvicinate, altrimenti sarebbe impossibile capire dove andare e non ci resterebbe che piangere per la disperazione. Solo in un punto tra due dossi dobbiamo metterci a cercare a caso la tacca successiva persa oltre il muro grigio. Quanto amo la nebbia nei boschi e nei paesi, tanto la odio nei terreni aperti e a maggior ragione qui dove è pericolosa.
Dopo un ripido strappo su una scarpata di detriti incomincia una pietraia. Finalmente verso i 2400 metri la nebbia si dirada e si cominciano a intravedere la montagna e il colle sopra di noi. Grido entusiasta «La luce!» ai miei compagni rimasti indietro che mi restituiscono un urlo di soddisfazione. Quello che si vede però non è molto piacevole: tra noi e il colle c'è una ripida scarpata di detriti fini degna dei migliori ghiaioni dolomitici. Le tracce di sentiero scompaiono e così pure le tacche, cosicché devo salire a occhio su un terreno franoso, dove ogni passo in salita ne implica mezzo in discesa. Tra l'altro mica ho le malefiche bacchette, perché tanto siamo venuti per i percorsi occitani, tranquilli percorsi di media valle dove sono completamente inutili, pensavo a casa mentre cercavo di preparare uno zaino il più leggero possibile. Così cerco di limitare le derapate che mi tirano giù appoggiandomi alle pietre più grosse, che però sono instabili come la ghiaia, oppure appoggiando le mani a terra, tanto è così ripido che stando in piedi tocco il terreno all'altezza delle spalle.
Al colle finalmente mi rilasso e riesco q guardarmi intorno. Su entrambi i lati le cime sbucano da un mare di nebbia che si ferma poco sotto di me. In alto non c'è il sole, che è velato da un sottile strato di nuvole, ma è limpido, per cui si vedono monti a perdita d'occhio. Scatto le uniche due foto di vasti panorami che riuscirò a fare in questi tre giorni. Fa anche decisamente più caldo che sotto.
Dall'altro lato la situazione non sembra tanto diversa dalla salita, ma per fortuna c'è un sentiero ben tracciato e segnato che semplifica molto la vita. Così ripercorriamo a ritroso la sequenza dell'andata: ghiaione, nebbia, caccia alla tacca, terreno aperto desolato senza vedere a dieci metri. Sono così depresso che scatto una triste foto ai miei amici che sembrano perdersi nella nebbia. La intitolo "Gli amici se ne vanno". Finalmente sbuchiamo nel GTA che scende dal colle di Enchiausa e possiamo smettere di cercare il prossimo segno rossoblu.
Passiamo accanto ad un branco di cavalli, che sembrano spettri neri. Comincia a piovigginare. All'imbrunire arriviamo a Viviere tra magnifici alberi gialli. Peccato che si sia fatto troppo buio e non riesco più a scattare foto a mano libera. Le mulattiere selciate zuppe di acqua sono scivolosissime.
Arriviamo a Chialvetta quando è quasi buio e ormai il gestore dispera di vederci. Gli chiediamo la cena immediatamente, saltando la doccia e fiondandoci subito a tavola. La cena è ottima e abbondante. Tutta roba semplice: riso avvolto dalla toma, verdure dell'orto e scaloppine. Tra le verdure ci sono delle patate viola (che loro chiamano patate blu), portate in dono da un amico dal Sudamerica e ora coltivate in loco. Sanno di patata. Molto scenografica la presentazione del secondo, con le verdure disposte in ordine geometrico: non fosse stato per la fame, sarei salito in camera a prendere la macchina fotografica.
Fortuna che la camerata e il bagno sono riscaldati, perché l'umidità è penetrante. Il piano del balcone, pur essendo al riparo, è fradicio di rugiada, così come le sedie su cui sedersi per togliersi gli scarponi prima di entrare. In esse si vede lo spirito che anima la vita da queste parti, spirito di chi si deve ingegnare per sopravvivere: una sedia è un letto con un vecchio materasso consunto, l'altra è il sedile posteriore di un'auto.
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Sergio Chiappino
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