Cala Luna-Cala Sisine
Supramonte di Baunei
14 aprile
Diario di viaggio
Al mattino mi sveglio presto per godere del colorato spettacolo dell‘aurora sul mare, esperienza che nella Pianura padana non capita molto spesso. La mia speranza è che la parete di Cala Luna venga illuminata dai raggi del sole, ma purtroppo resterò deluso in questo, perché il sole non sorge abbastanza a Nord. Verso le 6,30 il cielo comincia a colorarsi di rosso e dipinge il mare di un delicato arancione. Poi sorge il sole. Dapprima è filtrato dalla foschia all‘orizzonte, ma poi si accende e colora di arancio vivo una scia sul mare e le nuvole.
Prima di fare colazione tocca la tortura cinese dell'ultimo guado gelato. Stavolta è la peggiore, perché si arriva già coi piedi raffreddati dalla sabbia ed è una vera sofferenza, ma la finale.
Oggi seguiremo per un lungo tratto una mulattiera che collega Cala Luna con i cuiles in alto. Queste mulattiere venivano tracciate dal mulo in persona. Per prima cosa lo si caricava al limite delle sue capacità, altrimenti sarebbe andato su diritto per il pendio, e poi lo si mandava su con un uomo che gli indicava la direzione di massima da seguire. Il tracciato che l'animale sceglieva era considerato quello ottimale. Ho percorso molte volte queste mulattiere nelle alpi, e devo dire che sono fantastiche: consentono di salire di 1000 metri senza affaticarsi, da quanto sono regolari e con la pendenza giusta.
Saliamo a guardare la spiaggia dall'alto, poi giriamo intorno alla montagna ed entriamo in un ambiente di pendii verdi e bianchi di macchia, lecci e calcare. Qua e là, ciclamini e rosmarino fiorito ravvivano di colori vivaci l'ambiente. Respiriamo l'odore gentile dell'elicriso, che una volta era usato per profumare la biancheria. Su una piazzola di una parete si erge solitario un ginepro. Ad un certo punto alcuni eletti vedono dei mufloni sul versante opposto della montagna, ma sfortunatamente non sono tra questi. Passiamo di fianco ad una piazzola dei carbonai: questi boschi, soprattutto tra metà Ottocento e inizio Novecento, sono stati oggetto di tagli indiscriminati per produrre carbone e traversine per i binari dei treni, per cui oggi rimangono pochi lembi di foresta con alberi antichi.
Passiamo poi di fianco ad un arco di roccia detto S‘Archiddu Lupiru (ho trovato una grafia diversa in ogni fonte che ho consultato e ne ho scelta una a casaccio). Si tratta di un gigantesco ellisse scavato dal vento in una sottile falesia. A giudicare dalle foto, sarà alto 14 metri e largo 8. Lo spessore della falesia è davvero ridotto, circa un metro. La vista sul mare attraverso il foro offre un'occasione unica per foto suggestive. Archi come questo sono abbastanza comuni nella zona; lungo il percorso del Selvaggio blu se ne incontrano diversi. Facciamo una deviazione e una breve pausa per godercelo con calma.
Riprendiamo la salita fattasi più ripida e salendo di quota il panorama si apre. Abbandoniamo il sentiero e seguiamo un pendio ripido per dirigerci verso il cuile Onamarra. I cuiles sono le tipiche abitazioni dei pastori del Supramonte. Oggi quelli come questo, non raggiunti dalla strada, non sono più usati, ma grazie alle tecniche costruttive usate, sono ancora in buono stato.
La costruzione ha un basamento circolare di circa due-tre metri di diametro costituito da pietre. Gli spazi tra i sassi venivano riempiti di materiale a grana fine in modo da eliminare gli spifferi. All'interno sono lasciati degli spazi vuoti che servono da ripostigli. Al di sopra c‘è una struttura a tepee di legni di ginepro, disposti con cura in modo da non lasciar filtrare l'acqua. Al posto della porta si usano legni di ginepro piatti, che possono essere rimossi in parte in modo da dosare il ricambio d'aria. Lo spazio all'interno è ridotto al minimo. La vita qui era assai dura. Basti pensare alla carenza di acqua: per prenderla c'era qui vicino una grotta in cui ne filtrava un po', ma più spesso bisognava scendere con il mulo fino alla codula di Luna per rifornirsi nelle pozze del torrente in secca. Per di più quest'acqua molto calcarea, accoppiata ad una dieta ricca di formaggio, provocava a molti i calcoli renali.
Saliamo sulla cima vicino al cuile per godere di un panorama a perdita d'occhio. Sul versante opposto a quello da cui siamo saliti, la montagna precipita in verticale verso la valle della codula di Luna, profonda ed incisa, mentre lontano si vedono le bianche montagne del Supramonte interno.
Riprendiamo la marcia in un mare di sassi bianchi da cui emergono come isolette i cespugli della macchia e andiamo a riprendere la mulattiera, che corre in piano per un tratto. In un punto improvviso bisogna lasciare la mulattiera per prendere a sinistra una traccia invisibile che scende su Cala Sisine. Segnalazioni, neanche l'ombra: né ometti, né paline, nemmeno una tacca. Per la verità, una volta c'erano delle scritte (-100m, -50m) che avvisavano dell'avvicinamento al punto della deviazione, ma sono state rimosse da qualcuno. Come le nostre guide locali, tanto per non fare nomi.
Passiamo un altro bivio non banale (bisogna prendere a destra) e troviamo una costruzione davvero insolita per queste zone: un‘aia per trebbiare il grano. C'era qui infatti un minuscolo fazzoletto di terra, un'isola in mezzo al pietrame calcareo, in cui era possibile coltivare il grano. Si vede ancora il cancello del recinto che impediva agli animali l'accesso alla zona. Certo che doveva essere ben dura coltivare qui, con la sola acqua piovana.
Passiamo poi accanto al cuile Su Rovelungo, dove ci fermiamo a mangiare. Inizia quindi una ripida discesa lungo una traccia in un fitto bosco di giovani lecci e corbezzoli. Al termine del bosco un traverso ci riporta a contatto col mare blu. Riesco a scattare una foto in cui speravo quando sono partito: uno scheletro di ginepro aggrappato alla falesia che si staglia contro il mare. I ginepri morti sono una costante del paesaggio di questa terra, perché il loro legno è così resistente che non va incontro alla naturale decomposizione, ma dura quasi in eterno. Non per nulla era il materiale principe per la costruzione dei cuiles, che resistono senza problemi a decenni dall'abbandono.
Al termine del traverso compare piccola in basso Cala Sisine, una breve striscia di ciottoli circondata da pendii verdi da cui si staccano falesie di calcare che a volte arrivano al mare. Più avanti si mostra nella sua forma di semicerchio che si affaccia su un mare con mille tonalità di blu, dal turchese dei fondali bassi e sabbiosi, al blu oltremare sopra le praterie di posidonia.
Altra discesa e siamo sul fondo della codula Sisine, dove termina la tappa. Arrivando, vedo in lontananza un gatto grigio. Subito penso che si tratti del gatto del ristorante, ma poi non lo vedo più ricomparire per cui deduco di aver visto un gatto selvatico. Sul fondo della codula, dopo l'alluvione del novembre 2008 si è formato un laghetto di acqua salmastra e stagnante, che dal retro della spiaggia corre verso l'interno. La spiaggia è formata da piccoli sassi bianchi ed è chiusa da ambo i lati da ripidi pendii boscosi interrotti da falesie verticali.
Galleria fotografica
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Sergio Chiappino
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