Chialvetta-Ussolo
Colle del Sarasin
9 ottobre
Diario di viaggio
Al mattino, prima di colazione, faccio un giro per Chialvetta per cogliere alcuni angoli del paese con macchina fotografica e cavalletto. Molte case sono state ristrutturate e sono bellissime. Ce ne sono anche di rustiche, perché un buon numero è molto grande e poche persone potrebbero permettersele, per cui sono in stato di abbandono. Ad esempio, quella in cui si trova il posto tappa ha cinque o sei stanze al piano terra e altre al primo piano.
Tra i luoghi che visito mi colpisce molto un cortiletto tra una casa ristrutturata e una vecchia stalla, dove il proprietario ha disposto dei vasi di fiori e una vecchia carriola con una cura per la composizione di uno scafato pittore di nature morte. C'è poi La misun d'en bot (Casa dell'una), un locale in cui il gestore del posto tappa ha raccolto strumenti della vita dei vecchi montanari.
La porta del locale caldaia del posto tappa è aperta, così posso vedere il raduno dei gatti del paese che si riparano dal freddo dormicchiando sulla caldaia, dove l'ospitale gestore ha posto un coperta di lana. Non sembrano spaventati dalla mia intrusione, solo sorpresi dal fatto che non porti loro le crocchette.
Partiamo ancora immersi in un nebbione autunnale. Seguiamo nel primo tratto la strada per non inzupparci subito i pantaloni in un sentiero inerbito. Passiamo da Gheit, frazione ristrutturata con molta cura e tenuta come un gioiellino. Scendiamo quindi per lo scurcio tra piante avvolte da ragnatele grondanti di rugiada fino a Frere e da lì ad Acceglio per una stradina alberata. Siamo finalmente scesi sotto lo stato di nuvole e riusciamo a goderci la valle accesa dai colori autunnali.
Ad Acceglio tentenniamo un po': siamo indecisi se puntare verso Lausetto e poi seguire la strada a mezza sole o se salire diretti verso le Grange Serri. Alla fine optiamo per la via breve, visto che non avrebbe molto senso fare un giro più lungo se non si può vedere che a venti metri. Nel primo tratto è una bella mulattiera che corre tra cespugli colorati con vista su Acceglio e sui colori della valle, ma dopo un po' ritorniamo nella nebbia. La mulattiera si riduce a sentiero e ogni tanto si smarrisce anche. Dopo un guado su un rigagnolo fangoso bisogna entrare nel boschetto e, senza arrivare ai ciliegi, piegare a sinistra in lieve salita per andare a guadare il corso d'acqua una seconda volta. Di lì si risale e lo si guada per la terza e ultima volta per ritrovare un sentiero evidente. Più in alto si perde ancora talvolta. Si vede anche la vecchia mulattiera, che è stata abbandonata alla rovina. Si entra in una pecceta degna di un racconto horror, così buia che non riusciamo a vedere le tacche sugli abeti e ci tocca trovare l'uscita giusta per tentativi (bisogna piegare a sinistra).
Per un traverso con poche tacche ma traccia ben marcata si arriva ad un prato in piano con delle grange, oltrepassando le quali si trova la strada che va seguita (ci dovrebbe essere anche un percorso tra i prati ma con questa nebbia è meglio evitare). Qui troviamo una mandria di mucche di razza piemontese radunate e pronte per essere portate a valle. Proseguiamo lungo la strada verso le grange soprane, fermandoci a mangiare sui dei sassi. La nebbia è così fitta che potemmo essere ovunque, anche nella bassa padana.
Saliamo fino alla fine della strada, dove dovrebbe partire il sentiero GTA, ma di fronte a noi c'è solo un prato senza punti di riferimento. Per fortuna la grangia è abitata, così proviamo a chiedere. Esce un vecchietto che ci risponde che «a venta andè su da lì», indicando un prato senza tracce nè tacche, che si interrompe a quindici metri contro un muro grigio di nulla. «Anc'eui alè nen tant facil», ci spiega, altrimenti noi non ci saremmo mai arrivati. Poi rientra serafico. Almeno ha parlato in piemontese e non in occitano, è stato disponibile, seppure a modo suo. Ci guardiamo esterrefatti e concludiamo che non abbiamo molte alternative oltre al provare. Saliamo cercando di restare compatti senza trovare nulla per un po', quindi troviamo un sentiero di traverso che sembra scavato da uomini, diverso dalle solite tracce del bestiame. Lo seguiamo e quasi subito troviamo una tacca biancorossa: il GTA! Fiuuuuuuu. Le tracce non sono sempre evidenti, ma riusciamo andare di tacca in tacca, anche grazie a dei segni gialli frequenti. In breve siamo al colle del Sarasin. Secondo la cartina qui vicino ci dovrebbero essere dei balconi sulla valle, ma chiaramente oggi non è giornata.
Non piove, ma indossiamo lo stesso giacche e coprizaini perché la condensa si rapprende su di noi. Presto scoprirò che anche i capelli sono fradici e tirerò su il cappuccio. Per fortuna il sentiero sull'altro versante è molto evidente e non abbiamo più problemi di orientamento. Scendiamo in un lariceto, tra guadi e pozze di fango fino a sbucare su una stradina. Passiamo tra grange spettrali, alberi isolati dai colori accesi, che però si vedono solo da vicino, perché già a venti metri sono ombre nere. Seguiamo per un tratto la strada e poi ci infiliamo in una bella mulattiera delimitata dai muri a secco ricoperti di muschio. La vegetazione bassa e grondante di rugiada ci lava gli scarponi dal fango.
Giungiamo a Vallone, la frazione sopra Ussolo. Anche qui troviamo case grandi, con tetti molto ampi e quasi piatti. Ci spiegheranno che una volta la neve cadeva e poi rimaneva senza sciogliersi fino a fine stagione e il tetto la reggeva. Oggi invece gli sbalzi termici sono più frequenti, per cui la neve si scioglie e ghiaccia per poi cadere, dando seri problemi alle lose che vengono danneggiate e devono essere riparate frequentemente.
Arriviamo infine a Ussolo. Il posto tappa è nell'ex-sede comunale; una volta c'erano 800 abitanti (oggi sono solo più 5 che resistono tutto l'inverno) ed era un comune autonomo, mentre oggi è inglobato in Prazzo. Di fornte c'è la casa in cui abitava il pastore ne Il vento fa il suo giro. Ristorante e camere sono ai capi opposti del paese, per cui ci tocca fare qualche salita supplementare, ma la sistemazione ha anche dei vantaggi perché nel ristorante stasera è prevista musica occitana fino alle due.
La cena consiste in un antipasto e in pasta al forno più il dolce. Il primo piatto ci traumatizza, perché consiste in due acciughe (di numero), due mezzi pomodorini, un minuscolo tomino con un pugnetto di salsa verde e tre fettine di salame. Tutta roba ottima, ma un po' poco per recuperare le energie di sei ore di marcia. Già fantastichiamo di dover reintegrare con pane e acqua, le uniche cose che abbondano, quando ci arriva una porzione congrua di pasta al forno, sia con carne che vegetariana. Anche la panna cotta è buona. Accanto a noi cenano alcuni anziani che hanno l'aria di essere i ras della valle, perché discutono animatamente di lavori pubblici.
La sera ascoltiamo il concerto. I musicisti sono fracassoni (amplificano pure la ghironda in un locale chiuso), ma la musica è gradevole. Nel locale si salta e si sbevazza alla grande. Ci sono una coppia che balla bene, una tedesca cinquantenne che balla per conto suo muovendosi come una bambina ed è refrattaria ad imparare i passi giusti, i vecchi con le mogli che ballano i valzer, alcuni giovani che se ne stanno a chiacchierare nell'altra stanza. Commozione generale e abbracci quando si intona "Se chanto", inno di queste valli che racconta l'amore per una ragazza lontana, emigrata in Francia. Verso mezzanotte li abbandoniamo e torniamo nella nostra camerata, attraversando un paese immerso nel silenzio rotto dai bramiti dei cervi, nelle tenebre e nell'immancabile nebbia.
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Sergio Chiappino
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